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La mia rabbia
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In uno dei mesi dell'estate 2018, un caso fortuito, ma chiaramente a qualche livello interiore voluto e procurato, volle farmi entrare in un piccolo bar situato in un vivace quartiere di Palma, la più grande città dell'isola in cui vivo.
In questo bar lungo e stretto, atmosfera familiare e prezzi contenuti, si teneva due volte alla settimana un open mic, ossia un appuntamento musicale in cui chi voleva, chi ne sentiva l'urgenza, poteva scrivere il suo nome su un foglietto vicino alla cassa e attendere di essere chiamato per accomodarsi in un angolo attrezzato con microfoni, mixer e casse per cantare o anche solo suonare, spesso per la prima volta, davanti al pubblico.

Pubblico è una parola grossa perché non era raro che ad ascoltare le prime performance fossimo in cinque, incluso il personale del bar. La serata iniziava alle 21 e io e la mia compagna eravamo quasi sempre i primi ad arrivare. Il locale era ancora vuoto, ci accomodavamo sugli sgabelli malfermi vicino alla barra, ordinavamo una caña e mentre assaporavamo il primo sorso, Jose, cantautore americano di grande talento e rara intensità che gestiva l'alternarsi dei musicisti e riempiva i vuoti con le sue canzoni, iniziava a fare le prove mixer e microfoni suonando qualche accordo con la sua chitarra e intonando qualche strofa. Era un momento meraviglioso. Perché poi la gente iniziava ad arrivare, a volte anche numerosa, ma i primi ad entrare dalla piccola porta del café erano sempre gli stessi: musicisti dilettanti, ascoltatori professionisti, strana gente di quartiere. Ciascuno prendeva il suo posto, si scambiavano quattro chiacchiere e si attendeva, senza fretta, che la serata prendesse forma, intorno a noi. C'erano prestazioni mediocri o eccezionali, c'erano i fratelli chitarristi che suonavano flamenco e i loro pezzi non finivano mai (e ad un certo punto iniziavi a volerlo), trombettisti che si aggiungevano anche solo per suonare un assolo e poi tornavano al loro posto, percussionisti che si aggregavano con i loro cajon ed erano così bravi che non potevano più andarsene perché il pubblico gli intimava di restare, c'era gente che faceva rumore, con le mani, con i bicchieri, con i cucchiaini, qualsiasi oggetto diventava uno strumento, c'era uno che ogni tanto tirava fuori dalla tasca una specie di ovetto di legno cavo e i suoi contributi alle ritmiche dei pezzi erano perfette: incredibile quanto si sentisse, quell'ovetto. Quella roba ha riempito le nostre settimane per parecchi mesi e, anzi, ha dato la stura ad un periodo di grande partecipazione musicale, grazie al quale la mia compagna ed io siano riusciti a sconfiggere una certa tendenza all'isolamento, quella che, sull'altro lato dello spettro delle nostre comuni passioni, ci portava a consumare ore ed ore di film e serie, inchiodati sul divano davanti al monolite. Stavamo vivendo l'appartenenza ad una piccola comunità, prendevamo la macchina e facevamo chilometri, di sera, per partecipare a piccoli eventi, concertini, semplici ritrovi. E tornavamo di notte, con la musica ancora nelle orecchie, nelle vene.

Poi, lo sappiamo, è finito tutto. I locali hanno chiuso, i musicisti, dopo un mese di sbandamento, hanno iniziato a postare i video sulle proprie pagine Facebook o Instagram, qualcuno è sparito, qualcuno ha smesso persino di suonare, tra questi anche Jose, il chitarrista di talento che gestiva gli open mic. L'ultima volta che lo abbiamo visto, con mascherina e tutto, ha detto che aveva deciso di regalare le sue chitarre a un paio di ragazzini, che stava cercando di tornare negli Usa, che con la musica aveva chiuso. Era una calda serata di luglio, gli abbiamo detto: "No aspetta, non smettere, ti prego, abbi pazienza, non deprimerti, tieni duro, questa cosa finirà".

Non lo abbiamo più visto, questa cosa non è finita - in questa settimana abbiamo compiuto un anno di pandemia - e questo canyon oscuro nel quale siamo intrappolati sembra ancora senza fine o almeno senza uscita. A fasi alterne, chi più chi meno, abbiamo abbassato il capo, abbiamo cercato di sopravvivere, abbiamo aderito alle misure di sicurezza, spesso senza metterle in discussione (chi più chi meno), abbiamo fatto nostra la gestione dell'emergenza, ci siamo adeguati, abbiamo cercato senso e, spesso, riparo nel pensiero. Personalmente, sono persino riuscito a tenere sotto controllo una certa rabbia silenziosa e latente. Poi, in una sola settimana, due cose hanno deciso di parlare direttamente a questa mia rabbia. Una l'ho letta, l'altra l'ho vista.

Questa è quella che ho letto, si tratta di un articolo di Alessandro Baricco pubblicato per Il Post. Lo riassumo qui per quelli che non cliccheranno sul link. Baricco, in sostanza, è arrabbiato ed esprime con semplicità un sentimento che stiamo covando in tanti, portando in superficie la consapevolezza di tutte le cose che non stiamo più facendo, che abbiamo perso. Non c'è bisogno di elencarle - almeno qui, ma leggerle in fila serve eccome - perché l'articolo di Baricco è solo in parte la mera lista delle mancanze di questo tempo. È soprattutto una acuta riflessione sulla catena di errori che ci ha portato qui, in questo vuoto sensoriale ed esperienziale. "Se io sbaglio una serie di gesti, arriverà un momento in cui fare una cosa sbagliata sarà l’unica cosa giusta da fare. (...) L'intelligenza novecentesca non trova soluzioni che non siano obbligate perché quel che sta giocando è un suo finale di partita, la posizione dei pezzi è da tempo determinata da strategie decise nel secolo corso, i pezzi persi non si possono più recuperare e la stessa postura mentale del giocatore non è adatta a giocare contro un avversario che, invece, muove con una tattica completamente nuova." Concludendo la prima parte di questo suo pensiero, altre seguiranno sempre su Il Post, si chiede se possiamo ambire ad un'intelligenza "non novecentesca" che sappia gestire o forse programmare un nostro futuro al di fuori dei paradigmi che il Novecento lo hanno segnato e marchiato a fuoco. E introduce il dubbio che questa nuova intelligenza possa invece, purtroppo, essere già qui con noi e altro non sia che l'incontro tra quella dei governatori della cosa pubblica di stampo novecentesco e quella diciamo "digitale" che ci schiaccia e ci riduce ai nostri device. Non esattamente il massimo, ecco.

L'altro componente che ha innescato il tratto più malinconico della mia rabbia è invece un recente documentario sulla scena musicale di Los Angeles negli anni tra il 1965 e il 1975. Si intitola Laurel Canyon (2020) e pur senza fare di quel clamoroso periodo musicale un ritratto agiografico e quindi parziale, ha portato in superficie tutte le sensazioni e i ricordi con cui ho iniziato questo testo. Laurel Canyon è un quartiere sulle colline vicino a Los Angeles in cui dal 1965 hanno preso la residenza alcuni tra i più grandi musicisti americani di quel periodo, dando vita ad una vera e propria comunità artistica che ha spaziato, nel nome della libertà creativa, in un ampio spettro musicale: dal folk di Joni Mitchell al rock di Alice Cooper. Passando per i Doors, gli Eagles, i Mamas & Papas, Buffalo Springfield e il terzetto poi quartetto composto da Crosby, Stills, Nash & Young e molti, moltissimi altri. Fotografie, interviste, spezzoni video, costruiscono un fedele ritratto di cosa possa aver significato vivere (nel)la musica in maniera totale, sia da musicista che da spettatore. Una testimonianza che diventa, con lo sguardo di oggi, di questo preciso periodo, una sassata al cuore. Per la libertà che si sperimentava, per la musica che si produceva, per la leggerezza con cui gli spettatori abituali e occasionali dei locali in cui avvenivano le sessioni musicali (su tutti Il Troubadour, vero epicentro culturale di Laurel Canyon) si abbandonavano al potere della musica e ne venivano completamente catturati.

Se amate la musica live, che sia rock, jazz o house non importa, quella sensazione la conoscete bene. E per averla indietro, forse, a questo punto, è venuto il momento di prendere un sentimento di mancanza, farne rabbia e renderla... pericolosa.

Per farlo potete anche solo lasciare una traccia qui sotto di una vostra rabbiosa mancanza. E se non è la musica che vi smuove, potete sempre scegliere tra le numerose altre cose di cui parla Alessandro Baricco. Tra le quali, certo, c'è anche "respirare nel buio di un cinema".

Nella foto: le mani di Jose, la sua chitarra, il microfono, le luci della notte

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