Il ritorno di Gary Oldman, un mio mediometraggio su Villa Clara e Letter to You di Bruce Springsteen, sempre più misticamente simile a Bob Dylan
Ne vogliamo finalmente parlare di Gary?
Presto, lo vedremo in Mank nei panni dello sceneggiatore di Quarto potere.
Finalmente, il grande David Fincher è riuscito a realizzare il sogno che covava da tempo immemorabile.
Lavorare con Gary in un film da lui diretto. Inizialmente, al posto del primo Hannibal Lecter del grande schermo, ovvero Brian Cox di Manhunter, in Zodiac doveva esservi Oldman. Il quale però, all’ultimo momento, per ragioni ancora ignote, diciamo non del tutto appurate, all’improvviso diede sorprendentemente forfait.
Nel frattempo, negli anni intercorsi fra Mank e l’Oscar assegnato ad Oldman per L’ora più buia, Oldman recitò sfigurato in Hannibal di Ridley Scott. E Fincher accrebbe la sua fama, ottenendo inoltre un figurone con Mindhunter. Del quale diresse e dirigerà alcuni episodi...
Credo, in tutta sincerità, che Gary Oldman sia stato per molto tempo identificato erroneamente soltanto come villain con indole da Joker. Sebbene, nella trilogia nolaniana di Batman, Oldman fu un buon tenente e non quello di Harvey Keitel nel Bad Lieutenant di Abel Ferrara. Per l’appunto, appuntatevelo, appuntati, carabinieri e poliziotti della Critica superficiale. Non impuntatevi con prese di posizione limitate e fasciste. Gary è la versatilità fatta persona, incarnata, pareva morto e datato, incartapecorito e imbalsamato, invece resuscitò e ringiovanì di colpo come in Dracula di Bram Stoker.
Gary, figlio di un saldatore, giammai laureatosi e presto istradatosi da autodidatta.
Un duro, un’anima ribelle, ancora bello nonostante le sue non più freschissime primavere. Ah, incontrò da adolescente molti bulli. Lo so...
Assomiglia a qualcuno di mia conoscenza. Sì, questo qualcuno (che) io vedo allo specchio dalla mia nascita. Non credete?
Sì, come noi uomini sappiamo, non si può mentire dinanzi alla propria immagine riflessa.
Specchiandoci, infatti, cogliamo intimamente il silenzio del nostro vero, vivo, scalpitante e viscerale cuore specularmente simbiotico alla nostra coscienza più inesplorata, riaffiorata dal profondo...
Nella realtà di tutti i giorni, siamo spesso costretti, giocoforza, a indossare delle maschere. Per accontentare il gusto della medietà conformista, adattandoci alla tristizia dei compromessi più puttaneschi pur di essere stimati dal prossimo. Al fine di ostentare, esteriormente, la nostra immagine migliore possibile.
Sto parlando ovviamente di molti di voi. Di mio, non ho mai pensato che un uomo debba svendere la sua dignità per piacere agli altri pur di ottenere la patetica simpatia e un contentino come si fa coi bambini e, semmai, elemosinare piacevolezza da una donna, mostrandosi a lei con un look fintamente perfetto che trasudi impeccabilità morale, invero truccata.
Ma che film sarebbe mai questo che vi siete “sparati?”. Whore di Nicolas Roeg?
Sì, a causa del mio istrionismo personalissimo in linea con la mia autentica unicità indissolubile, i miei coetanei, durante l’adolescenza, credettero che fossi matto e mi consigliarono di vedere Mille pezzi di un delirio.
Essendo taciturno, mi dissero perfino: - Guarda pure Niente per bocca.
Al che, ne successero delle belle. Insomma, delle brutte più racchie delle ragazzine da Harry Potter, frequentate da chi mi accusò di essere agorafobico e più incosciente, poco previdente delle conseguenze come Lee Harvey Oswald di JFK.
Se ne fece un caso e voi non fate, per l’appunto, caso se mi va qui di sdrammatizzare sulla situazione assurda che involontariamente innescai, inducendo le persone ad addebitarmi la diagnosi di persona afflitta da disistima, da allucinante atimia affettivamente fredda, forse solo emozionalmente sofferente di tachicardia mancante d’empatia. Ma per cortesia!
C’è da rimanere senza parole. Ah ah. Speechless.
No, al punk di Arthur Fleck, preferisco Sid e Nancy. Mentre, a Nancy Brilli, Gilda Sbrilli. Curatrice di un’edizione dei Promessi sposi.
Ah, Orson Welles ed Hayworth Rita, la leggendaria Gilda.
Mi urlarono... sei Il mai nato. Un film pessimo. Lo andai a vedere solo perché la locandina m’attizzò.
Sì, nel poster originale viene riflessa la strega di Cappuccetto rosso sangue?
No, semplicemente una che fa sesso. Il film invece fa senso e lei non soltanto non si spoglia, bensì non sa aprirsi, a differenza di Oldman, ad una recitazione sbottonata da vetusti codici di rigidità formale assai pallosa.
Adoro Gary. Quest’uomo nevrotico, imprevedibile, che recita col cuore e non a c... o.
Quando carica da matto, no, di brutto-bellissimo da matti come per il suo epocale, gigionesco Norman Stansfield di Léon, è uno spettacolo più eccitante di Monica Bellucci dei tempi d’oro.
Lo amo quando è uguale a me in A Christmas Carol.
E quando se la ride come un pazzo ne La talpa. In cui, degl’ingordi idioti pensarono di aver compreso un mistero alla Rosebud, invece rimasero con un palmo di naso.
Cantando La Mer poiché distrutti e costernati dinanzi alla loro umana miseria oceanica.
Amo anche da morire La finestra sul cortile ma non so se The Woman in the Window sarà un bel film.
Quello che so per certo è che Amy Adams è più f... a di Grace Kelly.
No, non voglio diventare il Presidente degli Stati Uniti. E non so se sia peggio Donald Trump o se sarà ancora più scemo di lui, eh sì, Biden. Per me, quasi tutti i politici sono sporchi e meriterebbero un bidet.
Non sono comunque un anarchico terrorista come Oldman in Air Force One.
So anche che Mozart fu un genio indiscutibile mentre Oldman, in Amata immortale, sembrò una caricatura di Amadeus, sì, il presentatore televisivo. Mica quello divinizzato da Alex di Arancia meccanica. O no?
Gary sbagliò tante volte nella sua vita da fuori di testa. Perse, sì, la testa per molte donne e pensò che un genio come lui potesse accontentarsi di Uma Thurman ed Isabella Rossellini.
Sì, devo dare ragione al mio amico Ottavio. Lui crede fermamente alla dottrina gnostica. Che suddivide l’umanità in tre categorie.
1) I nani, cioè gli ilici. Il 90% delle persone. Che vivono di gelosie, invidie, corna, tradimenti e oscene competizioni superflue.
2) gli psichici. Categoria nella quale Ottavio mi annette. Cioè persone a un passo da essere elette. Spero non a capo degli States. Ah ah.
La terza categoria, comunque, il mio amico pensa che io possa raggiungere fra circa un mese.
Quando pubblicherò il mio prossimo libro.
Un libro che, alla pari di Orson Welles di Citizen Kane, ribalta la concezione di tempo e lo supera a mo’ dell’Oldman del Dracula. Abbattendo ogni barriera.
Sì, Welles è un gigante del Cinema.
Comunque, penso che questo sia un bel mediometraggio mistico-spirituale, perfino ero(t)ico, e che Bruce Springsteen, col passare degli anni, sia uno splendido fantasma ancora capace di commuovere alla maniera di Bob Dylan.
Insomma, date il Nobel anche al Boss.
Date l’Oscar ad Oldman per Mank o ad Anthony Hopkins per The Father.
A me date un bacino. Mi accontento.
Tanto, qualcos’altro, è la mia lei a darmelo(a)...
Goodnight and good luck.
Presto sarà Natale.
E vi regalerò altri sogni.
Sì, sono Clint Eastwood/Babbo Natale di Fino a prova contraria.
Se non vi sta bene, non pot(r)ete amare Gary Oldman. Dividerete le persone fra sfigati e fortunati, tra fighi e cog... ni, chiamerete l’altro orfano di madre od aborto vivente, vi odierete e non amerete, in cuor vostro, l’immagine di voi stessi che si rifletterà davanti allo specchio.
Mi spiace, non vivrete bene, non amerete non solo il Cinema.
E non sarete mai Gary Oldman, Orson Welles, Bob Dylan e Bruce Springsteen.
Per quanto mi riguardi, mi riguardo sempre per migliorare. Io sono io. Va bene così.
No, sì, no, sì, abbasso gli asini e le teste di mulo.
Ebbene, il Boss è tornato con Letter To You. Un’ode alla più dolce, fosca, tenera e al contempo tenebrosa, malinconica sua reminiscenza monumentale di natura mondialmente musicale, un’epica e soffice raccolta delicata, già d’antologia, incastonata e sigillata eternamente nella mirabilissima sua rocciosa eternità perpetua ed eterea. Una carezza lieve donata alle nostre anime. Alle volte spaurite, melanconiche, altre volte grintosamente auto-echeggianti l’evocativa virtù dell’infinità (u)morale delle nostre stesse accorate sensazioni traballanti, in continuo mutamento e rigenerativa freschezza persino euforica dopo tante eclissi dei nostri cuori spezzati, oscuratisi nel buio e poi, di colpo, risorti magnificamente in gloria.
Quest’uomo immarcescibile, oramai appurata ed incontestabile leggenda vivente incarnata nel suo viso oggi smagrito, nella sua ectoplasmatica sagoma avvolta da una nebbiosa atmosfera nevosa, camminando nell’asperità romantica dei suoi perenni, giammai vinti, crepuscolari e al contempo infuocati dubbi esistenziali, pare che riemerga dalle soffuse penombre di sé stesso, incorporandosi nel revenant cantore delle sue incantevoli memorie magiche. Pietrificate nello splendore dell’adamantino rammemorare il suo e nostro cammino poetico, addirittura ambiguamente ermetico. Sobrio e lucente.
Bruce Springsteen, ladies and gentlemen, che nella copertina del suo nuovo, stupendo album imprescindibile non solo per i suoi irriducibili aficionado, ormeggiando in metaforico the river sulfureo della plumbea, “accordata” mareggiata emotiva della sua carriera oceanica, ci regala un’altra perla piena di canzoni dolcemente lievi evocanti forse A Christmas Carol di Charles Dickens, soavi come un’onirica, atmosfera natalizia, per l’appunto, appaiabile a Paul Auster o, forse, alla squisita amabilità commovente del derivatone, cinematograficamente, racconto vividamente sentito di Harvey Keitel in Smoke.
Letter To You profuma di concettuale spiritualità quasi gospel, sì, di mistica ed avvolgente, allo stesso tempo sanguigna vivacità toccante. Pare, a tratti, addirittura un moderno canto gregoriano.
Dopo Western Stars, elegia dedicata alle anime spare parts dell’infinita, folle e visionaria America forse perduta eppur combattivamente resiliente, a settant’uno il Boss si restaura nel ricordarsi, nel contemplare la bellezza sfuggevole e cangevole del tempo rivisto, introiettato e cantato con la forza ancora gagliarda della sua tempestosa leggendarietà inscalfibile ed immutata.
Cosicché, recuperando dal cassetto dei suoi stessi sogni giammai arenatisi ed assopitisi, alcune canzoni incomplete ed inedite degli anni settanta, alternandole a brani del tutto nuovi, levigati nelle sue vocali corde già, puntualmente, indimenticabili, c’allieta e culla con vibrante, senziente beltà marmorea.
Rilluminando sé stesso, estasiandoci nel far sì che, ancora una volta, possiamo immergerci attraverso lui in un altrove luccicante di lucida, fortemente impalpabile voglia di vivere e rivivere. Di amare e ricordare per rinascere nuovamente intrepidi ed agguerriti. Ancorandoci al passato per rielaborarlo, assieme a lui, in forma catarticamente suadente e morbida.
Con Ghosts supera sé stesso, mormorandoci la levità della fantasia immaginativa e della mnemonica frenesia del suo rispolverare il suo e nostro excursus insuperabilmente, strenuamente agganciato alla purezza dei nostri ricordi riscaturiti vulcanicamente in esplosiva potenza vitale, inarrendevole e, nonostante tutto, ancora intatta. Ripetiamo, immutabile.
Anche se a noi è piaciuta da morire soprattutto Song for Orphans.
Sì, Letter To You non tocca certamente le vette di perfezione stilistica di Nebraska, Bruce Springsteen non è più quel ragazzo strepitosamente e meravigliosamente scalmanato di Born to Run, ma è sempre lui.
In Letter to You aleggia anche la presenza, chissà, di un altro rocker immenso, Bob Dylan.
di Stefano Falotico
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