Ovvero il Festival del ritorno: da luogo virtuale a fisico. Finalmente.
[Rimasta comunque l’edizione on line, eccezion fatta per qualche opera più importante]
Ritorno anche per il sottoscritto in quel di Udine, sebbene solo per tre giorni; e respirare nuovamente quella magnifica aria festivaliera è stato impagabile.
Giornate frenetiche di film asiatici e di calura asfissiante: non ho idea di come sia a Cannes (che comincia a breve: buon divertimento, Fabio!) o a Venezia ma i 34° gradi e oltre di clima afoso e appiccicaticcio – specie nelle lunghe camminate tra albergo e cinema – sono stati un’esperienza tra il mistico e l’olistico.
Salvifico quindi immergersi nel confortevole buio delle sale, del Visionario e del Centrale.
Abbandonata la storica sede del Teatro Nuovo (per ragioni poco comprensibili), il Festival ha avuto come location principale il cinema Visionario, all’uopo corredato di un paio di furgoncini da street food e soprattutto un’arena nel giardino con maxischermo per le proiezioni serali. Spettacolare.
Per la cronaca, questi sono i vincitori del Far East Film Festival 2021:
1 - Midnight Swan, UCHIDA Eiji, Giappone;
2 - You're Not Normal, Either!, MAEDA Koji, Giappone;
3 - My Missing Valentine, CHEN Yu-hsun, Taiwan;
Alcune note personali (leggi: cazzatelle) prima della consueta nonché imperdibile carrellata di quanto visto (molto poco, per i miei standard abituali):
- la megadirettrice Sabrina Baracetti faceva le sue presentazioni solo in video, dunque non l’abbiamo mai vista zompettare in sala, accompagnata da musiche e applausi e urla di giubilo e giudizi poco lusinghieri (tipo i miei) sui suoi discutibili outfit. Peccato;
- altra pecca, purtroppo, la ovvia assenza di autori, attori, membri della troupe delle opere presentate, che in passato hanno spesso fornito performance di un certo livello (anche alcolico): ci si è dovuti contentare di brevi video introduttivi dei registi;
- ogni volta che uscivi dalla sala, anche per pochi metri e per pochi secondi, rimanendo negli spazi esterni antistanti, e poi rientravi per una capatina in bagno o nella saletta del merchandising o per il prossimo film, ti misuravano sempre, rigorosamente, la temperatura corporea: a fine giornata il conteggio era sulla decina di misurazioni. Ok, non avevo la febbre (né la febbra);
- a proposito di febbre: ho seriamente rischiato di saltare l’evento giacché in seguito alla seconda dose di vaccino effettuata tre giorni prima ero stato male fino all’antivigilia; non ho superato i 38° ma stavo ridotto peggio di uno zombie a cui hanno tolto la gioia di vivere. O costretto a una cura Ludovico di muccinate. Ce l’ho fatta per un pelo;
- c’era gente, sì, meno del delirio cosmico degli anni normali, ma le facce di chi si godeva l’avventura e di chi, tra staff e volontari lo permetteva, erano quelle giuste;
- non mi è parsa un’edizione memorabile, per quanto proposto; potrei però aver mancato il meglio, chissà;
- che ha fatto un caldo torrido l’ho scritto? Ecco, faceva caldo, tanto. Con la mascherina addosso per strada – fino a lunedì 28 giugno, allorché è decaduto l’obbligo – è stata una tortura infernale. Bello starsene a casetta a guardarsi i film sul pc, eh? Spero calorosamente, ardentemente, focosamente in una edizione 2022 al fresco primaverile. Grazie;
- non so come ma ho resistito a fare la solita incetta di dvd, libri e gadget vari (penne, matite, tazze, segnalibri): ho preso soltanto il sontuoso, irrinunciabile catalogo, a prezzo scontato in quanto munito di accredito, e una t-shirt nera con l’immagine del Festival. I risparmi li ho spesi in alcol, sesso, droga e gelato.
[foto pubblicata sulla pagina fb del Far East. Quello a destra, appollaiato con inusitata grazia, è il sottoscritto, all'apparenza chino sullo smarthone a cincischiare, in realtà impegnato a interrogarsi sui principi fondamentali del confucianesimo]
Ora spazio ai film visti, in rigoroso untuoso ordine cronologico, conditi di incontestabili brevi commenti nonché voti. Alla prossima.
1 – SEOBOK, Lee Yong Zoo, Corea del Sud
Seobok è un classico esemplare di fantascienza umanistica, che riflette principalmente su concetti quali la (im)mortalità e su cosa significa essere “umani”. Si filosofeggia e si ciancia, tanto: nulla che resti impresso tra il mare di pensieri di riporto e banalità assortite, mentre gli evidenti alti valori produttivi rivelano intenti ambiziosi che si esplicano prevedibilmente in roboanti sequenze action che – tra sparatorie, inseguimenti ed esplosioni – riducono la portata introspettiva dell’opera. Al centro del racconto una strana coppia: l’uomo, Gi-heon, ex agente segreto affetto da male incurabile e sensi di colpa per un’azione passata da un lato, e Seobok, ragazzo creato artificialmente tramite clonazione che non dorme né può morire, dall’altro. La fuga dal laboratorio in cui il non umano è “nato” e cresciuto, e la successiva fuga nei meandri urbani del duo, genera ovvie dinamiche (e l’unico, furtivo momento di alleggerimento); la scoperta dei “poteri” di Seobok scivola invece verso una banale deriva supereroistica che la presenza di cattivi anonimi (membri delle autorità e ricconi con il pallino dell’immortalità) accentua in senso risaputo. Fino all’accumulo di colpi ad effetto a cui si fatica a credere. In definitiva, Seobok non convince, si prende tremendamente sul serio potendo contare solo sulla buona prestazione dei protagonisti.
voto: 4,5
2 – BLUE, Yoshida Keisuke, Giappone
In un’edizione traboccante film sul pugilato, chissà per quali curiose coincidenze, Blue opta per una descrizione realistica, credibile sia per la qualità delle coreografie dei combattimenti che per la costruzione dei personaggi e delle loro storie. Quattro i personaggi principali: accanto ai due amicissimi Urita il determinato ma perdente (interpretato dalla star Matsuyama Kenichi) e Ogawa il vincente, in corsa per il riconoscimento nazionale massimo della sua categoria ma alle prese con le conseguenze cliniche dei tanti colpi presi (demenza, offuscamento della vista ecc.), si uniscono la fidanzata di quest’ultimo, Chika, vero punto di ancoraggio al mondo esterno, al reale, e il goffo giovane Narazaki, che capita nella palestra di boxe per imparare a fare finta di essere un vero pugile. Nella evoluzione dei loro percorsi, nelle interazioni che svelano importanti aspetti personali, si snodano i passaggi di una parabola capace di raccontare in maniera incisiva le motivazioni che stanno dietro a scelte per i più incomprensibili, quali intraprendere la via del pugilato malgrado vettori avversi, come anche dare dignità a coloro ai quali ci si riferisce, normalmente con malcelato disprezzo, come “perdenti”. Nulla di trascendentale ma ben fatto, con un efficace bilanciamento delle componenti drammatiche, brillanti, sentimentali e action.
voto: 6,5
3 – MY MISSING VALENTINE, Chen Yu-hsun, Taiwan
Una giovane donna, un poco abbronzata e un poco tanto disorientata, spettinata, scomposta, si presenta a una stazione di polizia denunciando di aver letteralmente “perso” il giorno di San Valentino. Da questo bizzarro assunto parte una girandola sentimental-comica – un pastiche matto come solo gli orientali sanno concepire e tessere – che intrattiene e appaga con costanza lungo tutta la visione. Una coppia di fuori guida le danze: lei, è perennemente in anticipo su tutto e tutti – al cinema ride ancor prima che la battuta venga pronunciata, da bambina alle corse partiva puntualmente prima dello start, e così delirando via – mentre lui, autista di autobus, è il suo opposto, in ritardo sulle cose della quotidianità e con la passione delle fotografia. La ricerca forsennata e disperata degli affetti, l’attenzione di uno per l’altra (ai limiti e oltre lo stalking, va detto), le intromissioni di personaggi eccentrici e sventure varie tracciano un solco che si districa e ramifica, tra flashback puntuali e sequenze intelligentemente spassose (la giornata al mare, i viaggi del/sul bus, il geco umanoide che vive nell’armadio dedito al recupero di oggetti dimenticati), fino a generare un ritratto sospeso tra sentimenti e leggerezza, grazia e dimensione soprannaturale. E a cui si guarda con trasporto crescente – nonostante alcuni punti deboli, dovuti a uno script che sceglie di soprassedere su ovvi interrogativi – grazie anche alla complicità dei protagonisti dotati di una simpatia estrema.
voto: 7
4 – MONEY HAS FOUR LEGS, Maung Sun, Myanmar
Money has four legs è la storia di un regista squattrinato, Wai Bhone, figlio d’arte, che cerca di realizzare il suo primo film “vero” – il remake di un classico del 1940 – dopo anni spesi su modesti direct-to-video, e contiene, per bocca dello stesso autore, Maung Sun, alcuni elementi autobiografici. Non è improbabile scorgere infatti, tra le numerose peripezie che occorrono a Bhone, vicende del tutto verosimili. Il film si apre peraltro sull’incontro tra il regista (nella finzione) e un dirigente della Commissione Censura che gli ricorda (leggi: intima) alcune regole fondamentali – poco fumo, alcol, sesso, i cattivi devono soccombere, ci deve essere un messaggio finale a favore delle autorità – mentre in seguito i problemi con il viscido produttore, legati ai finanziamenti, a diktat assurdi e all’ingaggio dell’incapace attrice protagonista che si scoprirà essere amante del predetto produttore, causeranno a Bhone grattacapi di crescente intensità. Della serie: tutto il mondo è paese. E che Paese emerge da Money has four legs? Il Myanmar, di cui da mesi giungono notizie drammatiche, è in quest’opera racchiuso in una Rangoon popolosa e povera, legata ad antiche tradizioni (come la benedizione della nuova casa sul finale), e i cui abitanti vivono e sopravvivono con dignità e anche gioia, malgrado le disgrazie. Che una banca possa da un giorno all’altro fallire, chiudere filiali, licenziare gli impiegati e soprattutto fottersi i soldi dei risparmiatori, la dice lunga; ma ben lungi dall’abbracciare unicamente il dramma, Money has four legs sceglie un registro tragicomico che dà luogo a dialoghi vivaci e sequenze brillanti acute: la rapina alla banca ad opera di Bhone e dello sciagurato cognato è eccezionale per ritmo e performance; il finale con i soldi che volano per strada mentre i nostri intonano beati e ignari una canzone popolare è altrettanto riuscita. Un film piccolo ma prezioso.
voto: 7
5 – EXECUTION IN AUTUMN, Lee Hsing, Taiwan
Colpo di fulmine. Execution in autumn – già il titolo incute una certa riverenza – è un film in costume del 1972, restaurata in tutta la sua folgorante bellezza dal Taiwan Film and Audiovisual Institute. È il racconto di Pei Gang, uomo viziato dalla ricca nonna, dalle balorde attitudini e dall’orgoglio smisurato, che, resosi colpevole di un omicidio plurimo, viene condannato a morte; imprigionato in inverno, dovrà attendere la sua esecuzione nel successivo autunno, periodo dedicato per decisione governativa al compimento di tali condanne. Il carcere è unità di luogo, di azione nonché cuore di tenebra del film, una sorta di limbo/purgatorio che nello scorrere inesorabile delle stagioni si interroga sulla natura della condizione umana, sulle contraddizioni e le casualità che ne disciplinano l’esistenza, sui principi della morale e della fede, sull’accettazione di sé e del tragitto del proprio animo. Per mezzo delle interazioni con le altre figure in campo – la nonna risoluta e dominata dai sensi di colpa per non aver saputo educare l’uomo, la guardia severa che vede in lui il figlio sciagurato venuto a mancare anni prima, la neo-moglie sposata in carcere per permettere la prosecuzione della dinastia di famiglia, il colto compagno incarcerato che detta/enuncia i cardini del pensiero – in Pei Gang la maturazione e l’evoluzione sono un processo naturale, la conseguenza tanto della risoluzione di conflitti interiori laceranti quanto di una accettazione delle proprie azioni e di un destino che dovrà avere giusto epilogo. Rappresentazione austera, severa, di profondità di campo e aperture della mdp a circoscrivere orizzontalmente le scene (esemplare il finale), di inneschi sonori e musicali brucianti, di prove attoriali dense e gravi. Che film.
voto: 8
6 – KUNDO: AGE OF THE RAMPANT, Yoon Jong-bin, Corea del Sud
Blockbuster del 2014 diretto a Jong-bin (regista al quale il Far East ha dedicato una retrospettiva), Kundo: Age of the rampant è un action-drama in costume ambientato nel diciannovesimo secolo. In buona sostanza parla di una civiltà dominata da una classe politica inetta e colpevole di aver accresciuto enormemente le disparità sociali, e di come un manipolo di banditi robinhoodiani, esperti nei combattimenti, si adoperi per portare giustizia ed equilibrio nel popolo. L’unico elemento degno di nota è rappresentato da inconfondibili richiami ai film di western a noi noti, in quella che è una classica epopea di vendetta al cui centro vi sono l’eroe redento, un ex macellaio non proprio integerrimo, e il cattivo, un invincibile signorotto dall’infanzia contrastata. Il primo desta modesto interesse, il secondo oltrepassa non di rado i confini della caricatura. Peccato semmai per alcuni personaggi secondari sacrificati, tra cui il grande Ma Dong-seok. Il resto è noia in salsa action, tutto prevedibile e scontato, tra scontri violenti, sacrifici, azioni malvagie, duello conclusivo.
voto: 4
7 – ONE SECOND CHAMPION, Chiu Sin-hang, Hong Kong
Altro film sul pugilato, One second champion si svolge come un classicissimo percorso di redenzione che riguarda, però, un uomo nato con una particolare dote, un vero e proprio “potere”, se vogliamo: la capacità di vedere un secondo nel futuro. Una facoltà che nell’infanzia, dopo un breve periodo di fortune e celebrità, si è pian piano sepolto in tutta la sua sciocca incapacità di sfruttamento: cosa farsene di un’abilità del genere? Cresciuto, da giovane padre balordo e male in arnese, pieno di debiti a causa del gioco d’azzardo, Chow sfugge tanto ai suoi creditori quanto a un’esistenza degna, fino all’incontro fortuito con un Yip (interpretato dallo stesso regista), un ragazzo determinato con la passione della boxe che vuole ingaggiarlo come sparring partner nella sua palestra, avendo intravisto in lui una capacità di anticipare i colpi che può tornare utile. A completare il quadretto – edificante per modi, toni, temi – il figlioletto non udente nonché bullizzato di Chow, e la cugina carina di Yip, insegnante di yoga con il sorriso. Lo sviluppo intuibile, così come lo sono il messaggio di fondo (tutti possono avere poteri con i quali affrontare la vita) e il registro misto tra commedia, dramma e azione conducono l’opera diretta da Chiu Sin-Hang, già autore del mediocre Vampire Cleanup Department, su binari risaputi, non privi peraltro di sequenze balorde (l’allenamento parallelo in stile Rocky in vista del combattimento decisivo) e interrogativi nodali che non avranno risposta. Tipo: perché quando Chow inizia il suo cambiamento cambia pure pettinatura, oltretutto un filino scomoda per boxare, come fosse il membro un po’ tardo di una qualsivoglia Boy band?
voto: 4
8 – MADALENA, Emily Chan, Macao/Hong Kong
In Madalena l’autrice Emily Chan illustra Macao come un porto di anime migranti lontano dalle luci vistose e dai rumori accesi della location turistica, affaristica, ludica quale siamo abituati a conoscerla anche attraverso un’iconografia che deriva dal cinema. Luoghi di lavoro, vie e vicoli, stanze di ostelli, piccole abitazioni disadorne rappresentano il luogo esistenziale nel quale i due immigrati Mada, taxista insonne munito di regolare residenza alle prese con le conseguenze dolorose di un rapporto finito male anni prima, e Lena, irregolare che mantiene due lavori (non consentito dalle severe leggi) per risparmiare al fine di mandare soldi alla famiglia nella Cina orientale con la prospettiva di tornarci e aprire un ristorante suo. Entrambi tormentati, con i traumi del passato ad agire come perenne compagnia fantasmatica, sospesi in esistenze infelici: il caso li fa incontrare e un tenero rapporto romantico squarcia il velo opaco che ne intorbidiva sentimenti e animo. Tutto è sempre raccontato con la delicatezza di chi tiene ai suoi personaggi, ancorati a una realtà che presenta i conti e ne ostacola la relazione, tra incomprensioni, contraddizioni, intromissioni; la regia traccia quindi un ritratto di Mada e Lena sensibile e convincente, in tutti i suoi ambiti e complessità, scoprendone turbamenti e spigolosità, mutamenti e attriti interiori, complici la fotografia in grado di cogliere le sfumature, sia notturni che diurni, dei paesaggi urbani e umani e le interpretazioni puntuali dei due protagonisti.
voto: 7
9 – FAN GIRL, Antoinette Jodaone, Filippine
Antoinette Jodaone scrive e dirige un film che indaga sugli aspetti meno limpidi ed edificanti di una problematica universale quale l’esaltazione fanatica delle celebrità. Una studentessa, Jane, assai poco attenta alle materie scolastiche ma incredibilmente attaccata al suo oggetto di desiderio, l’idolo locale Paulo Avelino (in una parte funzionale di sé stesso), di cui conosce ogni prestazione e partecipazione cinetelevisiva, e parte di una coppia creata ad arte, approfittando della comparsata del duo a un centro commerciale di periferia per la promozione dell’ultima soap (tutto il mondo è Paese parte II), sale e si nasconde sul pick up di Paulo fino a che questi la conduce in una strana villa isolata in mezzo a un posto sconosciuto. Da questa premessa la narrazione procede per un disvelamento progressivo della personalità della star, del suo oscuro lato privato, non propriamente esemplare e di come la ragazza scopra con apprensione e smarrimento crescente tali aspetti. Nel fare ciò Fan girl tende a giocare d’accumulo, eccedendo nelle rivelazioni e nella diluizione degli accadimenti, compresi i finali che sanno di posticcio, pur potendo contare su una buona tensione e riuscendo in definitiva a portare a termine la destrutturazione dell’immagine idealizzata del divo, per merito soprattutto dell’attrice che interpreta Jane, mentre la partecipazione della vera star Paulo Avelino lascia qualche dubbio sulla autenticità dell’operazione.
voto: 6
10 – BEASTIE BOYS, Yoon Jong-Bin, Corea del Sud
Altra produzione di Yoon Jong-Bin, datata 2008, in Beastie Boys vediamo la Seul notturna di quartieri eleganti e ricchi, laddove gli host bar offrono servizi esclusivi sottoforma di uomini da compagnia: corteggiatori, compagni di bevute, di giochi, di stordimenti, fino a prevedibili sviluppi. Nell’inquadrare le vicende dei due protagonisti – il giovane Seung-woo e il più maturo, esperto e smaliziato Jae-hyeon, alle prese ognuno con i propri dilemmi (il primo, inesperto sul lavoro e nelle relazioni amorose; il secondo indebitato fino al collo, anche con il proprio capo, e dedito all’arte di raggirare donne a cui spillare soldi) – il film sceglie una via assai verbosa: i personaggi parlano, e parlano, bevono, fumano, mangiano e bevono ancora; tra una bevuta e l’altra, incredibilmente, parlano. Uno stordimento non si sa quanto voluto (far provare allo stesso spettatore lo stesso spaesamento dei soggetti?), lungo e diluito oltre due ore, nel quale le forzature non mancano e le componenti narrative si fanno progressivamente frammentarie, per giungere a conclusioni peraltro intuibili. Buona la resa di una fotografia livida e viva ma non basta.
voto: 4,5
11 – jigoku-no-hanazono OFFICE ROYALE, Seki Kazuaki, Giappone
Ed ecco la cazzatella del Festival, ma quanto è spassosa! Premesso: vorrei ben vedere le mie colleghe impiegate darsele di santa ragione, tra loro e con presunte, variopinte rivali di altri uffici… Office Royale racconta un universo nel quale le OL (“office lady”, impiegate) lottano in sfide senza quartiere per la supremazia, propria, della banda a cui appartengono e dell’azienda cui prestano, quando non stanno ammazzandosi tra loro, i propri servigi. A colpire innanzitutto è il contrasto che si crea tra il mondo delle donne lottatrici e quello “normale”, rappresentato da subito dalla giovane [e bellissima, ndMV] lavoratrice modello, Tanaka Naoko e dai suoi pensieri e monologhi, riassumibili in un «se fossimo in un manga io sarei un personaggio marginale, quello noioso»: ecco, questo continuo, costante, consapevole riferirsi alla importantissima sfera dei manga è un espediente basilare ma anche innesco esplosivo, tutt’altro che sciocco, per il prosieguo delle vicende. L’entrata in scena di quella che sembra essere una invincibile collega, molto risoluta [e bellissima, ndMV 2], Ran, scompiglia gli equilibri sia interni all’azienda che nei confronti di quelle rivali, accesissime. Gli scontri violenti, all’ultimo sangue – mentre gli uomini stanno relegati sullo sfondo come inutile tappezzeria – come in un gioco multilivello, permettono di far sfoggio di una galleria di personaggi incredibili, dalle fantasie assortite per outfit e attitudini, costituendo un vero punto di forza del film. Che sì, rimane gioioso e giocoso nella sua dimensione policromatica, pop, fantastica, meta, aderente a canoni e codici dei manga a target definito da cui riprende tra l’altro didascalie e iconografia, mentre i colpi di scena e ribaltamenti si susseguono a ritmo vertiginoso e gli scontri si fanno sempre più duri, in un crescendo esilarante fino all’ultimissima inquadratura (e conseguente espressione di sconforto di Naoko). Carine, accettabili le coreografie, briosi i toni, forsennato il montaggio, demenziali ma adorabili i dialoghi, in tema le musiche perlopiù rock dal cantato femminile, favolose alcune sequenze action (su tutte l’allenamento di Ran che culmina con il duello, vinto, con l’orso di casa), ma ad emergere sopra ogni cosa sono i personaggi: dalla stessa Naoko – che, si sarà capito, non è quello che sembra: è molto meglio! – alla collega Ran, tanto inscalfibile nelle lotte quanto goffa sul lavoro, per arrivare alle variopinte, assortite rivali. Su tutt* [l’asterisco non è messo per capriccio], la temibilissima, strepitosa gang di uomini travestiti da donne: a ogni entrata in scena, a ogni parola proferita, a ogni stolida/stordita espressione scatta la ola. Mood: «Fare l’impiegata è uno stile di vita. Vai e mostra quella via al mondo».
voto: 7
12 – DEAR TENANT, Cheng Yu-chieh, Taiwan
C’è qualcosa che non va in Dear tenant; e non risiede nel suo abbracciare più ambiti, dal dramma procedurale a quello familiare, né nella prevedibilità della risoluzione del caso giudiziario, quanto più nell’aderire a un didascalismo che alla lunga sconforta così come nell’accumulare situazioni tragiche che sfociano inevitabilmente in una perdita di credibilità irreversibile. Troppa carne al fuoco, troppo di tutto, in quelle che sono le pur lodevoli intenzioni di mettere al centro una famiglia allargata assai atipica e le traversie che il protagonista dovrà affrontare per via della sua omosessualità e dei sospetti che immediatamente lo circondano non appena le cose prendono una certa piega. Anche la regia sembra perseguire questa enfasi del racconto, sottolineando puntualmente e inesorabilmente, anche con l’emozionale commento musicale, la sofferenza sui volti e sui corpi, impaginando pedanti flashback non necessari, come alla ricerca più o meno consapevole dell’approvazione e degli applausi del pubblico. Bravo il protagonista, brava l’anziana attrice che interpreta la madre del di lui compagno defunto, ma non bastano a salvare un film da sé stesso.
voto: 5
13 – SUDDENLY IN DARK NIGHT, Go Yeong-nam, Corea del Sud
Horror coreano del 1981 che, a leggere le note del Festival sarebbe davvero “spaventoso”, Suddenly in dark night si segnala semmai per l’uso di una scala cromatica audace e per l’indugiare della mdp sul corpo sinuoso della giovane governante, figlia di una sciamana morta in un incendio in circostanze misteriose, assunta dalla agiata famiglia di un ricercatore universitario con il pallino dello studio e della caccia di esemplari di farfalle. La scelta delle inquadrature è omogenea al crescente sentimento di gelosia che la moglie del professore prova nei confronti della giovane, per cui vede/si immagina atti inconfutabili. E la progressiva, torbida ossessione di una donna per l’altra è l’elemento cardine, e di interesse, di Suddenly in dark night, senz’altro più della enigmatica – invero un po’ ridicola – bambola della governante che pare possedere indicibili facoltà soprannaturali. Le sequenze di poltergeist lasciano il tempo che trovano (pure tanto, troppo), la gestione della narrazione mostra modesta coesione, il personaggio dell’uomo rimane solo abbozzato, lo spavento non giunge nemmeno per sbaglio; l’impianto psicologico però, al netto di tutto, regge e permette al film di elevarsi dal rango di oggetto curioso.
voto: 6
14 – JUST 1 DAY, Erica Li, Hong Kong
Un giorno, vabbè, un’ora e mezza, di melensaggine in zona “amore e malattia”. E con questo si chiude praticamente ogni discorso. Just 1 day è roba derivativa e stereotipata, lo studio sui personaggi è approssimativo, la trama un crogiuolo di elementi di risulta dall’andamento mortifero per quanto prevedibile e piatto [per chi vuol farsi un’idea ci sta google], la direzione degli attori e la recitazione risapute, standardizzate, per ogni passo e svolta narrativa. Il solo fattore degno di menzione è l’inserimento, seppur pretestuoso, di un sentimento nostalgico nei confronti del tessuto urbano di Hong Kong che cambia a ritmi vertiginosi, palazzi e intere zone che vengono demolite e immediatamente sostituite, non permettendo così un legame forte e imperituro nei confronti della città. Ah, poi ci sarebbe un enorme interrogativo: come è finito coinvolto in questo pasticcio il magistrale Christopher Doyle (cioè, manco l’alba, inquadrata più volte, pare roba sua)? Mistero.
voto: 3
15 – BACK TO THE WHARF, Li Xiaofeng, Cina
Non c’è redenzione alcuna per chi ha peccato e pensa di non meritare alcuna possibilità di riscatto nella vita – al massimo una breve, fugace interruzione di serenità nel mare di nichilismo nel quale è affogato quel giorno in cui tutto cambiò. Song Hao è tornato al molo, alla città natale dopo quindici anni di autoesilio in seguito al misfatto compiuto (ovvero che crede di aver compiuto) quando era ancora studente di belle speranze; e le cose non possono che precipitare in un gorgo di disperazione e devastazione morale, nel momento in cui rapporti perduti – con il padre, una volta burocrate di basso rango ora influente uomo politico; con l’amico d’infanzia ora losco imprenditore – si riallacciano come a formargli un cappio intorno al collo. L’incontro con una coetanea, Pan, da sempre invaghita di lui, segna una sospensione, tanto dagli attorciglianti tormenti quanto dalla ricerca di espiazione (rintracciabile nella figura di una ragazzina legata alla colpa commessa in gioventù), una prospettiva aperta su un futuro diverso, possibile. In Back to the warf dominano piogge e turbe esistenziali, attraversato, com’è, da un senso di ineluttabilità che ammanta l’animo di Song Hao opprimendone l’animo votato a un fato segnato. Quando la tragedia e i fili dell’impaginazione thriller si intingono nel sentimento, rappresentato dal legame con Pan, il film – pur dedicandogli minutaggio ridotto, tale che qualche elemento appare sin troppo sbrigativo (senza contare che il personaggio di Pan, e l’attrice che lo interpreta, avrebbero meritato più cura) – si eleva per la delicatezza e la sensibilità del linguaggio, fino a toccare vette di intensità crescente, di passione struggente. Prima che l’intorpidimento fisico e spirituale abbandoni Song verso un epilogo di disperata liberazione.
voto: 7,5
16 – WHEEL OF FORTUNE AND FANTASY, Hamaguchi Tyusuke, Giappone
Vincitore dell’Orso d’argento al Festival di Berlino 2021, e distribuito nelle nostre sale proprio in questi giorni, Wheel of fortune and fantasy ha una struttura a episodi, precisamente tre, legati tra loro da temi comuni, ovvero di come il caso/caos possa influire sul destino delle donne e le “sliding doors”, come chiaramente enunciato dai personaggi: “cosa sarebbe cambiato se…”. L’immaginazione spinge il film in direzioni che denotano impegno e attenzione nei confronti delle istanze, delle esigenze dell’universo femminile (per quanto le possa comprendere una testa maschile); dipingendone con discrezione e spirito critico, dedizione, tratti e sfumature e desideri. Nei primi due episodi figurano protagonisti anche uomini, inneschi (e vittime, inconsapevoli) sempre di un sentire e di un agire attinenti alla sfera (del) femminile, mentre la ruota della vita decide e scombussola piani, idee, intenti, condizioni. Nel primo un lungo pianosequenza accompagna una modella che ascolta una sua amica descrivere rapita quello che potrebbe essere l’uomo dei suoi sogni, salvo scoprire che si tratta del suo ex i cui rapporti si erano interrotti in maniera poco amichevole. Le successive azioni portano la modella a riconsiderare la sua relazione e a immaginare cosa accadrebbe se confessasse ad entrambi la verità: il destino può cambiare? Esiste una via che faccia soffrire di meno? Nel secondo, il migliore, l’insistenza di un professore stimato a tenere la porta del suo ufficio aperto scompagina il piano diabolico di una sua ex allieva; eppure matura un rapporto intrigante, una porta aperta su un percorso differente. Ma le cose andranno in un’altra, imprevedibile direzione. Nel terzo, due donne si incontrano dopo molti anni; solo a un certo punto si renderanno conto di aver ognuna scambiato l’una per qualcun’altra a cui erano state legate in passato. Ma accetteranno di stare al gioco: dopotutto solo la finzione permette di togliere la maschera e scavare a fondo nel proprio animo. Se c’è un difetto nel film diretto da Tyusuke, oltre che nella lunghezza, questo è, inevitabilmente, la sua verbosità, davvero eccessiva: ok che le donne parlano tanto, ma insomma, qualche taglio lo si poteva pure fare… [e mo’ mi sono giocato una buona metà del riscontro].
voto: 6,5
17 – NIGHT OF THE UNDEAD, Shin Jung-won, Corea del Sud
Oddio, che pasticcio posticcio impiastricciato di sostanze sci-fi/fantasy, materiali putrefatti da stupida commedia stupida e tinte intinte nell’action comico più becero che si possa immaginare. Orbene. Abbiamo una coppia perfettina, agiata, bella – paiono i coniugi della villetta di Parasite, per capirci – lei, una noiosa casalinga annoiata, lui un indefesso lavoratore che però è un alieno “unbreakable” che beve quantità spropositate di alcolici e benzina, direttamente dalla pompa alla stazione. Lei, sveglissima, sospetta un tradimento e per questo assume un investigatore sciocco chiamato “Broccoli” [testualmente, boh], che subito capisce la natura extraterrestre del maritino. Risate a non finire. In quella che è la tipica, stravista, ricalcata male, situazione da “amore quanto mi manchi, vieni qua che non ti faccio niente”, d’intenzioni omicide armati, si intromettono le amiche svampite di lei (una “puttana”, l’altra sanguinaria che odia i mariti traditori), i sottoposti di lui, sempre alieni sempre scemi, le autorità governative segrete ovviamente ritardate e poliziotti locali non meno ottusi. Risate a non finire. Una farsa stolta senza nessuna qualità, dall’inizio alla fine; una sarabanda esasperante di siparietti continui tra uccisioni multiple e morti che ritornano, battute idiote («sei più invitante del cibo») e personaggi irritanti che fanno e dicono cose irritanti, cali di ritmo e situazioni grottesco-demenziali sempre più spinte fino al parossismo senza ritorno, stacchi musicali che chissà perché (Billie Eilish per lei; la Turandot per lui), scene di lotta finali con effetti speciali ai quali non si dà credito nemmeno per una frazione di secondo: che perdita di tempo. E pensare che è stata l’unica visione on line una volta tornato a casa: mi sa che ho scelto male.
voto: 2
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