Per una serie di motivi inutili da approfondire qui, in questo periodo mi ritrovo a dover pensare (e ripensare) al modo in cui lavoro. Ma proprio qui, su questo sito. Pensare a tutte le cose che faccio, a come utilizzo il tempo che vi dedico, a quali siano le cose che faccio per pura necessità di mantenimento dell'organismo complesso che questo sito è diventato e quali siano quelle che invece faccio perché davvero (ancora) mi piacciono, perché sono ancora interpreti dell'idea che lo ha generato. Dopo un periodo mentale in cui ho sfoltito con l'accetta questa specie di magma solidificato, un tempo passato a buttare giù dalla torre alcune cose che sembrano ormai prive del seppur minimo interesse, è iniziata un'altra fase: la riscoperta del senso.
Diciamocelo, cercare i trailer dei film in uscita mettendo insieme diverse fonti di approvvigionamento, scaricarli da un server che magari si trova in Alaska, catalogarli, collegarli ai singoli film per fare in modo che si trovino nei posti giusti rispetto alla struttura del sito, e infine ricaricarli su un server che si trova probabilmente in Islanda è una attività di per sé scimmiesca (stile "Un pezzo, un culo, un pezzo, un culo..." - ndr: La classe operaia va in paradiso).
Se non fosse che.
Se non fosse che vedere circa 600 trailer all'anno da dieci anni ha avuto il pregio di mantenermi sempre sulla corda dell'attualità, io che ho la naturale tendenza a scivolarne via, a sfuggirvi, inseguendo il mio filo (inter)mentale.
Pur essendo oggetti che cinematograficamente hanno, nel 99% dei casi, veramente poca qualità e pochissimo valore, sono testimoni che affermano diversi fatti: ad esempio che la propensione al rinnovamento di questo importantissimo elemento promozionale dei film, spesso l'unico a supporto del lancio, è semplicemente uguale a zero. E che i nostri amati film si meriterebbero strumenti promozionali più sofisticati e realizzati con maggiore amore e cura e, a volte, anche rispetto per gli spettatori. Quel che voglio dire è che dopo l'accetta con cui sacrificherei volentieri questa attività, viene lo scalpello che la colpisce e scolpisce mettendo in evidenza il sapere che si accumula spesso a nostra insaputa: ehi, la sotto c'è un perché alle cose che faccio!
Questo sentimento vale per la maggior parte delle cose che costituiscono la mia quotidianità e che, dopo anni e anni, offrono veramente poco piacere: a pensarci bene, infatti, quasi tutte le azioni necessarie per "mantenere in vita" - non solo in un sito di cinema - hanno dei valori che rischiano costantemente di venire soffocati. Dalla ripetitività, certo, ma soprattutto dalla solitudine, non la nostra, personale, ma quella dei gesti che la compongono. Gesti automatici, disamorati, che nel tempo hanno perso la dignità di essere celebrati. O almeno raccontati. Quindi amati. Il senso delle cose che facciamo per alimentare un qualsiasi sistema, soprattutto industriale, se ne sta spesso rintanato in attesa che noi stessi gli dedichiamo un pensiero, un momento di energia di qualità, ma a volte basta anche uno sguardo.
Sul fronte delle cose che invece farei anche gratis c'è quella di scrivere questo testo ogni due settimane. Non è che mi piaccia così tanto scrivere, né che io sia particolarmente dotato, semplicemente questo appuntamento mi obbliga per un momento a fermarmi su una cosa che è successa, nel mondo o dentro di me, e a dedicarvi lo spazio necessario per elaborare un pensiero che abbia un inizio, uno svolgimento e una fine (anche questo testo ce li ha, promesso!). Bello. Lo dico senza mezzi termini, questo appuntamento per me è bellissimo, anche se a volte assume le sembianze di un momento panico. Ma anche quello, alla fine, è meraviglioso: le spalle al muro possono essere le migliori generatrici di soluzioni.
Ecco, se anche voi conoscete questi due stadi, questi due momenti, forse avete acquisito la consapevolezza che il loro gioco tragico, la loro alternanza, può fare di noi degli schizofrenici oppure possono essere considerati come lo yin e lo yang della creazione, o almeno dell'evoluzione. Questi due stadi sono l'accetta e sono lo scalpello e servono entrambi perché poi, dopo, arriva quel momento, il momento del "Ma se invece". Il momento in cui per sintetizzare gli elementi opposti che questo dualismo ha generato è necessario un salto d'immaginazione, un piccolo colpo d'ala che ricarichi il nostro sguardo interno, che ci riporti in corrente. E spesso ha la forma del dubbio.
Ma se invece di ibernare questi gesti ripetitivi sotto una coltre d'inedia e solitudine trovassimo un modo per farli vivere e per essere amati? Se invece di mortificarli con l'indifferenza riprendessimo a compierli come un'opera di mero artigianato, come una vigna potata, un orto innaffiato dal contadino, un chiodo battuto e ribattuto dal ciabattino per aggiustare la suola di una scarpa che troppo ha camminato?
Non è un modo comodo per chiudere il cerchio, per tornare all'inizio della questione, dopo averla disfatta con l'ascia, modellata con lo scalpello, arricchita di una prospettiva a lungo termine, si torna semplicemente a produrre. È la mentalità industriale che ha bisogno di ragionare sempre con i termini di quantità e di redditivita. Per l'artigiano alla fine quel che conta è l'accumulo di sapere. E la visione del prodotto finale.
Ovviamente, dopo questa seduta di autocoscienza non posso fare altro che salutarvi con un trailer. Uno bello però. Uno che ha una visione.
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