“Persino Gengis Khan sapeva che il suo potere non sarebbe durato se non avesse permesso ai popoli conquistati di continuare a venerare i loro dèi.”
Sinossi.
La sceneggiatura è scritta coi piedi caprini da un elfo pazzo e strafatto di neve di natale spray e Sonequa Martin-Green - aka Michael(a) “Brucia-Prosciutto” Burnham - è l’epitome della cagna maledetta.
* * * (¼) - 6.25
Panossi (a vostro rischio e pericolo, vi avvertossi).
Il pilot della serie portava il soggetto di Bryan Fuller e Alex Kurtzman e la sceneggiatura di Fuller e Akiva Goldsman. Il creatore di “Dead Like Me”, “Pushing Daisies”, “Hannibal” e “American Gods”, nonché già al co-comando di “Star Trek: Voyager”, ha mollato all’inizio della prima stagione, mentre Akiva Goldsman ha resistito fino all’inizio della seconda, nel corso della quale s’è insediata Michelle Paradise (“Exes and Ohs” e “the Originals”), che con Alex Kurtzman ha preso in mano le redini di questa terza. Comunque sia, “Star Trek: Discovery” dal punto di vista della continuità ed organizzazione narrativa [verticale, orizzontale e trasversale che sia, vale a dire per quanto riguarda lo sviluppo dei singoli episodi (con problem solving incorporato), della storia di stagione, di quella della serie e di quella della serie all’interno delle linee spazio-temporali condivise ed interlacciate del marchio “Star Trek”] è… il minore dei problemi e dei mali.
“She’s a Queen!”, dice Book (David Ajala) a proposito del suo grosso grasso gatto da comodino/sofà spaziale (che forse nasconde qualcosa, forse no o forse è solo una palla di pelo in gola).
“She’s a Cursed Female Dog! (♥)”, dice invece chiunque a proposito dell’interpret(azion)e di Michela BruciaProsciutto.
♥ “Bitch!”
Perché sì, il duplice problema è costituito da loro: Michael(a) Burnham e Sonequa Martin-Green.
La prima (♦) è una Mary Sue risolvi-tutto & so-tutto-io all’ennesima potenza: non solo come neanche Sabrina Spellman in “Chilling Adventures of Sabrina” s’azzarda ed arriva ad essere, e quello è uno young-adult, ma financo rispetto ai caratteri fondativi e canonici del brand, da Kirk a Picard (per quest’ultima co-serie Goldsman e Kurtzman con l’aggiunta di Michael Chabon sono stati un po’ più - non coraggiosi, ma - onesti e coerenti intitolando direttamente la loro serie col nome del comandante Jean-Luc), che già di per loro erano e sono dei Gary Stu mica male. Ma nemmeno lontanamente a questi livelli e dimensioni, fasce e quote, ordini e gradi, e nemmanco per sbaglio con queste portata, carica, condizione e sproporzione: qui siamo in zona Horatio Caine di “CSI: Miami”: Orazio, non vi sono più cose in cielo e in terra di quante ne possa contenere il tuo essere Cane + Caino.
(♦) Il nome maschile dato a un personaggio femminile è un vezzo di Bryan Fuller, ma le questioni trans-gender e non-binary sono un argomento più serio, e Libertà, Uguaglianza e Integrazione (in quest’ordine di priorità, pure se l’acronimo è LUI, mi spiace) sono da sempre parte costitutiva e fondante - declinate secondo le priorità del proprio zeitgeist - dell’ampio e vasto ecosistema allargato di “Star Trek”, ma qui (al netto delle buone o per lo meno discrete prove di Blu del Barrio, al suo esordio, e Ian Alexander, già in “the OA”) anche queste preziose e necessarie incursioni/versioni/traslazioni/variazioni, tanto concrete quanto metaforiche, sulla nostra attuale realtà socio-politica risultano - pur riconoscendone la sincerità - troppo banali, facili, e sempli-cistiche/ficatorie: un utopistico riduzionismo sentimentale che è la risposta e l’essenza di un mondo ideale, ovvero non il nostro. Nel frattempo, in contemporanea, sulle stesse tematiche “the Orville” ha detto e fatto di gran meglio.
La seconda - senza davvero alcuna offesa, ché si tratta di un dato di fatto - è una cagna maledetta: persino a zoppicare non riesce. E il fatto che non vi siano - a parte Jonathan Frakes e pochissimi altri - buoni registi a guida della messa in scena e della direzione degli attori ai singoli episodi non (la) aiuta. Quando grida ringhiando “Osyraa!”, mettendoci tutta la foga interpretativa a sua disposizione e oltre, ecco che ogni qualsivoglia sospensione dell’incredulità recitativa e connessione emotiva col personaggio crolla, collassa e si spande al suolo in una polpa pulsante “Pietà!”.
Il computer di bordo e i dati della sfera, lavorando di concerto, sarebbero (stati) un’ottima occasione per cesellare un bel personaggio principale, diverso tanto dall’HAL 9000 di 2001, dalla Macchina di “Person of Interest” e dalla Mother di Alien quanto dall’R2-D2 di “Star Wars”, dal Data di “the Next Generation” e dal Doctor di “Voyager”.
Le comparsate di David Cronenberg e Paul Guilfoyle (qui nelle vesti di “un” Guardiano dell’Eternità di harlanellisoniana memoria: “I’m… Uh… I’m Carl”) e gli omaggi a Leonard Nimoy ed Anton Yelchin possono ben poco (il cameo di Spock, preso di per sé - vale a dire neppure considerando come è stato utilizzato ed inserito - è commovente, ma il resto, il contorno portante, è rivoltante).
Però la serie continua ad essere un guilty pleasure: e un po’ come - per rimanere in tropica zona caniformide - i cani che rimangiano il proprio vomito, ecco ch'io m’ostino, episodio dopo episodio, a farmela scendere in gola. Blurp.
Ad ogni modo, è stato l’orefice.
E comunque, ottimi effetti speciali.
- Stag. Uno (15 ep., 2017-’18) - * * * (¼) - 6.25
- Stag. Due (14 ep., 2019) - * * * ¼ - 6.5
- Stag. Tre (13 ep., 2020-’21) - * * * (¼) - 6.25
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