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Tsai Ming-liang e l'ineffabile presenza del vuoto
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Il cinema di Tsai Ming-liang filma il vuoto facendocene avvertire tutta la sua cancrenosa presenza. Un cinema estremo e anti spettacolare perché radicalmente proteso a giungere al cuore dell’infelicità in atto. C’è un mondo alle prese di un latente disfacimento valoriale, regolarizzato da solitudini che non si incontrano e da alienazioni metropolitane che si assommano senza preavviso. E Ming-liang mostra di preoccuparsene, facendo del suo cinema uno degli strumenti più lucidi per analizzare il contemporaneo stato delle cose. Servendosi della grammatica usuale per declinarla alle sue originali esigenze poetiche. Perché, se c'è un autore capace di produrre significato attraverso il non detto e il non visto, questi è Tsai Ming-liang. Perché, se esiste una narrazione fatta per immagini che investe quasi tutto il suo potenziale evocativo nell’ostinata sottrazione di elementi visivi e visibili, questi è Tsai Ming-liang. Perché, se esiste un cinema ricondotto alla pura volontà di liberarsi di ogni orpello superfluo, questo e quello prodotto dall’autore taiwanese.

Tsai Ming-liang

Days (2020): Tsai Ming-liang

Credo sia uno degli autori più incidenti del cinema contemporaneo, capace come pochi a trasmettere l’urgenza di dover offrire una concreta forma visiva allo smarrimento delle migliori coordinate etiche ed affettive. Dimostrando un originale applicazione della tecnica cinematografica, tesa a fare dell'essenziale l'attributo più caratterizzante della sua poetica. Lunghi piani fissi, dialoghi ridotti al minimo, inquadrature spogliate di ogni accadimento superfluo, rigore “bressoniano” nell’uso dei movimenti di macchina, fanno la cifra stilistica di un autore che eccelle per il suo sguardo usato come lucido scandaglio dell’animo umano. Ma dietro questa cura è sottintesa molta libertà, quella concessa alla macchina da presa di andare dove vuole, di intrufolarsi nei ritagli di vita usando l’angolazione più idonea al momento e la luce più adatta allo scopo, senza chiedere il permesso e senza ricercare una propedeutica organizzazione della messinscena. Svincolandosi dalla necessità di dover spettacolarizzare ogni tocco.

Tsai Ming-liang, Lee Kang-sheng

Afternoon (2015): Tsai Ming-liang, Lee Kang-sheng

In Ming-liang la tecnica cinematografica e funzionale per allineare il senso più nascosto del reale con la costruzione del verosimile proprio del mezzo cinematografico, per analizzare nello specifico l'alienazione dell'uomo (post)moderno, sempre alla ricerca di un centro gravitazionale ma impossibilitato a farlo con tutta la serenità del caso. I personaggi dei suoi film sembrano incarnare l'essenza stessa di una forma particolare di incomunicabilità, non quella però che nasce da evidenti scompensi psicologici o da inappagate aspettative borghesi (tratteggiate al cinema da colossi come Michelangelo Antonioni e John Cassavetes), ma quella che dal vuoto pneumatico che avvolge e coinvolge chi ne è succube arriva ad annichilire sul nascere ogni possibilità di potervi resistere. Ming-liang da una forma tangibile a questa “nuova” forma di incomunicabilità, attraverso la fissità di corpi che ne qualificano l'essenza sistemica e nel mutismo ostinato di parole che non ne possono chiarire i contenuti.

Tsai Ming-liang

The Deserted (2017): Tsai Ming-liang

 

“Vive l’amour” non è stato il suo film d’esordio (che è stato, invece, “Rebels of the Neon God”), ma il film che ha fatto conoscere al mondo un autore in grado di filmare con chirurgica precisione la dismissione delle relazioni umane.  L’amore del titolo non esiste, è usato beffardamente (l’ironia aleggia spesso sorniona nei suoi film) per puntare l’attenzione su una Taipei che suo malgrado diventa teatro a cielo aperto di voci che non comunicano. La capitale è quasi sempre presente nei suoi film, con i suoi spazi “squilibrati”, i suoi angoli nascosti votati alla ricerca di sensazioni estreme, le sue ombre abitate da fugaci appagamenti sessuali. Così come la pioggia, che cade spesso copiosa sulla piccola isola di Taiwan, usata da Ming-liang come elemento che sembra voler certificare la condizione di perdurante precarietà dei suoi personaggi. Ecco, gli spazi fisici e la morfologia territoriale di Taipei agiscono sempre insieme ed insieme servono allo scopo di tratteggiare i connotati di un tempo storico dove è possibile per le persone regredire al rango di esseri anaffettivi.

Si pensi a “Hole-Il buco”, dove un virus letale e una pioggia incessante costringono all’isolamento più radicale gli abitanti della capitale. Un buco nato da un soffitto mette in contatto un uomo ed una donna, che si vedono quasi costretti a sfidare i rispettivi silenzi. Oppure si pensi a “Il Fiume”, e alle acque inquinate del Tanshui, che provocano un fastidioso torcicollo a Xiao-Kang che vi si è immerso dentro dopo aver accettato di fare da controfigura per la scena di un film. La ricerca di un medico che ne curi il malessere fisico lo scopre del tutto incapace a venire a capo dei suoi disagi interiori. Oppure si prenda un film “visionario” come “A che ora è laggiù”, (un chiaro omaggio a “I 400 colpi” di Truffaut, a partire dalla presenza “sognante” di un attempato Jean Pierre Leud), dove la fuga oltre l’ordinaria percezione dello spazio e del tempo rimane l’unico antidoto contro la comprovata inadeguatezza sociale dei suoi personaggi. 

La pioggia come assoluta protagonista la ritroviamo soprattutto nel bellissimo “Goodbye Dragon Inn”, dove un violento temporale costringe un turista giapponese a trovare riparo in un vecchio cinema della capitale. Ming-liang gioca a confondere il senso del reale con il realismo della fantasia. Un’analisi inappuntabile sulla solitudine e un omaggio all’unicità dell’esperienza in sala. Film bizzarro (e in odore di “Nouvelle Vague”) è “Il gusto dell’anguria”. È ancora l’acqua (quella potabile che non arriva più nei rubinetti di casa) a offrirsi come pretesto per l’occasionale incontro di due vecchi conoscenti, Shiang-Chyi e Hsiao-kang (in pratica una sorta sequel di “A che ora è laggiù”). Lei è appena ritornata da Parigi, lui è intanto diventato un attore porno. Due ragazzi che si fanno ritratto emblematico di una generazione che si nutre di piaceri effimeri e di emozioni strozzate in gola.  Dal carattere più contemplativo è, invece, “I Don't Want to Sleep Alone”, forse il film più sofferto è più politico di Tsai Ming-liang, che per la prima volta gira a Kuala Lampur, la sua città d’origine. Infestata da un inquinamento che costringe le persone all’uso delle mascherine, la capitale della Malesia è palcoscenico di un sensuale incontro a tre, due ragazzi e una ragazza. Dal loro incontro ne scaturisce una narrazione ibrida che lambisce le forme del surreale. 

 

Summa della poetica di Ming-liang è “Stray Dog”, il suo capolavoro a mio avviso. Qui sono riproposti tutti gli ingredienti tipici della sua poetica, a partire dall’importanza attribuita alla forma della città e proseguendo con il peso doloroso della solitudine. Protagonista è un uomo di mezza età, costretto vivere dove capita insieme ai due piccoli figli. Corpo e anima di una forma estremizzata di disadattamento sociale, impegnato a sopravvivere ai suoi lancinanti silenzi, intento a lambire gli angoli più nascosti di una Taipei trasfigurata, come un cane randagio alla perenne ricerca di zone di protezione. Aspettando la visione di "Days", arrivato dopo che Tsai Ming-liang aveva annunciato il suo ritiro dalle scene. Proposito che si spera rimanga disatteso per molto tempo ancora. 

Lee Yi-Chieh, Lee Kang-sheng, Lee Yi-Cheng

Stray Dogs (2013): Lee Yi-Chieh, Lee Kang-sheng, Lee Yi-Cheng

Ecco, Tsai Ming-liang dice molto sulla condizione umana limitandosi a tradurre le cose che si vogliono dire in coerenti soluzioni visive. La comunicazione è azzerata, gli impulsi sessuali sono ridotti ad un puro fatto meccanico, i sentimenti non possono assecondare le voci di dentro, i silenzi esprimono tutto il dolore che c’è. La vitalità dell’esistenza e soffocata nell’immobilismo delle immagini e nel perdurante mutismo che domina la scena. La verità del vuoto esistenziale viene fatta entrare al Cinema dalla porta principale. Ancora una volta per opera di un grande autore.

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