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Vendo poltroncine di velluto
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Avrei preferito inaugurare questo nuovo anno - e dare il benvenuto a tutti coloro che si sono registrati in questa pausa natalizia e che si vedranno recapitare questa newsletter per la prima volta - con una bella notizia, una notizia che spacca, o almeno con una notizia ottimista sul futuro del cinema e sul nostro. Qualcosa del tipo "Questo fine settimana riaprono le sale" oppure, meglio ancora, "Il cinema sarà insegnato nelle scuole a partire dalla prima elementare". Invece no, evidentemente non è ancora il momento. Non è il momento perché il cinema in sala naviga a vista, le sale sono ancora chiuse, non si sa quando riapriranno, la distribuzione ripiega ogni settimana sullo streaming andando ad infarcire in maniera indifferenziata cataloghi immensi votati alla dispersione.

Non affastellerò di dati questo testo, non ce n'è bisogno perché tutti sappiamo a cosa siamo andati incontro in questo 2020 e non servirebbe a niente mettere in fila gli incassi e fare raffronti impietosi con gli anni passati. Semplicemente non siamo potuti andare al cinema e di conseguenza non abbiamo potuto sostenere economicamente alcuna sala, né quelle che fanno parte dei grandi circuiti né quelle che propongono titoli d'autore. E anche se, per soddisfare la nostra sete, ci siamo iscritti all'ennesima piattaforma streaming, noi sappiamo benissimo che, senza il nostro contributo, senza il contributo degli spettatori finali, il cinema in sala diventa un'astrazione, un concetto, un vago pensiero tenuto in vita, e sedato, dalla (lenta) macchina dei ristori, dalle casse integrazioni, dai finanziamenti Covid a tasso agevolato.

In questo scenario economicamente apocalittico, che si basa sempre di più sull'indebitamento finanziario a tutti i livelli - le persone che non guadagnano, le imprese che non fatturano, le regioni e gli stati che non incasseranno tasse ed imposte sui redditi - e per questo sfugge allo sguardo d'insieme ed anche alla logica, ogni tanto può far bene ricevere un segnale un po' provocatorio, quasi, passatemi il termine affatto denigratorio, infantile. Esattamente quello che ha inviato qualche settimana fa il regista Silvano Agosti, anche gestore di una storica sala indipendente della capitale, il cinema Azzurro Scipioni.

Chiuso da mesi e senza prospettive di riapertura, Silvano Agosti ha pensato di rompere il silenzio o perlomeno i canoni delle abituali proteste, lanciando su Facebook una specie di inserzione in cui propone in vendita tutte le poltroncine di velluto (blu) della sua creatura Azzurro Scipioni, insieme alle sue luci e ai suoi storici proiettori: simboli ovviamente. Simboli cinematografici messi in vendita come fossero niente più che lavatrici usate, divani malconci, stepper inutilizzati (quei cosi su cui saltellare per snellire fianchi e glutei), amplificatori Technics degli anni '80 dubbiamente funzionanti.

Le attenzioni e le risposte del (suo) pubblico non hanno tardato: messaggi di solidarietà, impegni di associazioni di settore, varie ed eventuali. Ogni sala cinematografica ha la sua storia, il suo passato, i suoi spettatori affezionati. Ogni cinema porta avanti un pezzo di un discorso più ampio, su cosa significhi fare cultura cinematografica nel nostro paese. Anzi, su cosa significhi cercare di fare cultura cinematografica in un paese, il nostro, che non ne ha. E non avere cultura cinematografica in un'epoca in cui il cinema - e l'audiovisivo in genere - rappresentano la somma di tutte le arti (visuali, musicali, letterarie, plastiche) è cosa grave alla quale andrebbe messa una pezza. Il nostro paese non ha cultura cinematografica a livello politico e istituzionale, non ne ha a livello produttivo - l'ipersfruttamento della commedia e la miriade di personaggi ridotti a macchietta ne sono un segnale - non ne ha a livello distributivo - impedendo di fatto agli esercenti di costruire una programmazione libera da gioghi e capestri - e ovviamente alla fine non ne può avere a livello di audience, pubblico, spettatori.

Teoricamente i momenti di crisi servono agli individui, ma soprattutto agli organismi, per rimettersi in gioco, per rimettere in sesto, a volte anche sovvertire, la propria piramide di valori. Possiamo stare qui ad aspettare che una associazione di categoria difenda la sala d'essai del nostro cuore dallo smantellamento o aspettarci che un ministro (quale?) o un governo (quale?) tiri fuori dal cilindro una soluzione per salvare cinema, teatri, musei, scuole, università. Ma il problema non mi sembra più il salvataggio in extremis di una sala storica, né può essere limitato al ristoro che arriva o meno, alla concessione di un finanziamento a tasso agevolato Covid, perché questi rischiano di essere solo palliativi che allungano l'agonia, se non c'è una visione a medio/lungo termine. Quindi il problema è la visione. O la sua mancanza.

In mancanza di una visione saremo sempre solo vittime del (libero) mercato. E il mercato, quando è lasciato completamente libero, agisce sulla base di altre priorità, approfittando delle situazioni estreme per contrarsi, per inghiottire pezzi interi senza masticarli, senza pensarci tanto, fosse anche un pezzo della propria coda o della propria storia. E così i simboli del cinema possono diventare inserzioni del marketplace di Facebook ed essere venduti come lavatrici, divani malconci o televisori Samsung al plasma del 2008. E le ceneri delle sale storiche possono essere convertite in supermercati o essere acquistate da grandi circuiti con le spalle economicamente più larghe per farci l'ennesima multisala. Fatte le dovute proporzioni, è lo scenario disegnato da Naomi Klein nel suo saggio Shock Economy (2007).

Alla fine di questa mancanza di visione, di questa incoerente e approssimata cultura cinematografica istituzionale, produttiva e distributiva ci siamo noi, il pubblico. Al quale ogni tanto vengono spacciati "grandi eventi" e "film importanti" senza che ci sia stata data l'infrastruttura di strumenti necessaria non dico per apprezzarli ma anche solo per farli scivolare sulla pelle e vedere se resta attaccato qualcosa alla fine della visione senza far prevalere l'impazienza, la più rivelatrice spia dell'insicurezza di cui siamo vittime.

A proposito di grandi eventi, di capacità di visione e anche di... pazienza, vi saluto ricordandovi che lunedì prossimo, il 18 gennaio, su Rai Movie andrà in onda in prima serata la versione integrale (216 minuti) de I cancelli del cielo, quella che il regista Michael Cimino considera il suo director's cut. Un'opera ambiziosissima e un epico flop di incassi che mise a dura prova allo stesso tempo la solidità delle casse della United Artists, la casa produttrice della pellicola, e la carriera del regista che dopo quel fallimento dovette attendere cinque anni prima di ottenere il via libera per il film successivo.

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