Prosegue il nostro viaggio alla scoperta dei titoli in concorso alla 74mo Festival di Cannes. Si tratta del secondo capitolo dedicato alle dichiarazioni dei registi, a partire da quelle attese di Wes Anderson che, a sorpresa, sulla Croisette non terrà alcuna attività stampa, lasciando i giornalisti a bocca asciutta.
BERGMAN ISLAND: SULLE TRACCE DI INGMAR
"Bergman Island è un film doppio: da un lato, è un film sull'amore per il cinema, soprattutto di Bergman; dall'altro lato è invece un film su una doppia storia d'amore. Nulla è stato deciso prima a tavolino: è venuto per caso e ha preso piede quasi da solo. Bergman Island potrebbe essere il primo mio film che si è scritto "tutto da solo", senza quella sofferenza a cui associo il processo di scrittura. Ho avuto la sensazione che si fossero aperte porte chiuse fino a quel momento ed era l'isola che lo permetteva. Per la prima volta, mi sono sentita libera di muovermi in maniera ludica tra diverse dimensioni, tra passato e presente, tra realtà nella finzione e finzione nella realtà. Il tutto poi riportava sempre a due temi che convergevano: quello della coppia e quello dell'ispirazione. In una coppia di registi, quanta solitudine deve esserci e quanta complicità? Da dove viene l'ispirazione per la scrittura? Come trova la strada per trasferirsi su una pagina di sceneggiatura? Da tempo avevo voglia di fare un film su questo tema ma è stato solo quando ho deciso di portare la coppia di registi a Fårö, nei paesaggi e nel mondo di Bergman, che il progetto ha preso vita. Ed è lavorando sul posto, stando in una delle case di Bergman e sperimentando in qualche modo il film che stavo cercando di scrivere, che tutto ha preso forma. Si intrecciano così due differenti parti, un film nel film, quello di un amore giovanile che non riesce a finire e quello della scrittura della regista Amy. Tutto ciò che vediamo non sappiamo a quale parte appartiene, se è passato o futuro, se è accaduto realmente o è un sogno. Tale confusione riflette bene il mio processo di scrittura. A volte, ho l'impressione che fare film mi permetta di ricreare ricordi che tendono a sostituire la realtà che li ha ispirati".
Mia Hansen-Løve
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PETROV'S FLU: UNA FEBBRE DA ROMANZO
"Il romanzo da cui è tratto è così ricco di temi, motivi, argomenti e punti focali. Ed è strutturato come una sinfonia: alcune trame emergono, alcune si dissolvono e altre continuano a ripetersi, come se fossimo bloccati dentro la mente febbrile del protagonista. Adoro tale struttura sinfonica.
Petrov's Flu rappresenta il tentativo di far capire cos'è la Russia è per tutti, condividendo i nostri ricordi d'infanzia, le nostre paure e le nostre gioie, dicendo al pubblico cosa amiamo e odiamo e cosa ci fa infuriare e cosa adoriamo, e mettendo in piazza la nostra solitudine e i nostri sogni. Volevo che questo film fosse molto sensuale e pieno d'amore. Non avevo pianificato di girarlo: in qualche modo, è arrivato all'improvviso, mi ha catturato e sono stato felice di innamorarmene. In un momento particolarmente buoi nella mia vita, è diventato un modo per sfogarmi e la mia principale fonte di felicità, e forse anche la mia ancora di salvezza".
Kirill Serebrennikov
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THE FRENCH DISPATCH: UN OMAGGIO AL CINEMA FRANCESE E AL GIORNALISMO INDIPENDENTE
"Quando ero in seconda superiore, la mia stanza a Houston era nella biblioteca e di fronte a me c'erano gli scaffali di legno contenenti le riviste. Ce n'era una con in copertina un'illustrazione e ho iniziato a guardarla. Da quel momento, sono diventato un affezionato lettore del The New Yorker, leggendone non solo i nuovi numeri ma anche gli arretrati e facendo attenzione al nome degli scrittori che apparivano più volte. Nel film, è molto forte il legame con la parola scritta, che si presenta a diversi livelli: c'è quello che vedi sullo schermo, ci sono i sottotitoli, c'è la trama principale legata alla rivista e c'è il rapporto che i giornalisti hanno con un certo tipo di scrittura, oramai persa. L'eroe di ogni storia raccontata, in fondo, è chi l'ha scritta.
La mia passione per il cinema francese è cominciata quando ero ancora un ragazzino. Il cinema francese comincia con il cinema stesso, con i fratelli Lumière e con Georges Méliès. Amo i registi degli anni Trenta, Julien Duvivier, i racconti marsigliesi di Marcel Pagnol e i film di Jean Grémillon, a cui sono da poco giunto. E poi Jacquest Tati, Jean-Pierre Melville e i registi della Nouvelle Vague: Truffaut, Louis Malle e Godard. E forse al centro di tutto c'è Jean Renoir, che ha ispirato il personaggio di Rosenthaler, il pittore folle, con il suo Boudu salvato dalle acque.
The French Dispatch è anche un omaggio alla Francia, la nazione che mi ha adottato e in cui vivo da diversi anni. Ed è al tempo stesso una riflessione da parte di un outsider che vede il mondo artistico francese dall'interno.
Wes Anderson
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MEMORIA: DA TOURNEUR ALLA COLOMBIA
"Ho immaginato una sceneggiatura in cui Jessica Holland, un personaggio comatoso di Ho camminato con uno zombie di Jacques Torneur, si sveglia. Si ritrova a Bogotà, attratta da un sogno o da un trauma che non ricorda. Cammina, si siede e ascolta. Nel suo breve viaggio sudamericano porta con sé la malinconia di uno sconosciuto. Suoni clandestini a distanza riecheggiano attraverso la terra. Ancora avvolta nella nebbia del film del 1943, sente i rimbombi dei tamburi voodoo. La incoraggiano a camminare e a diventare parte di un rituale. Per un secondo, si chiede se è ancora in quel film, sdraiata a letto, aprendo gli occhi da un sogno. Poi, come la notte precedente, l'eco la conduce verso l'oceano buio.
Sbirciando nella testa di Jessica, vediamo le montagne con le loro pieghe e il curve che imitano quelle del cervello o delle onde sonore. I suoi passi fanno gonfiare e tremare il terreno interno, generando frane e terremoti. Da lontano, vediamo solo una donna che cammina. Si ferma in Plaza de los Periodistas e scatta una foto.
Per anni mi sono svegliato solitamente dopo tre ore di sonno, fresco. Poi, entravo in una fase di "deriva teatrale", in cui gli scenari andavano e venivano. Non era un sogno: non facevo altro che essere uno spettatore. Poche ore dopo, all'alba, il botto arrivava come una seconda sveglia. Il piacere del "bang" si espandeva all'indietro per essere incluso nel territorio della "deriva", che era diventato una sorta di mondo sotterraneo. Le immagini erano fioche, come se fossero in una fase di decadenza. Non se ne capiva chiaramente la logica. Il tempo era rallentato. Come sarebbe attingere ai ricordi di altre persone o fare un film in un Paese straniero? Possedere/Essere posseduti: uno stato di equilibrio che si raggiunge quando il sé viene rimosso, quando il nulla può significare libertà. Forse questa era la risposta a tutto, inclusa la migrazione di Jessica/Tilda".
Apichatpong Weerasethakul
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FRANCE: L'ORRORE DELLE FAKE NEWS
"France è la storia di una giornalista star di un canale che trasmette solo notizie per 24 ore al giorno, sullo sfondo di un mondo fortemente sconvolto da quell'universo quasi parallelo dei media e dei social network. Le società umane hanno perso parte della loro normalità e dei loro equilibri naturali a causa di una società iper digitale e comunitaria. L'ipertrofia del nuovo pensiero porta a un disordine che dà una nuova interpretazione della realtà, la distorce e la sconvolge ulteriormente.
Questa nuova ottica digitale causa - attraverso le immagini e i suoni dei media e la loro realtà sempre ricostruita e distorta - conseguenze sociali e simboliche che non sempre si possono prevedere. Un esempio è quello dei gilet gialli: l'indumento, appositamente di colore fluorescente per migliorarne la visibilità a scopo antinfortunistico, ha finito con l'essere indossato anche dagli scolari per camminare normalmente per strada. In poche parole, i media e internet hanno cambiato il senso di ogni cosa e nel loro tumulto causano una sorta di demenza sbagliata.
La finzione sta avendo la meglio sulla realtà. Le immagini e i suoni costruiscono un mondo parallelo che nulla ha a che vedere con ciò che è vero. Un tempo, la finzione era relegata al cinema. Ora esce invece dalle sale e confonde le linee di demarcazione: la realtà diventa una finzione e la finzione un universo alternativo. Possiamo dire che oggi c'è tanto cinema ovunque, in tutti i media".
Bruno Dumont
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NITRAM: l'USO IMPROPRIO DELLE ARMI
"Il ritratto che la sceneggiatura di Nitram dipinge, la famiglia che ha creato e la stessa strada in cui vive, mi hanno parlato, mi sono sembrati familiari. Questo dispiegarsi progressivo del personaggio, questa disintegrazione e questo isolamento mi hanno spinto inesorabilmente a considerare come una persona può trasformarsi in Leviatano. E, una volta che ha raggiunto la sua fase più pericolosa e instabile, cos'è che lo ribalta e lo spinge a fare la scelta peggiore che si possa immaginare?
Il momento in cui si sente più incertezza è quando compra le sue prime armi da fuoco. L'orrore di questa scena mi porta a sostenere maggiormente una riforma legislativa sulle armi, più di qualsiasi discussione o statistica sull'argomento. Cristallizza il dramma in un modo che dimostra chiaramente gli errori del passato e come le regole sulle armi possano essere al servizio dei più vulnerabili e pericolosi.
Sin dal mio primo film, mi sono interessato al motivo per cui certi giovani cercano risposte in una forma di violenza così estrema. È a causa di un vuoto culturale, che priva questi esseri di una vera comunità, è dovuto a una mancanza di senso di appartenenza? Quando non c'è la Chiesa a unire, nessun attaccamento alle proprie radici, nessun legame con la terra o il proprio paese, quali punti di riferimento si hanno? Quali sono gli elementi che arrivano a deviarli e a spingerli verso il bisogno, insensibile e sciocco, di uccidere?".
Justin Kurzel
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THE RESTLESS: UN AMORE BIPOLARE
"A ispirare la sceneggiatura, in una prima fase iniziale, sono state le esperienze dirette che ho avuto con mio padre bipolare. Voleva fare il fotografo e, in effetti, per un po' lo è anche stato ma non ha realizzato a pieno il suo sogno. Ammirava molto i ritrattisti e insisteva sul fatto che mai e poi mai avrebbe fatto fotografie di matrimonio. Voleva guadagnarsi da vivere senza dover fare quel tipo di lavoro e per tale ragione ha cominciato a fotografare quadri. Molti artisti gli portavano i suoi lavori, lui li allestiva, li illuminava e li fotografava. Sono cresciuto circondato da ciò e con un rapporto diretto con i dipinti, la luce, l'inquadratura e la fotografia. Ciò mi ha fatto nascere un'immensa ammirazione per i pittori, ammirazione che si è poi cristallizzata nel lavoro e nella personalità dell'artista visivo belga Piet Raemdonck.
Fino al giorno in cui abbiamo cominciato i preparativi per il film, il protagonista era un fotografo. W poi è arrivato invece Damien (Bonnard). Aveva studiato Belle Arti ed era stato assistente della pittrice Marthe Wéry a Bruxelles. E, così, il protagonista è passato dall'essere un fotografo al divenire un pittore. Durante il processo di scrittura, ho fatto spesso visita a Piet e in qualche modo volevo che il suo studio fosse trasposto nel film. Così come lo studio di Bernard Dufour è divenuto lo studio di Michel Piccoli in La bella scontrosa, così quello di Piet Raemdock è diventato quello di Damien Bonnard.
Damien ha trascorso tre settimane con Piet, preparando insieme i dipinti per il film. Damien ne ha cominciato alcuni che poi Piet ha ultimato. Diversi sono stati realizzati interamente da loro due, così come quello che Damien dipinge nel film durante un episodio maniacale. Quando ho visto i dipinti sul set insieme a tutti i materiali di Piet, il film ha iniziato a prendere vita".
Joachim Lafosse
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A HERO: STORIE DI TUTTI I GIORNI
"Ognuno ha le proprio ragioni per comportarsi come fa, anche se non necessariamente ne ha consapevolezza. Se gli venisse chiesto di elencarle, non ci riuscirebbe. A volte le ragioni non sono chiare o facilmente riassumibili. Sono una massa di contraddizioni, non sono né chiare né semplici. Sappiamo bene che gli individui possono impiegare anche anni per trovare dentro di loro le ragioni delle loro azioni, profondamente sepolte nel loro passato. Devo però chiarire che ciò non significa che ogni azione è giustificata: non è una questione di legittimazione ma di comprensione. Comprendere non significa legittimare. Riconoscendo le ragioni che hanno spinto un individuo ad agire, possiamo capirlo ma non dobbiamo necessariamente dargli ragione.
Era da tempo che leggevo sulla stampa storie con protagonista gente comune che guadagnava la ribalta dei titoli a causa di un gesto altruistico. Queste vicende hanno spesso delle caratteristiche comuni. A Hero non è stato ispirato da una notizia specifica ma, mentre lo scrivevo, avevo in mente tutte le storie lette sui giornali.
Come nei miei film precedenti, lo spettatore non troverà le risposte a tutte le domande sollevate. L'ambiguità (talvolta, anche misteriosa) si insinua durante la scrittura e devo ammettere che oramai sono affezionato a essa. Finisce con il rendere più duraturo il rapporto tra il film e lo spettatore, che non finisce alla fine della proiezione ma va avanti nel tempo facendo sì che si torni a pensare alla storia e a esplorare ulteriormente ciò che viene definito indecidibile".
Asghar Farhadi
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2. Continua
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