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So(g)no lucido?
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È con un sogno che desidero chiudere questa stagione di newsletter. Un appuntamento che ci obbliga - a Database e a me in maniera alternata - a fermare la trottola sulla quale giriamo per trovare un punto da fissare, come devono fare le ballerine quando intraprendono una lunga serie di fouetté.


Nella nostra giravolta dal ritmo lento, una ogni due settimane, cerchiamo un punto da osservare sul quale focalizzare l'attenzione, per mantenere l'equilibrio o per cercarne uno che meriti di essere condiviso. Questa volta è un sogno, lucido e ad occhi aperti, che ho fatto un giorno della settimana scorsa.

Giravo in macchina per quest'isola nella quale vivo ormai da tanti anni. Si tratta di una grande isola spagnola del mediterraneo, da decenni votata al turismo di massa e necessariamente asservita all'economia che ne deriva. Un'isola che, pur essendo stata capace di conservare parecchie zone vergini, ha disseminato i suoi magnifici litorali di enormi alberghi, eco-mostri destinati ad accogliere ogni anno milioni di turisti. Strutture gigantesche da centinaia di stanze, piscine che sembrano campi da calcio, sterminate sale ristoranti in cui vengono sfamati i turisti all inclusive che spesso neanche escono dai confini dell'hotel, arricchendo, diciamo, ma sull'uso di questo termine ci sarebbe da riflettere, esclusivamente le casse delle società che detengono la proprietà di queste catene o delle banche che le tengono in vita rimettendo in circolo il denaro sulla base di promesse di incassi e di previsioni di budget.

Nel nord dell'isola c'è una lunghissima lingua di sabbia, chilometri e chilometri di spiaggia dunare, alle spalle della quale c'è una zona umida, un parco naturale di 1600 ettari, un territorio, ovviamente protetto, fondamentale per la conservazione e per la sopravvivenza della flora e della fauna dell'isola. Eppure, in un gioco di contrasti così tipico di questo luogo, proprio sul confine dell'immenso parco si stagliano gli immancabili, osceni, immensi alberghi.

Il lockdown dal quale l'Europa è uscita da poco, o per poco, ha alimentato l'illusione di avere recuperato la cosiddetta normalità ma i grandi alberghi sono rimasti semi-vuoti come cattedrali sconsacrate elette a simbolo della temporaneità di questa riconquista. La foto che ho scelto per illustrare questo testo rappresenta il frontespizio di uno di queste strutture: quei due solitari asciugamani appesi alla ringhiera erano gli unici due dell'intera facciata.


Gli alberghi sono stati aperti ma i turisti non sono arrivati. Chi ha scelto di non viaggiare ha agito sulla base di pulsioni e motivazioni che credo vivano un po' in tutti noi. Sono le stesse che - a prescindere dalle norme di sicurezza e dalle limitazioni - non mi permettono di vedermi a spassarmela ad un concerto insieme a migliaia di persone, le stesse che probabilmente ancora a qualche livello incidono sul nostro desiderio di frequentare luoghi ad alto tasso di densità umana. I piccoli alberghi e gli agriturismi che hanno deciso di aprire, infatti, stanno sentendo di meno la clamorosa flessione in termini di occupazione, ad essere maggiormente in crisi sono le strutture che hanno fondato la propria redditività sulla massa, anzi sulla deportazione a scopo ludico delle masse.

Quella giornata passata a vagare lungo il litorale costellato di enormi strutture chiuse o semi-deserte ha prodotto ad un certo punto una specie di visione, un sogno lucido che ha dato forma ad un'esigenza: quella di una riconversione. E così sotto ai miei occhi quell'albergone al quale ho scattato la foto, costruito inopinatamente proprio sul limitare di un parco naturale è diventato in un baleno una facoltà universitaria di agraria, proprio in quest'isola che ha dimenticato la propria tradizione campagnola, togliendo fondi alle coltivazioni, vendendo i terreni vicino al mare a multinazionali che ne hanno fatto immense strutture alberghiere.

Una riconversione guidata dalla consapevolezza che un'economia fondata sullo sfruttamento verticale e indiscriminato del territorio e sulla marginalità prodotta dai grandi numeri alimenta un apparente benessere che è più finanziario che economico. Una specie di ricchezza virtuale, una maionese perennemente a rischio di impazzire e di svelarsi per quel che è: due uova, un po' d'olio, un pizzico di sale, succo di limone e 70% di aria.

Le vacanze che vengono consumate quest'anno hanno una dimensione più umana, le misure di sicurezza restrittive sono l'espressione istituzionale di un bisogno che risiede dentro a ciascuno di noi. Le grandi strutture alberghiere all inclusive sono deserte, come quei centri commerciali cinesi incompiuti frutto di un'idea sballata, le navi da crociera da migliaia di persone sono rimaste nei porti di partenza o nei cantieri, le strade destinate al passeggio, allo struscio, alla bevuta compulsiva, allo sfruttamento altrettanto compulsivo della massa, sono state limitate, nonostante le proteste dei gestori dei locali. È come se la solitudine obbligata di questi ultimi mesi abbia naturalmente indotto l'individuo verso la frequentazione del piccolo gruppo piuttosto che verso l'appartenenza a grandi aggregazioni indistinte. E dove l'individuo non ci è arrivato da solo è stato aiutato dalle misure istituzionali (non sempre, eh).

Inguaribile ottimista quale sono sempre stato, penso che all'interno di questa prova alla quale siamo stati sottoposti ci sia un'opportunità che ci può guidare verso un cambio di paradigma. Si tratta di rimettere in moto i meccanismi in maniera graduale, riprendendo in mano i fili della nostra evoluzione di animali sociali.

Se possiamo immaginare di trasformare i mega-alberghi in facoltà universitarie e le navi da crociera in spazzini degli oceani senza per questo uccidere il turismo, possiamo pensare di riconvertire i multisala da centinaia di posti a sedere senza decretare la fine del cinema in sala? Riusciamo ad immaginare un futuro per il cinema che non dipenda solo da sale da centinaia di posti e grandi titoli di richiamo ai quali attribuire il ruolo di ciambella di salvataggio del mercato?

Fate il vostro sogno lucido, vale tutto, a patto che sia a misura d'uomo.
Poi ci prendiamo un respiro, prima di riprendere le nostre giravolte.

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