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Meglio sol(d)i che male accompagnati
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Sì, oggi parliamo di soldi. Ma prima di tutto i fatti. Il 10 aprile la Universal ha fatto uscire direttamente in noleggio digitale Trolls World Tour negli Stati Uniti, poi in Gran Bretagna ed anche nel resto dell'Europa. La cosa ha fatto incazzare duramente le principali catene di esercenti cinematografici che si sono viste messe da parte in un momento già delicato e che hanno replicato affermando che, se queste sono le nuove regole unilateralmente introdotte,  per i film targati Universal nelle sale cinema degli Stati Uniti non ci sarà più alcuno spazio. A peggiorare la situazione, dopo tre settimane di noleggio su varie piattaforme online inclusa la nuovissima Prime Video Store, già attiva anche in Italia, la Universal ha svelato dati di incasso e dettagli economici dell'operazione Trolls World Tour in un articolo sul Wall Street Journal. E i dati parlano di un successo abbastanza eclatante che è in grado da solo di ridisegnare nettamente i confini di una relazione - tra produttori, distributori ed esercenti - già peraltro segnata e avvelenata.

Solo negli Stati Uniti sono stati venduti cinque milioni di noleggi che moltiplicati per la (non) modica cifra di 20 dollari a noleggio, assommano ad un incasso di cento milioni di dollari. Come se non bastasse su ogni noleggio la Universal ha incassato l'80% rispetto al 45% che solitamente incassa una volta detratte le percentuali degli esercenti nel circuito cinema. Non solo. Come tutti sanno il marketing e le spese di promozione per lanciare un titolo online sono infinitamente più convenienti rispetto alle spese di lancio di film in sala: pubblicità mirate su spettatori specifici, prezzi economici e, soprattutto, coefficienti di trasformazione degli investimenti pubblicitari in spettatori paganti, misurabili e istantanei.

Vediamo un attimo. Prima di tutto: 20 dollari per un noleggio di un film in digitale? Se n'è già parlato anche in questi spazi un paio di settimane fa, ma questa volta la cifra richiesta per il noleggio va esaminata con maggiore attenzione. La tipologia di film, infatti, è la chiave per decodificarne, almeno parzialmente, il successo. Si tratta di un prodotto destinato agli spettatori più piccoli, fatto uscire in un momento in cui non esistono alternative e in più, considerando che il prezzo medio di un biglietto negli Usa è di 9 dollari, se una famiglia di tre persone fosse andata a vedere lo stesso film al cinema avrebbe speso 27 dollari. Più i popcorn e le bevande. Questo risultato abbastanza straordinario è quindi dovuto ad un incrocio preciso: tipo di film (infanzia), momento specifico (lockdown), risparmio per lo spettatore. Pur facendo la tara all'iniziativa della Universal, il caso Trolls World Tour introduce bene alcune dinamiche che caratterizzeranno l'industria del cinema del futuro, di un futuro molto presente.

E in Italia? Qual è lo stato del dialogo in questo momento tra i vari attori della catena? Prendo spunto (e anche una porzione della bella illustrazione di copertina del disegnatore Astutillo Smeriglia) dall'inchiesta sul numero in edicola degli amici del settimanale Film Tv, in cui sono stati intervistati e ascoltati esponenti dei vari segmenti che compongono la cosiddetta filiera cinema: esercenti, distributori, produttori, organizzatori di festival, registi. Se a prima vista si scorge tra tutti gli interventi una certa unità di intenti solidale focalizzata sulla necessità di trovare una modalità che salvaguardi l'anello debole della catena, ossia le sale cinematografiche, quel che emerge un po' da tutti i contributi è che si avverte l'assenza di una regia politica. L'uscita del ministro Franceschini che (stra)parla di una Netflix della cultura italiana, oltre ad essere sbagliata nella forma è, a mio parere, anche discutibile nella sostanza. Prima di mettersi ad investire sui frutti della cultura italiana rendendola disponibile in tutto il mondo mutuando un modello su cui rischiamo di essere perdenti in partenza - perché fare una piattaforma non è una banalità, perché c'è già chi lo fa molto bene e ha ormai un vantaggio competitivo grazie al quale beneficia di economie di scala imparagonabili - sarebbe meglio investire sul territorio mettendo in atto reali e concrete misure per salvaguardare i luoghi, prima di tutto fisici, in cui la cultura si dovrebbe consumare.

In questo momento c'è bisogno di risposte per dare un orizzonte a cinema, musei, teatri, librerie, edicole. Se ci devono essere degli interventi economici, che siano agevolazioni fiscali, adeguamenti tecnologici, finanziamenti a tasso zero o addirittura a fondo perduto, il momento è questo. Ci tengo a ricordarlo, le iniziative del Decreto Cura Italia per le aziende - siano esse grandi, medie o minuscole - consistono esclusivamente nell'avere reso più snello l'accesso all'indebitamento, ma non si tratta di una misura così straordinaria, non è una risposta a questo momento specifico: accedere a finanziamenti in maniera efficiente dovrebbe essere la norma, non un'eccezione da Coronavirus.

È clamorosamente fuori luogo stare lì a baloccarsi con l'idea che il mondo intero possa noleggiare la Prima de La Scala sulla "Netflix italiana" di nuova creazione, quando è la sopravvivenza dei teatri, dei cinema, e di migliaia di altre piccole, ma non meno prolifiche, realtà ad essere il vero nodo da sciogliere. Dalla politica ora ci si aspetta un segnale, un orientamento, un sostegno alla cultura che metta a disposizione tangibili risorse. Invece di continuare solo ad arrogarsi il diritto di stabilire quali siano i film, le produzioni teatrali, le mostre, da finanziare e sostenere e, soprattutto, invece di sventolare idee fuori tempo massimo racchiuse in slogan concettualmente sbagliati. Oltretutto, i tempi per realizzare da zero una piattaforma digitale culturale italiana, che non sia una semplice vetrina su Vimeo, sarebbero sicuramente superiori al tempo necessario per gestire questa fase di transizione in cui assicurare la partecipazione agli spettacoli pubblici in sicurezza.

Chi segue questo spazio conosce il mio orientamento, io ho sempre pensato che lo streaming possa essere un valido alleato anche per le sale cinematografiche, ma non mi sembra che la soluzione possa essere quella proposta dal ministro Franceschini e neanche quella che si sta ventilando da qualche tempo che prevede di inserire "forzatamente" i cinema di quartiere nella spartizione dei ricavi provenienti dai noleggi online. Soprattutto perché questa scelta si rifletterebbe sul prezzo del noleggio e finirebbe per ripercuotersi, ancora una volta, sulle tasche degli spettatori rischiando anche di fornire un discreto alibi per una recrudescenza della pirateria.

Esercenti, distributori, produttori, registi stanno dimostrando qui in Italia di volere, forse per la prima volta, fare davvero qualcosa insieme. Tutti potrebbero rinunciare a qualcuno dei propri benefici pur di evitare il braccio di ferro a cui stiamo assistendo negli Usa, ma le istituzioni sono chiamate ad intervenire in maniera mirata, ad accompagnare questo percorso attraverso investimenti sul territorio, ad ampliare l'orizzonte di sopravvivenza dei luoghi in cui si produce e distribuisce cultura, a salvare migliaia di posti di lavoro a rischio nei settori strategici. Questo è il segnale di cui c'è bisogno adesso. Un segnale forte e limpido che farebbe anche passare il messaggio che la cultura, e l'economia ad essa legata, è fondamentale per il nostro paese. Un segnale, infine, che si rifletterebbe anche sui consumi e sul valore che a questi consumi noi attribuiamo. Dobbiamo rimboccarci le maniche, tirare su i pantaloni, calarci un cappello sulla fronte per proteggerci dal sole e ricominciare ad innaffiare il terreno per lavorare sui raccolti culturali del futuro. Abbiamo bisogno di acqua, non di propaganda. E lasciamo che siano Netflix e Amazon a tirar fuori i soldi per i frutti della nostra cultura, se li vorranno rendere disponibili alle loro audience globali.

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