È il caso a guidare le mie visioni cinematografiche. I film mi "cadono" davanti ma chi me li tira addosso sembra che sappia scegliere molto bene. O forse sono io, che quando si avvicina il giorno in cui devo scrivere questo testo, inizio a guardare i film in maniera diversa, alla ricerca di un segno che mi offra la possibilità di agganciarmi a qualcosa di esterno rispetto alla pura visione di cinema. Il commissario Pelissier mi è arrivato addosso subito dopo la morte di Piccoli, consigliato dall'amico Mauro che sul cinema francese a cavallo tra il noir e il polar ha costruito un vero sapere.
Pelissier, interpretato in maniera superba da Michel Piccoli, è un commissario parigino (apparentemente) glaciale ma in verità tormentato dal desiderio di cogliere i criminali in flagranza di reato. Ed è, soprattutto, un ex giudice che ha lasciato la magistratura per spostarsi sul versante più operativo della legge, un elemento narrativo che, senza mai essere troppo pompato, introduce un tratto della personalità di Pelissier che si rivela fondamentale per accedere alla sovrastruttura dell'opera di Claude Sautet, imbastita con grandissima finezza. Il film inizia, infatti, proprio con il commissario visibilmente deluso perché una delle sue retate, basata ovviamente su una soffiata (cosa ne sarebbe del potere senza gli infiltrati?), è appena andata buca: i criminali hanno spiazzato la polizia fingendo una rapina in una banca e spostando, all'ultimo momento, l'obiettivo su una banca diversa. Un affronto che, ovviamente, Pelissier non può tollerare.
Come un vecchio lupo grigio, fiuta una traccia addentrandosi nel sottobosco criminale della capitale e (ri)entra in contatto con Abel, un malvivente di piccolo cabotaggio, sua vecchia conoscenza. Giocando con estrema ambiguità inizia a carpire informazioni e a costruirsi una mappa mentale della fitta rete che sostiene la malavita parigina. Gli bastano un paio di visite a Nanterre, comune situato nella Banlieue a nordovest di Parigi, per capire che tra le pieghe di quell'ambiente - fatto di gente semplice, che si arrabatta tra una partita a carte nel bar del quartiere, una bevuta in compagnia, le giornate passate a fare a pezzi vecchie automobili per recuperare qualche spicciolo e qualche furtarello notturno nei cantieri edili - esiste la possibilità di placare la sua sete di giustizia. Scegliendo il modo più ingiusto. Trasformandosi in agent provocateur, scolpendo ambizioni dove in principio non ce ne sono e creando da zero i presupposti, e poi le necessità, di una rapina per controllare tutto il processo fino alla sua ideale fine, perseguendo la sua personale chimera: la flagranza di reato.
Come in una partita a scacchi di cui è il solo a conoscere e a modificare, strada facendo, il ruolo dei pezzi, compie le sue mosse con calcolata precisione, senza sbagliarne una. Almeno fino a quando non entra in scena la variabile impazzita: Lily la tedesca, professione prostituta, compagna di Abel, cioè una meravigliosa Romy Schneider. Spacciandosi per banchiere, prima la seduce a suon di bigliettoni e poi ne conquista i sentimenti con uno sfibrante tira e molla emotivo, disseminando, allo stesso tempo, di indizi e informazioni le loro conversazioni e contando sul fatto che prima o poi sarebbero arrivati a destinazione e avrebbero messo in moto dei bisogni che la sfigata combriccola di bonaccioni di cui Lily fa parte non aveva mai neanche lontanamente ipotizzato.
Nella foto di scena che ho scelto per illustrare questo testo c'è Michel Piccoli che, sotto lo sguardo incredulo di Romy Schneider, si finge molto occupato nello smontare e rimontare un orologio. Una scelta davvero simbolica, perfetta per Il commissario Pelissier, ossessionato dal controllo.
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