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Nuri Bilge Ceylan, la Turchia e il mito di Sisifo
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Cosa ci fa quell’uomo sulla panchina, di fronte al Bosforo, mentre intorno un timido sole illumina il paesaggio (ma forse non la sua vita)? Riassapora il gusto della libertà ritrovata, e della solitudine perseguita, o si lascia cullare e trasportare dalla nostalgia delle (poche) cose che sono accadute e di quelle che avrebbero potuto essere? Soffre o è timidamente sereno, mentre con calma aspira il fumo di una sigaretta? La scena finale di Uzak, un piano sequenza di lentezza spossante che lievita piano e fa lievitare una non scontata seppur dubbiosa compartecipazione, è il manifesto (uno dei manifesti) della poetica di Nuri Bilge Ceylan. Non è sempre necessario capire a fondo le cose, penetrarne l’essenza ed i segreti, spiegare, anche a se stessi, quali misteri si celino dietro una vita, dentro la vita e le vite. A volte può bastare lasciarsi andare all’osservazione, in un anelito di ricerca che non morirà mai e che sempre si autoalimenterà, una ricerca che naturalmente non darà i frutti sperati, aliena e ostile alla autosoddisfazione. NBC è incapace di vellicare i gusti comodi e veloci dello spettatore, gioca con i tempi del racconto, li dilata oltremisura, si prende tutti i minuti necessari per porre sotto la sua lente da anatomopatologo la commedia/tragedia degli uomini comuni (mai ridicoli però), per estendere il suo racconto alla metafora di una storia che sembra non procedere mai in direzione ostinata e moderna, nonostante tutti i tentativi, le svolte, le ruggenti parole o i lunghissimi silenzi. Perché NBC non è un comune, grandissimo regista europeo. È un autore della Turchia, e della Turchia conosce slanci e rinculi, ambizioni alla modernità e resistenze di una storia millenaria, tentativi di affrancamento da una natura che se ne frega e resta uguale a se stessa, meravigliosa e minacciosa. Nella cornice di questa natura (che si fa, naturalmente, essa stessa personaggio) Ceylan colloca i personaggi. Che non sono personaggi: sono uomini che lottano allo spasimo con le proprie origini, che tentano vie di fuga per la massima parte impossibili, che ragionano incessantemente, con parole che diventano spirali e si richiudono nel loro bozzolo impenetrabile. I personaggi/uomini di NBC sono guerrieri che tentano l’arma della logica e sanno di essere votati ad una pressoché certa sconfitta della razionalità.

 

 

SISIFO. Dura un’eternità, la scalata di Sisifo alla conoscenza ed alla vittoria. Quanto durerà la marcia della Turchia verso un atout di universale riconoscibilità? Ogni personaggio di Ceylan ha il suo masso, impossibile da spostare, o concepito in modo da rotolare giù quando sembra aver toccato la vetta. Il commissario, il medico, il poliziotto, il delinquente di C’era una volta in Anatolia, alla ricerca di un cadavere che non si trova mai. Si va per tentativi: il senso della ricerca è nella ricerca, nella speranza di poter gustare, dopo una notte insonne, un caffè mattutino che ripristini l’ordine nelle cose. Ed è nella ricerca che emerge il vero carattere degli uomini, le loro piccole tristezze e meschinità, la solitudine, il chiacchiericcio deviante rispetto alla missione che ci si è dati, i traumi del passato e l’incertezza del futuro (c’è un paese più incerto del futuro della Turchia?). L’impossibile ricerca dell’amore del professore universitario (Il piacere e l’amore), laddove Sisifo sembra cedere il passo ad Epicuro: come la morte, anche l’amore non c’è quando ci siamo noi; e si manifesta quando noi non ci siamo, ovvero non ci riconosciamo, non ci specchiamo più nelle possibilità del sentimento. (Piccola digressione: curiose assonanze possono cogliersi, nella diversità dei contesti, tra Il piacere e l’amore e Pensavo fosse amore… di Troisi: in particolare nel finale di mesta dolcezza e strisciante sofferenza, finali in cui l’amore circola nell’aria ma i personaggi si trovano nella concreta impossibilità di assaporarlo, respirarlo, introiettarlo. Finali aperti, sospesi. Ma, e lo vedremo meglio, NBC è il re dei finali aperti). Anche l’albergatore/intellettuale de Il regno d’inverno cerca di muovere le cose, di ricondurle all’ambito della sua razionalità, di confinarle nei recinti della conoscenza. Ma le cose non sono così facili da spostare, possiedono loro verità del tutto ambigue e misteriose, sfuggono alle caselle della razionalità (lo snobismo verso la famiglia dell’imam e la famiglia dell’imam che rifiuta, snobba, il sostegno economico. Eccoci al punto di partenza: ricchezza e miseria, cultura ed ignoranza retrograda non possono trovare un punto d’incontro, come le due anime della Turchia). E ancora: il giovane aspirante scrittore de L’albero dei frutti selvatici, in aperta contestazione del padre, leggero e fatuo, e che però, in un finale chiaramente aperto, che non dice nulla o forse tutto, tornerà alla casa del padre, si farà cullare da quel disimpegno che ricerca l’armonia con la vita, con le cose, nelle cose (chi cerca un’acqua probabilmente inesistente può ambire al ruolo di rabdomante del proprio e degli altrui destini). Oppure il già ricordato uomo sulla panchina di Istanbul: guardare avanti con tutto il peso del passato sulle spalle, e la certezza di un presente che sfugge a tutti i possibili slanci. Anche in Uzak si scontrano i massimi sistemi: cultura ed ignoranza, città e provincia, solitudine e aneliti alla socialità. Naturalmente NBC non ha risposte né forse vuole fornirle: osserva e ci lascia osservare, lascia che la macchina da presa registri, commenti silenziosa. Un uomo sulla panchina, una donna che piange al passaggio di un aereo, un medico durante una autopsia, un padre e un figlio che, forse per la prima volta, parlano e si guardano negli occhi, una nazione ad un bivio. Finali che non definiscono nulla, perché la vita è indefinibile, la storia altrettanto, il futuro non parliamone nemmeno.

 

 

PAROLE. Non sappiamo cosa Sisifo dicesse o pensasse, mentre spingeva il masso. Sappiamo che, nonostante i finali sospesi, che registrano muti piccoli spostamenti dell’anima o contemplano un paesaggio, uno scorcio, un particolare che diventa di geografia esistenziale, i personaggi di NBC, nel pieno della loro fatica di cambiare le cose (spostare il masso), parlano, parlano tanto. Come se ci fosse un’urgenza di digressione, una impellente necessità di spiegare, e spiegare a se stessi, cosa c’è che non va, cosa potrebbe andare meglio, cosa fare affinché il passaggio avvenga, con i minori traumi possibili. Le sceneggiature di Ceylan non hanno paura del tempo (e dei tempi filmici): al contrario lo sfidano e lo dilatano. Se pure tutto alla fine tornerà come prima, se pure Sisifo si farà nume tutelare di questo cinema e della sua timida magnificenza, il percorso e la sua tortuosità vanno spiegati, la impossibilità di perseguire la verità (una verità) va scarnificata, posseduta, declinata in dialoghi di lunghezza stremante eppur mirabile. Dialoghi che sono soprattutto confronti, scontri dialettici tra punti di vista opposti, speculari e complementari, spesso paralleli e dunque mai combacianti (le due anime della Turchia, lo si è già detto). Il fotografo di città e il cugino di campagna in Uzak, il professore e le sue donne ne Il piacere e l’amore (l’amore e l’incapacità di percepirlo, la passione dei sensi che solo può esprimersi attraverso un’ansia di dominio), il ragazzo e lo scrittore affermato (L’albero dei frutti selvatici), la presunzione e la sicurezza, la sicumera e la calma, l’orgasmo della voglia di cambiare e la tranquillità dei privilegi acquisiti, l’albergatore e l’imam, l’albergatore e la sorella, l’albergatore e la moglie giovane, bellissima ma già sfiorita nell’animo (Il regno d’inverno). Uomini e donne che si confrontano, sembrano parlare senza ascoltarsi, rovesciano sull’interlocutore un punto di vista che, confondendosi con quello altrui, si fa spiraliforme, asfittico, impossibilitato a veicolare verità. Dialoghi eppure necessari, poiché la vita è parola, e la parola ha un senso che risiede nel suo seminare dubbi, instillarli, così da far ripartire la ricerca (Sisifo, ancora). Il cinema di Ceylan è un cinema di parola, di binari morti dove un tempo passavano treni, e forse ne passeranno ancora, di sguardi bassi e aspirazioni alte, di sofferenze che non urlano, al limite si esprimono guardando fuori da una finestra, dove il mondo prosegue il suo cammino (il segreto del procuratore di C’era una volta in Anatolia, segreto che, visto retroattivamente, illumina il buio di cui il film è permeato e lascia intravedere un misero spiraglio di luce).

 

Haluk Bilginer

Il regno d'inverno - Winter Sleep (2014): Haluk Bilginer

 

NATURA. Cinema di parola ma non solo. C’è la Turchia, naturalmente. E la Turchia è un set naturale di raro espressionismo. La Istanbul innevata, le campagne dell’Anatolia, gli scorci della provincia dove il tempo pare essersi fermato, le lunghe strade percorse da carovane di uomini o animali, macchine, cavalli, pecore. NBC inserisce le sue figure in questi ambiti, lascia che vi aderiscano con sofferenza ma anche consapevolezza. Mentre si dipanano i dialoghi, senza fretta, il lontano latrato di un cane, un improvviso cigolio, un leggero tramestio di passi o accavallarsi di voci ci ricordano che fuori c’è una vita che scorre parallela e immutabile, insofferente alla filosofia, incurante delle speculazioni. La vita ha un proprio tempo ed un proprio codice interiore che nessuna ansia di mutare, nessuna circonlocuzione filosofica potranno scalfire. Scende la neve su Istanbul, cala la notte sull’Anatolia. C’è chi parla, chi si odia, chi faticosamente tenta di amarsi, chi ragiona e perde il filo, chi a quel filo si aggrappa. Forse anche la Turchia ha un proprio codice, inaccessibile ai più e soprattutto a noi, europei o che proviamo a sentirci europei. La Turchia, sia detto banalmente, è un ponte tra antichità e modernità. E Nuri Bilge Ceylan è un equilibrista sospeso sul ponte, capace di disegnare piroette ed evoluzioni che regalano soprattutto bellezza nonostante il futuro, e tutta l’incertezza del futuro. L’uomo sulla panchina di fronte al Bosforo potrebbe restare lì per secoli. E, nonostante tutto, sarà sempre un’immagine di grande forza.

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Ultimi commenti

  1. pippus
    di pippus

    Ciao Mario, premetto di non aver mai visto nulla di Ceylan, ma questo tuo post da prima pagina credo sia in grado di immergere il lettore nelle giuste atmosfere ricercate dal regista ( osando azzardare, e riprendendo le tue parole, alludo alla dualità tra antichità e modernità, i due aspetti della Turchia così ben evidenti, anzi, quasi esasperati nella capitale
    Istanbul ). Dovrò quindi recuperare qualcosa, d'altronde il tempo, di questi "tempi", non manca:-)
    A presto spero.

  2. _Kim_
    di _Kim_

    È stato un piacere leggere questo post

    1. MarioC
      di MarioC

      Grazie!

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