Qualche giorno fa ho visto un film che mi ha scatenato una serie di ricordi, e da lì emozioni, che fino al momento in cui si sono manifestati non credevo fossero neanche lontanamente recuperabili dai sotto strati della mia memoria. Invece evidentemente se ne stavano lì, acquattati come lucertole al sole, in attesa di essere riportati in vita da un pretesto. E sono bastati i primi cinque minuti di Favolacce, l'ultimo film dei fratelli D'Innocenzo da poco disponibile su diverse piattaforme streaming, per rimetterli in circolo, anche se ad arrivare allo stato cosciente ci hanno messo qualche giorno.
Quando ero piccolo passavo le estati in un piccolo paese della provincia ligure affacciato sul mare. Ci viveva mia nonna e per questo, una volta finita la scuola, i miei genitori mi ci portavano e lasciavano tutta l'estate facendo, loro, avanti e indietro. Il soggiorno durava tre mesi, un tempo che allora mi sembrava indefinito. O infinito, che è lo stesso. Tre mesi costruiti su solide routine tra le quali però esistevano notevoli margini di tempo e libertà in cui sperimentare discrete quantità di solitudine.
La casetta rossa appollaiata in collina nella quale passavo questi tre mesi era inserita in un quartiere di casette ugualmente colorate, diversamente abitate. Affacciate tutte su una unica lunga strada che iniziava con una irresistibile e pericolosissima (in bicicletta, ehm) serie di tornanti e che, dopo una discesa e una risalita inebriante, terminava brutalmente con un muro sbrecciato, uno dei miei confini. Dopo una sbrigativa colazione, alle nove di mattina inforcavo la mia Saltafoss rossa e percorrevo a velocità variabile - a seconda se la pedalata era indiavolata o indolente - e in(de)finite volte la strada nella quale esercitavo la mia libertà.
Ero solo e quello che avevo accanto, di fianco al quale scorrevo sulla mia bici, quello che si svegliava con il crescere del calore e dell'afa di quelle lunghe estati, era un mondo che per me si esprimeva principalmente in forma di rumori. C'erano i rumori della natura che provenivano dai terreni circostanti - un tappeto sonoro sedimentato prodotto da cicale e uccelli e cani che latravano in lontananza - su cui si innestavano quelli provocati dai bambini - il pallone da pallavolo di Carola che rimbalzava in un cortile, i fratelli Merissi che litigavano e la madre che alzava la voce per farli tacere, l'audio del cartone animato che filtrava attraverso una persiana parzialmente abbassata - e c'erano i rumori degli adulti, quel parlottare in cui era difficile distinguere la singole parole, di cui percepivo solo toni impregnati di ambiguità o di manifesta ostilità, come la donna intorno ai 40 anni che tutte le mattine alla stessa ora parlava al telefono a volte con tono sommesso a volte esasperato, parole prive di senso ma con una esplosiva carica ansiogena. Rumori e suoni come espressioni di un mondo che, nonostante cercasse di sedurmi per il semplice fatto di rappresentare una specie di destinazione, mi pareva animato da logiche e dinamiche che me lo rendevano oscuro, quando non decisamente alieno.
Quelle sensazioni, quel punto di vista - anzi di ascolto - "bambino" mi è piombato addosso come un treno in corsa fin dai primi momenti di Favolacce. Un film immersivo che parla di una provincia, e di una classe che la abita, che non è stata spesso rappresentata al cinema. Non la periferia facile, cinematograficamente parlando, della malavita, non quella dei ragazzini che restano intrappolati in un sistema criminale pervasivo (come accade in La terra dell'abbastanza, film d'esordio dei fratelli D'Innocenzo), dominato da logiche stringenti e durissime - che fanno già parte dell'immaginario cinematografico dei nostri tempi - e fotografate con i toni freddi e grigi tipo Dogman di Matteo Garrone. No, questa provincia romana è calda, assolata, un po' Hopperiana, e sembra impressa su una pellicola Super8 con i suoi toni dorati, con i suoi piani larghi e generosi, con cui illustra un mondo ad altezza di bambino e su cui si innesta un trattamento audio eccezionale che riporta in vita i rumori, sui quali costruisce le sensazioni che poi diventano triste, oscena, conoscenza. C'è una scena, ad esempio, in cui Elio Germano e Max Malatesta (grandiosi) cianciano tra loro durante un pranzo con mogli, amici e figli e il loro dialogo viene reso come se fosse filtrato dai rumori di fondo, volontariamente disturbato e reso incomprensibile, eppure perfettamente palese in tutta la sua volgarità, in tutta la sua turpitudine, anche senza che ci sia una piena comprensione delle singole parole. Anche agli occhi e alle orecchie di un bambino.
Il risultato è che il mondo degli adulti che vivono nella provincia rappresentata in Favolacce è ancora più violento di quello de La terra dell'abbastanza. Apparentemente lucido e pulito, in realtà inascoltabile, incomprensibile, intimamente codardo. L'apparente benessere sotto al quale cova il tizzone ardente della disillusione alimenta l'incapacità del sentimento, prima ancora della violenza del gesto. La stagnazione emotiva delle madri e il paradossale, patetico, machismo dei padri nutrono gradualmente il masochismo dei figli.
Grazie ad una scrittura cinematografica potentissima, che semina indizi come se fossero piccole fiammelle che illuminano calibrate porzioni di un cammino notturno, i fratelli D'Innocenzo mettono in scena una danza macabra che in certi momenti sembra ispirata dal Lanthimos più cattivo, quello di Kynodontas. E un'estate che avrebbe potuto essere dorata, accompagnata solo dai rumori di una campagna antica, fatta di campi da scoprire, di ricognizioni e scorribande, diventa un terreno malato in cui a disseminare le mine sono proprio quelli che dovrebbero amare, o almeno proteggere.
L'estate è dei bambini.
Restate bambini.
Se questa storia ha risuonato con i vostri ricordi, se anche voi avete instancabilmente messo a dura prova i vostri limiti a bordo di una bicicletta, accompagnati da quei rumori che solo l'estate produce o se avete visto Favolacce e pensate che io abbia visto o sentito un altro film e volete farmelo sapere, potete usare lo spazio qui sotto per tirare qualche calcio al vostro pallone. Io ero bravo in porta.
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