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“Mi rifiuto di rispondere” - Un ricordo di Dashiell Hammett a sessanta anni dalla morte
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Dashiell Hammett, processo all'America in formato noir” titolava De Cataldo su Repubblica due anni fa “I romanzi del grande scrittore statunitense, ambientati tra le strade violente e specchio della crisi del 1929, hanno cambiato per sempre il genere. Perché qui a essere colpevole non è il solito maggiordomo ma l’intera società”.

Dashiell Hammett

E quale occasione migliore di questo anniversario per parlare di USA, baluardo di democrazia nel mondo? Capitol Hill ieri sotto assedio, è bastato un vetro rotto e tutti dentro a sventolare stelle e strisce sotto lo sguardo bonario di panciuti poliziotti e un Presidente che aizza senza che nessuno pensi a incriminarlo seduta stante.

Ma vediamo cosa combinavano invece negli anni Cinquanta i gloriosi USA, baluardo di democrazia, partendo proprio da Dashiell Hammett, vittima celebre.

"Hammett" ha scritto Raymond Chandler "restituì il delitto alla gente che lo commette per ragioni vere e solide, e non semplicemente per procurare un cadavere ai lettori, e lo fece compiere con mezzi accessibili, non con pistole da duello intarsiate, curaro e pesci tropicali. Mise sulla carta i suoi personaggi com'erano e li fece parlare e pensare nella lingua che si usa, di solito, per questi scopi".

Dashiell Hammett (1894 Contea di St.Mary;1961 New York) fu distrutto dalla HUAC, commissione Mc Carthy.

Morì povero dopo lunga malattia (una vecchia  tubercolosi mal curata degenerata in cancro) il 10 gennaio 1961, bandito da un decennio da Hollywood e dalla maggior parte dei media statunitensi, fu perfino proibita la lettura dei suoi racconti alla radio perché entrato nelle liste nere del senatore McCarthy.

iI caro Walt, testimone molto ciarliero nei processi

 

Hammett fece sei mesi di carcere per oltraggio alla Corte, avendo rifiutato di fare i nomi dei dirigenti del Civil Rights Congress, che gestiva il fondo cauzioni per i militanti di sinistra arrestati per motivi politici e in attesa di processo.

Fedele a quel "mestieraccio" che i detectives dei suoi romanzi svolgono  in un'America cattiva, violenta e corrotta,  Hammett preferì il silenzio, diritto inalienabile garantito dalla Costituzione, V emendamento.

Ci voleva coraggio, e lui ne ebbe.

Da allora ne vide di tutte, fino alla confisca dei suoi beni per una causa di tasse arretrate, anche questa accusa ben manipolata.

A quel punto si ritirò in solitudine e in condizioni di povertà fino al 1956, quando il continuo aggravarsi della sua salute lo costrinse, malgrado il proprio orgoglio, a trasferirsi in casa di Lillian Hellman.

 

Chi era Lillian Hellman?

Era la sua compagna dal 1932, donna di teatro e di cinema, ottime frequentazioni, animatrice di gruppi delle migliori menti dell’epoca (Hemingway, Dos Passos), stalinista antitrotskysta e naturalmente iscritta anche lei nelle liste nere del senatore McCarthy.

Vicina ad Hammett fino alla sua morte, morì a sua volta nel 1984.

Questi scarni dati biografici non colmano certo il ricordo di una vita (anzi due) trascorse in tempi funestati da guerre e persecuzioni, e nonostante il fertile contributo portato a cinema, teatro e letteratura, non abbastanza conosciute dal grande pubblico.

Il profilo di Dashiell Hammett è affidato ai suoi cinque romanzi ("Red Harvest", "The Dain Curse", "The Maltese Falcon", "The Glass Key" e "The Thin Man" ) e ai cinquanta racconti, ai tre processi e sei mesi di carcere, all’ attivismo nella campagna per i diritti civili dei neri e alla lotta contro il franchismo e il nazismo, alla partecipazione ad entrambe le guerre mondiali benchè di salute malmessa, ad una giovinezza difficile per le precarie condizioni finanziarie della famiglia e al lavoro di detective presso l’ agenzia Pinkerton dove imparò i segreti del mestiere.

Quindi alla caduta senza fine, dopo anni di sudato mestiere e meritato successo: i processi del maccartismo.

Una seduta di HUAC

 

Hammett, come tanti altri, è stato un pezzo di storia macabra del ‘900, la tentazione di dimenticarla in nome di vicende altre, ugualmente o anche più dolorose, è sempre in agguato e dovere di tutti è non lasciare che questo accada.

Sulla scia dei ricordi da non disperdere, dieci anni fa, quando esisteva Cinerepublic, un settore del sito ora chiuso e forse alle nuove leve sconosciuto, furono pubblicati da Marcello del Campo alcuni post che ripercorrevano con testimonianze dirette i processi più famosi di quei tristi anni: Brecht, Kazan, e appunto Lillian Hellman

Per la lettura integrale del testo rimando in Archivio al link:

//www.filmtv.it/post/1378/archivio-3-la-testimone-ostile-lillian-hellman-davanti-alla/#rfr:none

Qui riporto solo una nota in cui la Hellmann parla di Dash:

 

Lillian Hellman da: An Unfinished Woman

“Nulla comincia nel momento in cui noi crediamo, ma per molti anni ho pensato a quei giorni nelle solitarie stanze d’albergo di Londra come al momento iniziale della mia svolta verso i movimenti radicali della fine degli anni Trenta. (Io ci arrivavo tardi: in quel periodo molti intellettuali avevano già fatto questa scelta. Così tanti, in realtà, che alcuni stavano già cominciando ad andare in un’altra direzione.)

Mi colpisce ora il fatto di dover ammettere che non sono mai stata molto radicale in politica, almeno nel vero, migliore e più serio senso della parola. I ribelli raramente diventano dei buoni rivoluzionari, forse perché l’azione organizzata, persino il rapporto con altre persone, non è possibile per loro.

Ma questo io allora non lo sapevo e cosi, per confermarmi in quella sensazione, mi misi a leggere quel genere di libri che non avevo mai affrontato seriamente prima. Negli anni che seguirono misi da parte tutti i libri per leggere Marx, e Engels, Lenin, Saint-Simon, Hegel, Feuerbach. Certamente non li studiavo con la dedizione di uno studioso, ma li lessi con l’attenzione di un bravo studente, e Marx come uomo, o Engels con la sua Mary, divennero per un po’ più reali, per me dei miei amici.

Nel 1939, poco dopo Little Foxes, comprai una tenuta nel cosiddetto Westchester — le grandi proprietà erano più economiche delle piccole e ne feci una fattoria, una casa di campagna.

Hammett, che odiava la città più ancora di me, venne a passare là lunghi periodi, e forse i migliori anni delta nostra vita insieme furono proprio quelli passati in campagna. Di notte, con la sana stanchezza di una giornata passata a scrivere, o a fare i trapianti in giardino, o a pulire il pollaio, o ad andare a caccia in autunno, discutevo delle mie letture con Dash, che anni prima aveva letto e approfondito, come è suo  carattere, le stesse cose che io stavo leggendo allora, e molte altre.

Credo che per lui le mie domande fossero stupide e irritanti — mio padre una volta mi ha detto che io vivo in un punto di domanda — ma Hammett era solito dire che non gli dava fastidio il tono polemico che io assumo sempre quando sto imparando qualcosa, perché era la prima volta nella nostra vita insieme, che era disposto a stare alzato oltre le dieci.

 Ma in questo caso quel tono polemico veniva fuori per una ragione che io dovevo scoprire solo una decina d’anni dopo: una donna che non si sarebbe mai” impegnata” si trovava davanti a un uomo che lo era.

Per Hammett, come avrebbe provato in seguito, la fede socialista era diventata un modo di vivere e, sebbene egli fosse molto critico verso alcune dottrine marxiste, e le pratiche politiche a esse associate in passato e nel presente, se ne infischiava.

Io stavo cercando, senza saperlo, di mettere alla prova la sua fede, sentivo di non poterlo fare, e contemporaneamente rispettavo la sua posizione, la invidiavo, mi irritava. Egli era paziente, evidentemente nella speranza che io passassi dalla sua parte, divertito come sempre dalle mie pseudo arrabbiature, refrattario a qualsiasi influenza. Non intendo dire che ci fossero tra noi parole grosse. Non ce ne furono, eccetto in un caso, nel 1953, dopo che egli era stato in prigione e aveva ripreso a insegnare alla Jefferson School [scuola-quadri comunista. N.d.T].

Io ero spaventata all’ idea che questo collegamento ufficiale con la scuola lo riportasse in prigione e glielo stavo dicendo, mentre camminavamo per la 52° strada. Quando fummo a pochi passi dalla Sesta Strada egli si fermò e  disse:

“Lilly, quando saremo all’angolo tu dovrai fare la tua scelta sul fatto che io me ne devo andare per la mia strada. Tu per me sei stata, più di... più di qualcosa di ‘positivo’ o altro, ma ora io sono nei guai e per te sono un peso. Non avrò mai niente da rimproverarti se ora te ne vai. Ma se non lo fai, allora questo tipo di conversazione non deve più ripetersi.”

Quando arrivammo all’angolo io cominciai a piangere e anche lui sembrava sul punto di farlo. Non ero capace dì parlare, cosi lui mi toccò sulla spalla e se ne andò. Stetti ferma su quell’angolo finché non lo scorsi più e poi cominciai a correre. Quando lo raggiunsi, mi disse: “Non penso a bere da anni. Ma ora ne ho proprio voglia. Comunque andiamo, che ti offro da bere.”

[...]

[Dash] si era costruito un suo senso dell’onore fin da bambino e rispettava le proprie regole, fiero di proteggerle. Nel 1951 andò in prigione assieme ad altri due fiduciari del fondo per le cauzioni del Civil Rights Congress perché si rifiutarono di rivelare i nomi di quelli che avevano contribuito alla raccolta dei fondi.

La verità è che Hammett non aveva mai messo piede negli uffici del Congress, e non sapeva neppure un nome di qualcuno che avesse contribuito.

La notte prima che egli comparisse in tribunale gli chiesi: “Perché non gli spieghi che non sai i nomi?”

“No, non posso dire una cosa del genere.”

“Perché?”

“Non so perché. Immagino che abbia a che vedere col fatto di mantenere la parola data, ma non ho voglia di parlarne. Non accadrà niente di grave, anche se credo che per un po’ andrò in prigione, ma tu non ti devi preoccupare perché…” e improvvisamente non riuscii a capire cosa stava dicendo perché la voce si era abbassata, e le parole gli uscivano dalla bocca in un’insolita fretta nervosa. Gli dissi che non riuscivo a sentirlo e lui alzò la voce e abbassò il capo.

“Odio questo tipo di discorsi, ma forse dovrei dire che anche se si trattasse di qualcosa di più grave della prigione, anche se fosse la vita, io la darei per qualcosa che credo sia democrazia, e non permetto ai poliziotti o ai giudici di dirmi che cos’è la democrazia.” Poi andò a casa a dormire, e il giorno dopo andò in prigione."

 

[L. Hellman, An Unfinished Woman, New York, Little, Brown and Co., 1969: traduzione italiana Una donna incompiuta, Editori Riuniti, 1984]

 

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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