Ci sono visioni che sono neutre. No: ci sono periodi della vita in cui le visioni possono essere un po più neutre del solito. Non ci sono in verità mai visioni neutre. Ad ogni modo ci sono periodi in cui le visioni riescono a essere più neutre e periodi in cui nessuna visione è nemmeno lontanamente un po' neutra. Quello che si sta srotolando nelle ultime settimane, negli ultimi mesi, è un periodo in cui nessuna delle visioni, delle mie visioni cinematografiche è stata realmente neutra e tutte sembrano guidate da un filo conduttore.
Per la precisione ogni visione sembra collegata alla successiva e sembra sviluppare un concetto che la successiva esplicita meglio: sembra chiudersi con il seme di qualcosa che la successiva fa germogliare e esplicita meglio. Le quattro fondamentali serie di questo percorso, che scommetto non c'è verso che si fermi ora e qui, sono Pure, Undone, BoJack Horseman e Kidding. Tutte hanno un elemento di consapevolezza, un elemento di analisi delle proprie azioni e di quello che si è. Se ci fosse un unico concetto, dietro tutte, un minimo comun multiplo, si potrebbe dire che quello che delineano è un percorso di cinepsicoterapia.
Pure è una serie britannica. In alcuni casi è stata accostata a Fleabag, ma è molto più "grezza" di Fleabag. I suoi personaggi sono più popolari, non sono londinesi chic, la sua protagonista una ragazza che ha un disturbo ossessivo compulsivo legato a "intrusive images", legato al sesso: non riesce a respingere immagini compulsive legate al sesso che le si presentano in testa in qualsiasi momento del giorno, legate a qualsiasi persona con cui entra in contatto. Peraltro è una storia vera raccontata in prima persona dalla ragazza che l'ha vissuta e che l'ha trasformata in sceneggiatura. Ad ogni modo, mi spiace spoilerare un elemento che fa parte non proprio nella prima puntata, però a un certo punto, grazie all'intervento di un ragazzo, si scopre che effettivamente il suo disturbo è una delle possibili facce del classico disturbo ossessivo compulsivo cioè è solo un'altra faccia dei classico O.C.D., che ha tra i suoi elementi tipici la cura ossessiva per l'ordine, per la pulizia, cose del genere. Quella delle immagini incontrollate, in sostanza, è comunque un modo in cui il suo cervello fa delle cose in maniera ossessiva. Lei vede in maniera incontrollabile ogni cosa davanti a sé, ogni persona con cui entra in contatto, la proietta in una immagine legata al sesso e a un certo punto, quando realizza questa cosa, cioè che anche questa modalità che l'ha accompagnata per tutta la sua vita può essere una faccia di un disturbo, ovviamente è felicissima. In un istante si rende conto di non essere un'eccezione e di non essere un caso incurabile, ma che semplicemente è affetta da disturbo ossessivo compulsivo, che non esaurisce tutto quello che lei è ma è solo un disturbo da cui è affetta. Lo sintetizza allora in una frase che è It's not me, it's my OCD. Non sono io ma è il mio disturbo ossessivo compulsivo.
Questa cosa è diventata per me fondamentale perché è uno dei moniti che prendo da questo percorso di serie consecutive. Identificare che c'è qualcosa che non funziona e che questa cosa non esaurisce tutto quello che sei, è per me un concetto fondamentale e illuminante. Importante anche per prendere distanza dalle cose che non funzionano di te e, provando a distaccarsi, guardarle dall'esterno e capire come si possono modificare. Ancora, imparare a considerare i propri difetti o malfunzionamenti come pezzi che compongono quello che siamo, non come facce che esauriscono tutto quello che c'è da sapere di noi, sembra forse banale ma è alla base.
È a questo punto che sembra continuare la riflessione Undone, una serie animata realizzata dallo stesso ideatore di BoJack Horseman, una serie filosofica e frattale difficile da descrivere, che come BoJack sfrutta la tecnica dell'animazione per parlare allo spettatore a cuore ancora più aperto. In Undone c'è una ragazza che in seguito a un incidente comincia ad avere delle specie di visioni in cui vede il padre morto e in cui lui le parla per "portarla" in altre dimensioni dell'esistenza.
C'è un finale discutibile e discusso, che rimane aperto (again, mi spiace non poter evitare lo spoiler per questa riflessione). Non c'è un finale deciso, definito: il finale aperto, se volete furbetto, lascia il dubbio, un dubbio che per tutta la durata della serie è comunque alimentato dagli altri personaggi, che non sia necessariamente chiarito se effettivamente per tutto l'arco della serie lei ha avuto delle visioni ed è entrata in una modalità differente di esistenza oppure no. Una dimensione in cui presente, passato e futuro sono dei concetti non più esistenti, in cui lei ha avuto la possibilità di saltare da un momento all'altro della sua stessa esistenza; oppure se semplicemente, come le persone attorno a lei hanno pensato, ha avuto delle visioni in un momento in cui magari era in coma o comunque non cosciente. Il punto è che il finale aperto, che mantiene questo dubbio e non lo scioglie, è ininfluente, perché quello che lei ricava da questa serie di visioni è un messaggio egualmente valido, ricevuto dal padre, comunque si voglia considerare questa figura: il "fantasma" del padre morto o la manifestazione di una parte di se stessa.
Il succo del messaggio che riceve da questa esperienza è imparare a cercare di considerare dall'esterno le proprie scelte, le proprie azioni, le proprie motivazioni; e provare a elaborare e a pensare a quali possono essere le conseguenze in modo da rivederle, se necessario. L'esempio classico è proprio all'inizio della serie: una frase buttata là, in famiglia con la madre e con la sorella, che causa tutta una serie di conseguenze negative, di dispiaceri per tutti i familiari. In seguito, in una delle realtà parallele in cui lei rivive questa cosa, non accade più nulla di tutto questo, perché lei decide, per così dire, di mordersi la lingua e provare a reagire in un modo differente, di commentare in modo differente le cose che loro stanno facendo in modo da non farle dispiacere. Il classico pensaci due volte prima di dire le cose perché sai che cosa possono generare è simbolo, segnaposto, di un concetto che parte da un esempio semplice e si allarga, è più come dire: pensa a te stesso, alle scelte che stai facendo, alle cose che vuoi dalla vita, perché non hai un tempo infinito e quindi se ti guardi dall'esterno e cerchi di proiettare sul tempo lungo dove possono andare le tue scelte, i tuoi pensieri, le tue reazioni, probabilmente scoprirai il modo migliore per vivere in modo gratificante e sano con te stesso. Qui Undone si ferma, con un concetto che a tratti è perfino grossolano e retorico, ma che è necessario riprendere in mano con gli occhi di BoJack.
Capolavoro scritto da Raphael Bob-Waksberg: un capolavoro. Non voglio presentarla, solo permettere a chi non la conosce di seguire il filo.
BoJack è un cavallo in un mondo misto di animali e esseri umani. È un attore che ha avuto successo negli anni '90, ma ora è depresso, alcolizzato e demotivato. BoJack attraversa stagioni e stagioni facendo i conti con i propri errori, con la propria incapacità di migliorarsi e con l'impossibilità di tener traccia di tutte le conseguenze delle sue scelte e delle sue azioni, soprattutto nelle persone con cui interagisce ormai da tanti anni. BoJack è un eroe maledetto a cui Bob-Waksberg ha dato il volto di un cavallo per frenare e centellinare la possibilità di empatizzare dello spettatore, ma non ce n'è: BoJack è uno dei personaggi più umani che si sia mai visto.
La chiusa di BoJack è geniale e arriva dritto al punto in cui emozione e razionalità si combinano. Il concetto chiave della serie, che si potrebbe ingenuamente considerare scontato, è che gli esseri umani sbagliano e non possono evitare di sbagliare. Non possono diventare perfetti, non possono essere esenti da ripensamenti e da correzioni in corso d'opera, da prove e contro prove, da sbagli anche clamorosi. L'unico strumento che gli esseri umani hanno, per non diventare schiavi dei propri errori, è prenderne consapevolezza e accettarli come parte di sé. Naturalmente, in questo percorso, se maturare, crescere e migliorare è valido per se stessi, ossia se accettare quello che si è pur se non è quello che si vuole è comunque un gradino per stare meglio con se stessi, non si può certo pretendere che questo avvenga in automatico, a catena, anche per gli altri. Men che meno con le persone a cui si è fatto del male. La grandezza, l'umanità del personaggio di BoJack è realizzare questo semplice concetto: se anche io ho imparato a fare i conti con quello che di me non mi piace e voglio fare di tutto per migliorarmi, non è detto che questo valga per le altre persone, soprattutto quelle che hanno fatto parte della mia vita e a cui ho fatto del male. In questo senso per me BoJack è un altro possibile volto di un personaggio molto vero, tremendamente sbagliato, definitivamente umano: Jimmy McGill / Saul Goodman. Come lui, sbaglia spesso, sbaglia anche quando sa di star facendo la scelta peggiore, sbaglia anche quando vede il male che sta facendo agli altri. Ma lascio stare Saul perché è un capitolo troppo grande.
Quello che bisogna accettare, insomma, insieme ai propri errori e difetti, malfunzionamenti, è che ci sono delle persone che hanno fatto parte della nostra vita, che hanno rappresentato una parte importante e magari ci hanno anche reso quello che siamo ora, ma nonostante questo bisogna fare i conti con il fatto che non ne facciano più parte da un momento in poi, da un istante preciso, a partire da ora e chissà, fors'anche per sempre. Bisogna convivere con il cambiamento, anche se fa male. E qui arriva l'ultima serie, Kidding, con l'ultima parte, almeno per ora, della cinepsicoterapia.
L'altro, l'ultimo elemento di un percorso di crescita, comprensione, consapevolezza che prende forma con queste storie, è imparare ad accettare il fatto che vivere è cambiare di continuo, trasformarsi di continuo, mutare di continuo e muoversi, non rimanere cristallizzati in delle cose o situazioni solo perché ci fanno meno paura del cambiamento e ci fanno sentire più tranquilli e al sicuro.
Kidding è la grottesca storia di un sognatore che per vivere racconta storie ai bambini in uno spettacolo tutto suo. E nel frattempo la sua vita personale crolla e si sgretola sotto il peso della morte di uno dei suoi due figli gemelli, in una catena di eventi che sembra non fermarsi mai. Una famiglia che disfunzionale è dir poco, raccontata con il genio di Jim Carrey e gli occhi di Michel Gondry.
C'è un episodio della seconda stagione di Kidding in particolare, un episodio molto doloroso. Intriso di patetismo, anche, se si vuole. Impossibile il contrario: ma perché è l'essere umano a essere patetico, in quel particolare aspetto della sua psicologia per cui si attacca con tutte le sue forze a qualcosa che ha già, che conosce già e fa parte della sua condizione, anche se sa che non è più la cosa migliore. Che non è più la cosa preferibile.
In questa puntata, la quinta, si racconta la catarsi con cui finalmente Pickles, il protagonista, accetta il suo divorzio, lo metabolizza e lo rende reale facendolo diventare una meta puntata: un episodio del suo stesso spettacolo. Mette in scena la fine del suo matrimonio e l'accettazione, o meglio l'attesa di ciò che verrà dopo. Come sempre, come in BoJack, quanto più la cornice è anti-naturalistica, inverosimile, di finzione, tanto più la sostanza è concreta, palpabile, vissuta. Chi si è trovato in quella situazione sa esattamente di cosa parla quel meta episodio: capitano in ogni vita, sicuramente anche più di una volta nella stessa vita, quei momenti in cui c'è qualcosa che si sa di dover cambiare, ma che non si ha il coraggio di cambiare perché si ha paura. Provo a bloccare esattamente quel fotogramma: un momento in cui come un'epifania si realizza che la scelta migliore è quella che fa più male, non solo perché si chiude un capitolo ma anche perché si ha paura del dolore associato al momento del distacco. È un istante lunghissimo: "so che la mia storia è finita", "so che devo cambiare vita", "so che devo rimanere solo". La paura di chiudere una relazione, di cambiare lavoro, di abbandonare un progetto, di trasferirsi altrove: può coniugarsi in mille modi. Ma quell'istante di consapevolezza è quello in cui comincia il cambiamento. Chi questa cosa l'ha vissuta sa che è reale, sa come ci si sente e che fa male e che, sì, d'accordo, è anche patetica: perché è patetico l'attaccamento dell'essere umano alle cose che non sa abbandonare. È debole, È fragile, è umano.
Nell'istante in cui si capisce che il cambiamento è l'unica possibilità davvero sana e giusta, in quel momento quel clic è lo stesso che aiuta a insegnare come affrontare la vita, come vivere davvero. La vita è trasformazione e cambiamento e non stasi. Scegliere di rimanere fermi è come scegliere di annullare un fondamentale meccanismo vitale. E dopo il passo verso la trasformazione, cosa? Dove?
A distanza di un po' dall'inizio di questo percorso, infine, dopo aver parcheggiato a lungo queste riflessioni, guardo la seconda stagione di After Life, scritta, diretta e interpretata da quel genio di Ricky Gervais. Sento dire in giro che non è granché, o non è abbastanza forte per essere una sua creazione. Non è "quello che ci si aspetta da lui". Ma penso che ancora una volta sia centrata: anche se di minore impatto rispetto alla prima stagione, in questo caso la grande intuizione di Gervais è scegliere di non provocare, ma di coniugare nell'arco di una serie una grande banale verità. "Cosa potrà mai dire un genio come lui di fronte alla morte?". E alla mancanza, al vuoto lasciato dalla persona amata. Con la prima stagione aveva imboccato la via della cattiveria: "Se sto male io ho il diritto di prendermela con gli altri". Nella seconda lo capovolge, accettando che il suo dolore non è una scusa valida per riversare la frustrazione sulle persone che ha accanto, non è una cosa bella da condividere e comunque non gli fa bene farlo, non gli serve a procedere, di sicuro non lo fa stare meglio. Lo lascia esattamente nel punto in cui era nel momento in cui la moglie è morta. Fermo.
Ancora una volta, l'intuizione, il concetto di cui far tesoro, anche se non è una grande illuminazione, anche se non l'ha scoperto lui, è che vive chi accetta il cambiamento, chi integra una trasformazione per quanto drammatica nella propria vita. Non sarà la più strabiliante delle trovate, ma è quel che conta. E anche questi sei episodi, un po' sotto tono, un po' ripetitivi probabilmente, si dimostrano scritti con intelligenza e con desiderio di comunicare sul serio. La prossima cosa da guardare, voglio che sia piena di questo modo di raccontare.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta