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Aurelio Grimaldi: Intervista esclusiva
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PREMESSA REDAZIONALE

Il 19 marzo sarebbe dovuto arrivare nelle sale Il delitto Mattarella, film con cui il regista Aurelio Grimaldi ricostruisce l’omicidio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia freddato la mattina del 6 gennaio 1980. Per i pochi (ci si augura) che non lo sapessero, si trattava del fratello di quel Sergio che quasi 35 anni dopo sarebbe divenuto Presidente della Repubblica Italiana. A causa del decreto governativo dello scorso 8 marzo a seguito delle conseguenze della diffusione del Coronavirus, i cinema di tutta Italia sono, com’è giusto che sia, obbligati alla chiusura e tutti i titoli in uscita rimandati a data da destinarsi. Ancor prima che scoppiasse la pandemia che sta interessando la nostra penisola, avevamo concordato un’intervista con il regista, che ci aveva permesso di vedere in anteprima la sua ultima fatica. Rimandando la recensione al futuro, ci siamo interrogati sul da farsi e, d’accordo con Grimaldi, abbiamo deciso di pubblicare l’intervista per diversi motivi.

Il primo è legato al fatto che non si parla nella conversazione solo dell’ultimo lungometraggio. L’occasione ha fornito lo spunto per una lunga conversazione sul cinema del regista, un autore che è passato da quasi tutti i più importanti festival del mondo (è stato in concorso anche a Cannes): la sua arte è fortemente segnata dalla figura di Pier Paolo Pasolini, da prese di posizioni politiche certe e mai insicure, da disavventure produttive che hanno limitato il frutto del suo genio creativo e da una certa spaccatura di critica che lo vede tanto osannato all’estero quanto osteggiato in Italia.

La seconda ragione concerne la richiesta fatta da Dario Franceschini, il Ministro delle Attività e dei Beni Culturali, che ha chiesto a tutti gli operatori del settore culturale di non smettere con il portare “cultura” nelle case degli italiani. Cinema, letteratura, arte e televisione sono dunque uniti nello stare vicini alla gente e al loro restare a casa. FilmTv.it ha risposto alla chiamata: trovate già in home page alcune proposte di visione disponibili in streaming gratuito. E continuerà nei prossimi giorni a rispondere attivamente, grazie anche al contributo che arriverà dalla sua community e non dalla sola redazione.

Il terzo motivo, infine, tende a fare fede alle parole di Ernesto Mauri, ceo del gruppo Mondadori di cui FilmTv.it fa parte. In un messaggio rivolto ai dipendenti, diffuso anche via social, Mauri ha ricordato come “la missione del gruppo è la diffusione della cultura e delle idee, e la cultura e le idee non si fermano”. E di idee, cultura e spunti, tra queste pagine ne trovate e ne continuerete a trovare. Guardiamo tutti avanti per superare questo momento di grande incertezza.

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Aurelio Grimaldi

Il delitto Mattarella (2020): Aurelio Grimaldi

Il siciliano Aurelio Grimaldi è uno di quegli autori che sulla carta appare difficile da etichettare. Le sue opere, a partire dall’esordio con La discesa di Aclà a Floristella per arrivare a Il delitto Mattarella, passando per Il macellaio o Le buttane, sono difficilmente riconducibili a un solo genere. Ex maestro al carcere minorile Malaspina di Palermo che con il romanzo Mery per sempre (da cui Marco Risi ha tratto l’omonimo film e che forse potrebbe dare origine a una serie televisiva) ha segnato una forte pagina non solo di letteratura ma anche di sociologia e antropologia, Grimaldi ha avuto nella sua carriera la possibilità di farsi conoscere in tutto il mondo. Solo leggendo le sue parole, si può capire pienamente chi sia e quanta passione metta nei suoi progetti, dai più piccoli ai più grandi. E quanta onestà intellettuale lo caratterizzi: si è concesso senza remore a ogni domanda, affrontando anche le più spinose e non censurando nessuna di esse. In attesa di vedere in sala la sua ultima fatica, chi volesse può approfondire la vicenda Mattarella grazie al libro Il delitto Mattarella, scritto dallo stesso Grimaldi ed edito da Castelvecchi.

 

Una delle cose che subito salta all’occhio guardando il tuo percorso artistico è la straordinaria capacità di spaccare la critica in due: o ti si ama o ti si odia.

Purtroppo, negli ultimi anni non è accaduto nemmeno questo. Ho realizzato dei film difficilissimi e in condizioni quasi impossibili che non sono nemmeno arrivati in sala. Una delle mie ultime opere realizzate, ad esempio, Il sangue è caldo di Bahia, nonostante avesse a disposizione un buon contributo governativo e la produzione di Paco Cinematografica, non è mai giunto al cinema e quasi nessuno ha avuto possibilità di vederlo. Con Il delitto Mattarella, vuoi perché ha già nel titolo il cognome del Presidente della Repubblica vuoi perché racconta di un fatto storico di cui raramente si parla, mi auguro che qualcosa cambi. Mi auguro di risalire un po’ la china e di poter dare il via ad altri progetti in mente, come un film che secondo me spaccherebbe e che avrei intenzione di proporre alla Rai. A pensarci, sarebbe anche il mio primo tentativo di collaborazione con la Rai. Per ritornare all’osservazione di partenza, diciamo pure che una volta spaccavo la critica: era spesso un destino sofferto e non qualcosa per cui esultare. Tuttavia, il mio motto è sempre stato: “Fare il regista non l’ha prescritto nessun medico”. Devo accontentarmi di tutto quello che ho fatto, ho 63 anni, ho vissuto una vita libera e ho potuto dedicarmi ai progetti che mi stavano a cuore, pur tra mille difficoltà. Quindi, guai a me se mi lamento!

Chi ti parla è un estimatore di molti dei tuoi lavori, Le buttane e Rosa Funzeca in primis. E considero anche Il macellaio un’opera da vedere con uno sguardo differente. Nessuno mi toglie dalla mente che gli attacchi su quest’ultimo titolo fossero più per la scelta dell’attrice protagonista, Alba Parietti, che per il film stesso. Se ci pensi, a distanza di anni, chiunque si ricorda del film, ne parla o lo guarda in televisione durante uno dei suoi tanti passaggi.

In quel caso, il bersaglio era il regista che “voleva fare l’intellettuale ma fa film con Alba Parietti”. Me l’hanno fatta pagare in tutti i modi possibili… Peggio per me…

David Coco

Il delitto Mattarella (2020): David Coco

 

Prima di parlarne, però, concentriamoci sull’oggi. Il delitto Mattarella, sin dal titolo, richiama non solo il fatto di cronaca in sé ma anche un certo tipo di cinema civile che parte da Vancini e arriva a Rosi e Petri. Detto tra noi, chi te l’ha fatto fare? Non è facile capire cosa si celi dietro l’uccisione di Piersanti Mattarella, dal momento che tanti erano allora i fattori in campo che gli remavano contro e lo consideravano un ostacolo. E non sarà sicuramente facile resistere alle accuse di chi dirà che hai fatto un film sul fratello del Presidente della Repubblica per balzare agli onori della cronaca.

Sono consapevole che questa malignità accompagnerà il film. È qualcosa che ho previsto e che devo accettare serenamente. Se decidi, dopo quarant’anni dai fatti, di realizzare un film sul fratello del Presidente, vuoi che se ne parli male?: è un tipo di osservazione che ho messo in conto ma, ahimè, mi tocca. Come ho avuto modo di raccontare in altre occasioni, non ho fatto altro che tirare fuori dal mio immenso archivio personale una cartelletta ben organizzata con sopra scritto “Piersanti Mattarella” e che raccoglievo da più di una ventina d’anni. È sempre rientrata nei miei mille progetti, la sua storia: tra le tante vittime di mafia, Mattarella è quella di cui si è parlato meno. Mi sono sempre chiesto come mai nessuno avesse ricavato un film dalla vicenda, come mai nessuno se ne occupasse e, soprattutto, come mai tutti sembrano essersi dimenticati di Piersanti. Ma la cartelletta restava sempre nel cassetto e ma posso ricostruire con esattezza quando l’ho tirata fuori: il giorno dell’elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica Italiana, avvenuta quasi cinque anni fa. Apprendendo dell’elezione, sono andato a recuperarla trovando, con piacevole sorpresa, molto più materiale di quanto io stesso ricordassi. Avevo persino scritto delle scene e varie ipotesi da cui partire, e non raccolto solo ritagli di giornale dell’epoca o fotocopie. Ho deciso allora di cominciare a scrivere la sceneggiatura: con Sergio Mattarella presidente, credetti che vi erano tutti i presupposti per raccontare di Piersanti. Ho pensato anche che dovessi fare tutto con una certa fretta per evitare che qualche ‘mala fiction’, come le chiamo io, mi precedesse. Mi sono subito messo al lavoro ma non ho mai smesso di chiedermi come mai nessuno avesse pensato prima di dedicargli qualcosa. Mi sembrava, da quel che conoscevo io, senza ragionarci troppo sopra, una figura adattissima al racconto televisivo: democristiano super cattolico, appartenente a una famiglia rigorosa e mai esibizionista, e vittima di un terribile omicidio: perfetto per farne un santino.

Ho scoperto strada facendo le ragioni per cui nessuno ha voluto cimentarsi in tale compito. Come ha avuto modo di dire Giovanni Falcone nel 1988, convocato dalla Commissione Antimafia per riferire delle indagini che a quel tempo stava conducendo sull’omicidio Mattarella e altri delitti politici, “le indagini sono molto lunghe perché entrare nel caso Mattarella significa svelare pezzi interi, ma anche misteri, della Storia italiana”. Io stesso mi sono reso conto che lo scenario in cui è maturato il delitto chiama in causa i nazifascisti, Gladio, i democristiani, ovviamente Cosa Nostra, Giulio Andreotti in primissima persona… Chi si cimentava nella vicenda per ricavarne un’opera aveva davanti solo due strade: o una storia finta in cui si buttava a mare tutto ciò che era in gioco spacciando il delitto come omicidio organico di mafia, oppure non la raccontava affatto. Io ho optato per la sola soluzione possibile: raccontare il tutto.

Pensavo che il cognome Mattarella mi aiutasse a trovare finanziamenti, appoggi o aiuti di vario stampo. Ma non è andata così proprio a causa della figura del presidente Sergio, che è inevitabilmente anche uno dei personaggi del film. I vari possibili investitori, compresa la Rai, chiedevano tutti l’assenso esplicito del Presidente, senza il quale non osavano essere coinvolti nel progetto. Alla fine, abbiamo trovato una società (Edilizia Acrobatica, reperita da Pete Maggi di Cine 1 Italia che coproduce il film) che, nonostante il parere negativo dei propri legali, ha accettato di partecipare come investitore esterno alla produzione, che ha poi goduto di un piccolo finanziamento da parte della Regione Sicilia.

In quattro settimane e due giorni ho girato tutto il film. Certo, se avessi avuto qualche giorno in più a disposizione, ne sarei stato stra-felice. Abbiamo trovato tre comuni - Corleone, Tusa, Castellammare del Golfo (di dove i Mattarella sono originari) - che ci hanno offerto ospitalità e un piccolo contributo: nei piccoli comuni si trova sempre un ambiente molto accogliente e si mobilita quasi tutta la cittadinanza, ed è stata un’esperienza anche umanamente molto bella.

Entrando nel merito del film, adotti una struttura particolare, ripetendo per ben due volte la sequenza dell’omicidio Mattarella, facendole fare da spartiacque tra ciò che è avvenuto prima e ciò che avverrà dopo.

Mentre si cercavano i fondi per la produzione, ho rimesso mano diverse volte alla sceneggiatura. Mi rendevo conto di come certi passaggi sulla carta erano abbastanza chiari ma non era detto che in fase di montaggio i vari salti nel tempo non presentassero dei problemi o apparissero poco chiari una volta terminato il film. La storia presentava diversi salti temporali che per uno come me, che appartiene a una generazione cresciuta senza nemmeno le videocassette e seguendo i nostri famigerati fantozziani cineforum con titoli provenienti da cinematografie ostiche, erano essenziali rispetto ad una certa idea di cinema. Ammetto di portarmi dietro una sorta di cultura intellettualoide che deriva da quel periodo: non essendoci molte possibilità di fruizione del cinema, si era allora affamati di cinema e si era disposti a far sacrifici, assistendo anche a opere in serbocroato con sottotitoli francesi… Questa è la ragione per cui non volevo fare un film lineare, ne sarebbe venuto fuori una sorta di tv movie dai toni non certo leggeri ma rischiosamente didascalici. Mi rendevo conto al tempo stesso di osare molto in sceneggiatura ma pensavo a diverse soluzioni che avrei potuto adottare in fase di montaggio. Pensavo alla possibilità della voce fuori campo ma anche, in extrema ratio, a quanto fatto da Francesco Rosi con Il caso Mattei: a un certo punto, guardando il film, si vede il regista che con i suoi collaboratori si chiede come spiegare agli spettatori il gioco delle correnti democristiane. Ricordo ancora quanto mi disturbò la sequenza la prima volta che vidi il film. Però è una sequenza rimasta storica… Oggi potremmo definirla geniale…

Il montaggio di conseguenza ha richiesto molto più tempo di quanto credessi. Prima di arrivare alla versione definitiva, ho rivisto il lavoro varie volte perché, visionandolo con amici o collaboratori, saltava sempre fuori qualche passaggio poco chiaro e a volte persino incomprensibile. Alla fine, ho optato per la prima delle ipotesi tirata in ballo: la voce fuoricampo. So che apparirà a sua volta una soluzione molto didascalica ma senza di essa non c’era verso di trovare un’interconnessione chiara. Come hai notato tu, l’espediente dell’omicidio ripetuto mi ha permesso di giocare con il montaggio e di risparmiarmi qualche altro intervento della voce. È chiaro che si tratta in tutti e due i casi di un momento di cesura: mi è servito per semplificare l’eccesso dei miei salti temporali. In poche parole, la struttura del film è rimasta molto ambiziosa mentre la voce fuori campo cerca di renderla meno ostica.

È uno dei pochi casi di voce fuori campo che però non infastidisce per due motivi: è la voce di uno dei personaggi interni della storia, l’ispettore Mignosi, sorta di narratore onnisciente, ed è la voce di Andrea Tidona, grande attore siciliano. Tutto il cast di Il delitto Mattarella è composto dal meglio che il cinema dell’isola possa offrire, da Donatella Finocchiaro a David Coco.

Posso dirti che mancano anche i nomi di alcuni, che penso di non fare mai ma che è possibile dividere in due diverse categorie: quelli che non hanno potuto accettare perché avevano altri impegni e quelli che non hanno accettato perché chiedevano un cachet che andava oltre le nostre proposte economiche purtroppo un po’ basse. Per poter avere Donatella Finocchiaro, ad esempio, abbiamo fatto i salti mortali per incastrare i suoi impegni (aveva preso un contratto per un altro lavoro) alle esigenze del ruolo che le proponevamo (Irma, la moglie di Piersanti). Aveva una sola settimana a disposizione e siamo riusciti a girare tutte le scene che la vedevano protagonista.

Sono sinceramente contento del risultato finale e dei professionisti con cui ho lavorato: mi vanto di avere avuto tutti attori siciliani per dimostrare che siamo in grado di realizzare storie siciliane con attori del luogo, senza dover necessariamente scomodare gente proveniente da altri posti. Stimo molto Luca Zingaretti ma sono sempre stato un oppositore del suo Montalbano televisivo: io avrei preso un attore siciliano. Lo penso ancora adesso che ci siamo tutti abituati a lui e al suo siciliano.

Alcuni degli attori di questo film sono stati fortemente voluti da me, come Tuccio Musumeci (nei panni di Salvo Lima, ndr), considerato da me come un altro degli straordinari attori che, se solo avesse abbandonato la sua Catania per trasferirsi a Roma, avrebbe avuto sorti diverse. Poi c’è stato chi per umiltà ha detto no al personaggio che gli proponevo: per il ruolo di Giovanni Falcone avevo pensato a un attore comico siciliano che non si è sentito all’altezza di interpretare un personaggio di così elevata portata. A nulla sono servite le mie rassicurazioni.

David Coco, Donatella Finocchiaro, Vittorio Magazzù

Il delitto Mattarella (2020): David Coco, Donatella Finocchiaro, Vittorio Magazzù

 

Curiosa la scelta di far interpretare il killer di Mattarella da Vittorio Magazzù. Si crea un curioso circolo vizioso transmediale dal momento che il giovane attore palermitano ha interpretato il personaggio di Leonardo Abate, il figlio della mafiosa Rosy Abate in una popolare fiction televisiva.

Non ho seguito la fiction. Vittorio Magazzù è stato scelto perché, oltre a essere palermitano (anche se il suo personaggio è di un ‘continentale’…), ha un volto di ghiaccio che corrispondeva alla descrizione che ne ha fatto in tutti i tribunali Irma Mattarella. L’ho semplicemente trovato adattissimo al ruolo ed è anche un ragazzo professionale e disponibile. Mi aspetto molto da lui.

E fa anche particolarmente piacere trovare in ruoli drammatici una serie di attori siciliani spesso usati per la loro verve comica. Penso a Leo Gullotta ma soprattutto a Sergio Friscia, implacabile nei panni del boss Rosario Spatola.

Nonostante il ruolo fosse molto piccolo, Sergio ha accettato immediatamente di prendere parte al film. Credo realmente sia un attore dotato di un grande talento che gli permette di fare qualsiasi genere, dal comico al drammatico. L’ho sempre visto en passant in televisione e non credo che il cinema abbia interamente capito le sue potenzialità. La sequenza del finto ferimento che vede in scena Friscia come Spatola e il mitico, per noi palermitani, Lollo Franco come Michele Sindona, era talmente inverosimile che la voce fuori campo era per davvero indispensabile. Se uno non spiegasse che è successo veramente ciò che si mostra, come hanno appurato le indagini del giovane Falcone su incarico del giudice Rocco Chinnici, tutti penserebbero che si tratti di una trovata della sceneggiatura: sembra quasi una scena da commedia all’italiana. La sequenza, in cui è convolto anche Michele Amato, il mio cardiologo che fa teatro a livello amatoriale a Bagheria ma che aveva fatto un provino perfetto, era narrativamente rischiosa ma i tre attori sono stati davvero bravi. Mi auguro che gli spettatori capiscano che anni folli abbiamo realmente vissuto in Sicilia. Abbiamo noi siciliani riempito la storia di eroi, anche se si tratta di un termine che non amo particolarmente, e di malfattori spaventosi: Sindona, al pari di Riina o Bontade, era uno di questi.

Beh, anche Salvo Lima o Vito Ciancimino non sono stati da meno.

Si, però, Ciancimino è un personaggio dostoevskiano. Aveva una personalità incredibile, che Tony Sperandeo rende al meglio. Salvo Lima, invece, era un andreottiano nato, pasciuto e cresciuto in Sicilia con la mafia nel dna: una sorta di dozzinale prototipo del politico mafioso.

Poiché amo arrivare fino alla fine dei titoli di coda, sono rimasto colpito della dedica che compare tra le varie righe a tre siciliani doc: Gigi Burruano, Pino Caruso e Tony Cucchiara.

Avrebbero dovuto far parte del progetto ma i lunghi tempi di lavorazione e la loro sopravvenuta scomparsa hanno fatto sì che non avvenisse. Gigi Burruano, con cui ho lavorato molto, e Pino Caruso, con cui ci ripromettevamo di fare qualcosa insieme da parecchio tempo, dovevano interpretare due politici, mentre incontrai Cucchiara per Dove volano i gabbiani, una canzone che ho sempre amato e che da una vita volevo inserire in un mio film. Lo incontrai perché non si trovava l’editore del pezzo, fallito da trent’anni: era in forma splendida ma, come sovente accade quando si ha una certa età, è venuto a mancare all’improvviso. Era felice che avessi scelto quella sua dimenticata canzone, che è protagonista di una scena per me fondamentale, di sola musica e immagini.

Tra i ringraziamenti dei titoli di coda, ho notato quello a Gianfranco Micciché, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, di cui sottolinei la disponibilità al di là delle incolmabili divergenze politiche.

Micciché era presente anche alla conferenza stampa di presentazione del film a Palermo, insieme al Presidente della Regione Nello Musumeci. In quella circostanza, già lo ringraziai: pur consapevole di quanto io fossi antiberlusconiano, Micciché si è messo a completa disposizione della produzione: ci ha letteralmente dato le chiavi di Palazzo dei Normanni e non ha voluto nemmeno leggere la sceneggiatura. Ho apprezzato molto ciò. Nella stessa conferenza, ha dichiarato di averlo fatto perché apprezza la mia onestà intellettuale e gli faceva per questa ragione piacere dare una mano alle riprese. Politicamente, non troveremo mai un punto in comune: ho avversato da sempre Berlusconi e ancora oggi che il suo partito non è più quello di un tempo, di fronte ad amici che sembrano aver dimenticato ciò che ha fatto, continuo a dirne di tutti i colori. In tutta sincerità, essendo una persona molto diretta, posso asserire di essere grato a Micciché sebbene non farò mai parte del suo stesso schieramento politico.

Non risparmi di certo una forte critica alla scena politica di allora della città di Palermo. Secondo te, cosa è cambiato oggi a quarant’anni di distanza dal delitto Mattarella?

Arrivai a Palermo nel 1981, giovanissimo. Sindaco della città era Nando Martellucci mentre Mario D’Acquisto era Presidente della Regione come successore di Piersanti. Arrivavo dalla Lombardia ed ero infelice di essere finito in Sicilia. I miei genitori, con la sola pensione di mio padre, non potevano permettermi di restare a studiare al Nord dopo la loro decisione di ritornare in Sicilia, dove io avevo vissuto appena fino ai miei due anni. Portavo con me forti pregiudizi sulla politica siciliana ancor prima di viverla da vicino. Ricordo che Martellucci era divenuto particolarmente noto tra le pagine dei giornali di sinistra perché nei suoi discorsi non usava mai la parola “mafia” ma l’espressione “malefica tabe”. Era avvocato e ricorreva al linguaggio aulico che immaginavo con chissà quale enfasi usasse in tribunale. Avevo davanti a me una Sicilia che Sciascia definì con un aggettivo che poi a me non piacque: irredimibile. Era una Sicilia che non presentava vie d’uscita ma io, a differenza di Sciascia, sono sempre stato fiducioso nella Storia e quindi nel futuro come evoluzione dal passato. E infatti, poco tempo dopo è saltata fuori la figura di Leoluca Orlando: e a lanciarlo come sindaco di Palermo nel 1985 (quando ancora non esisteva il sistema elettorale proporzionale) fu proprio il commissario straordinario della Dc, un “certo” Sergio Mattarella. Nel giro di pochissimi anni, ho assistito a una vera rivoluzione politica e culturale, indimenticabile, a cui nel mio piccolo ho apportato il mio contributo con la mia esperienza al carcere minorile Malaspina. Ho visto dunque tante facce della Sicilia e di Palermo: all’epoca non facevo ancora la spola con Roma, come mi accade oggi, e ho potuto annotare tutti i cambiamenti. Da inveterato riformista, mi accontento anche dei piccoli, anche piccolissimi, passi in avanti.

La Sicilia che conobbi nel 1981 faceva mille volte più schifo di quella di oggi. È pur vero che abbiamo avuto politici impresentabili: siamo l’unica regione con due presidenti di regione nei guai giudiziari, uno – Cuffaro - è stato in carcere per quasi 5 anni a scontare la sua condanna con grande dignità (gliene va dato atto) e il suo successore – Lombardo – è già stato condannato in due gradi di giudizio ed è in attesa della sentenza della Cassazione. Ma, come ripeto ai miei amici pessimisti siciliani, la Sicilia è cambiata in toto. Se faccio il confronto dal mio arrivo a Palermo, è tutto un altro mondo. Come disse il grande Ignazio Buttitta, ‘la Storia zappa a millimetri’ e credo che in Sicilia abbia zappato e che stia ancora ben zappando. Abbiamo avuto un primo governatore di sinistra, per di più gay ed ex comunista: poteva fare molto di più ma intanto ha segnato un passo in avanti nella storia dell’isola (anche se adesso anche lui è impelagato in questioni giudiziarie: speriamo bene). E adesso abbiamo un presidente che, anche se di idee opposte alle mie, a me sembra una persona perbene: mi stupirei se saltasse fuori che il governatore Musumeci fosse coinvolto in cose poco lecite.

In definitiva, Palermo e la nostra Sicilia hanno fatto molti passi avanti. Tanto altro c’è ancora da fare ma Palermo ha attualmente un sindaco, Orlando, che l’ha resa Città dell’Accoglienza in un momento in cui l’Italia ha avuto per 14 mesi come Ministro degli Interni Matteo Salvini. Non dimentichiamo che Orlando non era solo un allievo di Piersanti Mattarella ma un suo importante collaboratore, nonostante fosse giovanissimo, responsabile del dipartimento di Pubblica Amministrazione del gruppo di lavoro di Piersanti. Il suo nome non compare nel mio film ma è uscito lo scorso 20 febbraio per Castelvecchi il mio omonimo  libro che racconta il periodo e tutto ciò che, dolorosamente, è stato lasciato fuori dalla sceneggiatura, compresa l’importanza di Leoluca Orlando e di tutto il gruppo di giovanissimi talenti che Piersanti accolse accanto a sé.

Donatella Finocchiaro

Il delitto Mattarella (2020): Donatella Finocchiaro

 

A proposito di schieramenti politici, cronache giudiziarie e sentenze varie, nel tuo film ci sono nomi che corrispondono a quelli veri e altri di fantasia che richiamano i personaggi realmente esistiti. Da cosa è dipesa la differenza di trattamento?

In un altro dei cartelli finali ho spiegato, per impegno di onestà intellettuale, le ragioni di questa scelta. A fare la differenza sono state le evidenze giudiziarie definitive: dove ancora non ci sono, per esempio nei casi di contrasto tra Procura che chiede la condanna e il Tribunale che assolve per insufficienza di prove, ho modificato le vicende rendendo le persone ‘vere’ coinvolte dei ‘miei’ semplici personaggi. Ho mantenuto nome e cognome di chi le sentenze giudiziarie hanno chiarito e chiuso ruolo e peso. Sulle assoluzioni, sui rapporti con Gladio, sulla Banda della Magliana e sulla frangia neonazista, sono stato costretto a ricorrere ai personaggi da me creati. Temendo possibili ripercussioni giudiziarie, ma anche per prendermi libertà narrative necessarie, mi sono ‘allargato’ un po’, come nella scena dell’Assemblea Regionale Siciliana in cui Pio La Torre attacca pubblicamente il neopresidente Mario D’Acquisto: ma l’attacco non è avvenuto lì. Tutti noi sappiamo come La Torre non perdesse occasione di attaccare D’Acquisto: cinematograficamente, la scena del Parlamento siciliano, il più antico d’Europa, rende bene l’avversione. Non è un fatto documentato ma è plausibile che potesse verificarsi. Lo stesso vale per la situazione inerente all’assassinio del personaggio neofascista Calcaterra: mentre giudiziariamente è definito che ad ammazzare il vero Ciccio Mangiameli fosse stato Valerio Fioravanti, io faccio commettere l’omicidio a un esponente della Banda della Magliana. In molti mi chiedono se si tratti di Carminati: ovviamente, no. Carminati all’epoca aveva solo 22 anni, e il mio amico Francesco Di Leva, grande attore da me beccato in provini a Napoli oltre vent’anni fa, ne ha il doppio…

Molto spesso nei film che ricostruiscono storie vere si ricorre ai filmati d’epoca dei telegiornali o dei programmi televisivi. Tu invece opti per un’opzione fuori dagli schemi: giri ex novo le scene che coinvolgono il tg di una delle più importanti emittenti regionali usando i veri giornalisti di oggi.

Avevo cercato i filmati di archivio e li avevo anche conservati, contando di usarli. Però, io sono un regista di sceneggiatura e da tale penso che anche il servizio al telegiornale debba dire ciò che è funzionale alla storia. È difficile che i servizi originali corrispondano perfettamente a ciò che si vuole per il proprio film. Mi è dunque venuto più comodo ricostruire ciò che avevo in mente ed era in linea col corso della narrazione.

Tony Sperandeo

Il delitto Mattarella (2020): Tony Sperandeo

 

Guardiamo al tuo passato cinematografico. Hai esordito con La discesa di Aclà a Floristella, un titolo oggi introvabile.

Purtroppo, è tornato di proprietà dello Stato. Ho cercato di riacquisirne i diritti ma finora non è stato possibile. La burocrazia prevede un certo iter ma mi riprometto di riacquistarlo. C’è stato un certo momento in cui lo Stato sembrava propenso a rivendere ai propri autori i film che tiene nel cassetto. Prima o poi ci riuscirò…

Il tuo percorso successivo è però segnato dalla figura di Pier Paolo Pasolini, per cui nutri una certa passione. Torni più volte sul personaggio con titoli come Nerolio e Un mondo d’amore e a lui rendi esplicitamente omaggio con Rosa Funzeca.

Si tratta di una passione che definisco ‘critica’. Il mio rapporto con il Pasolini regista è stato un po’ più complicato di quello con il Pasolini narratore. Ho cominciato a vedere i suoi lavori quando poco più che ventenne era difficilissimo reperire le sue opere. Gli ultimi suoi film erano vietati ai minori di 18 anni e non avevo potuto per ovvie ragioni vederli in sala al momento dell’uscita. Vidi Teorema per la prima volta a 24 anni a Parigi, dove era possibile trovare film di autori che altrove erano impensabili (vidi là il mio primo film di Griffith!). Teorema resta il suo unico film che non amo affatto mentre Porcile, sempre beccato a Parigi rimanendo un po’ sconcertato, l’ho poi rivalutato, così come Salò. Anche il Decameron mi lasciò molto freddo. 

Non potendo per ragioni pratiche recuperare cronologicamente i lavori di Pasolini, non riuscivo a fare molta chiarezza sulla sua arte. Nel vedere finalmente Accattone e Mamma Roma, che invece adorai da subito, il mio giudizio si complicò ulteriormente: scattò allora in me un processo di rielaborazione delle sue opere cinematografiche. Non mi vado pazzo per il Pasolini ‘corsaro’ ma il regista di Accattone e Mamma Roma è uno dei più grandi. Inoltre, da “Totòista” scatenato, amo particolarmente il cortometraggio Cosa sono le nuvole.

Questo da spettatore. E da regista?

Strada facendo, furono le sue contraddizioni biografiche a colpirmi sempre di più. Nel frattempo, come lui, ero diventato insegnante di scuola ma come lui in una città diversa da quella in cui sono cresciuto (io a Palermo dalla provincia di Varese, e lui a Roma dal Friuli). Ho cominciato a sentire un afflato anche autobiografico verso certe sue tematiche e personaggi, anche se trovavo sconcertante che un intellettuale del suo calibro, grande ma contraddittorio, ‘inquietasse’ dei ragazzi di dodici o tredici anni (non suoi alunni ma allievi della scuola in cui prestava servizio). Era questa dicotomia ‘amorale’, attraente da sviscerare e raccontare, che mi ha spinto a girare Un mondo d’amore, che racconta proprio lo scandalo della sua prima incriminazione, da professore di scuola media a Casarsa, per atti sessuali con tredicenni. E la sua ‘fuga’ a Roma con la sempre fedelissima madre, ma rompendo col padre.

Nerolio è nato, invece, da Petrolio, il suo libro incompiuto. Sostengo, da appassionato di letteratura, che i libri incompiuti non vanno mai giudicati ma considerati come semplici documenti di studio. In particolar modo, a colpirmi, era stato il capitolo “Il pratone del Casilino”, in cui il protagonista Carlo durante una sola notte ha rapporti sessuali a pagamento con numerosi ragazzi. E partii da quello. Da questa ossessione patologica, bulimica, che non è certo solo omosessualità, per i ragazzini ‘proletari’.

Le sue contraddizioni mi attraevano e colpivano. Accattone e Mamma Roma, del resto, era già diventati da anni due miei punti di riferimento artistico ed espressivo, al punto da realizzare finalmente Rosa Funzeca, dichiaratissimamente ispirato al lavoro di Pasolini con la Magnani.

In poche parole, il mio, per Pasolini, è stato un amore contrastato ma molto forte, che mi vedeva soprattutto attratto dalla sua incredibile, contraddittoria e amorale condizione. A me, che sono un insegnante, la sola idea di un docente che ha dei pensieri lussuriosi sui suoi alunni fa rivoltare il cervello. Da un punto di vista umano, però, la sua condizione (e la crisi che racconto in Un mondo d’amore) è invece estrema ma in qualche modo ‘universale’.

 

Sono poi arrivati Il macellaio e La donna lupo, due film che sono stati incompresi (penso al secondo, soprattutto) e attaccati oltre ogni ragionevole misura. Quali sono secondo te le ragioni di tanto accanimento?

Quello che mi incoraggia, come una sorta di appiglio psicologico o persino, lo ammetto, psichico, è che La donna lupo quell’anno fu l’unico film italiano selezionato sia al Festival di Rotterdam sia al Festival di Toronto. A Rotterdam, con il selezionatore italiano e altri colleghi, raccontai il massacro operato dalla critica italiana, che si era espressa con un livore parossistico (peggio per me). Il selezionatore olandese che curava la selezione italiana mi invitò a riflettere invece su come l’opera fosse invece l’unica di nazionalità italiana a essere presente nei due festival non competitivi più importanti al mondo. Penso sempre alle sue parole per “consolarmi” quando ripenso a quel mio film.

Al di là delle qualità o meno del Macellaio, per cui l’attacco preventivo era rivolto in primis ad Alba Parietti, e poi giustamente anche a me che ne ero il regista, non pensavo che potessero farmela pagare così tanto. Ancora oggi alcuni amici mi ripetono che non riescono a perdonarmi quel mio film!

Gli attacchi alla Donna lupo, invece, provenivano forse anche dal retaggio antropologico che anche certa critica si porta dietro nel giudicare quelle opere che mostrano un erotismo molto esplicito anche a livello di immagini. Alcuni hanno fatto notare con disgusto che c’erano scene erotiche autentiche. Credo ci sia come una riserva aprioristica: pur di attaccarti ti accusano persino di fare un film del genere solo per denaro ma proprio quel titolo tutto ha tranne che la struttura di un film commerciale. Lo stesso vale anche per Il macellaio. Come mi ripeteva spesso l’amico Marco Risi: “Perché non hai voluto fare un film commerciale? Hai scelto la diva televisiva del momento e a quel punto non ha senso infilarla in una cornice intellettuale!”. Ovviamente, non ero d’accordo con lui ma capivo la sua obiezione rispetto ad una narrazione poco lineare, segnata da silenzi e sguardi. Come ha sottolineato spesso Alba, persona intellettualmente onesta e cosciente che infatti ripeteva sempre ‘Io non sono certo Meryl Streep’, la sceneggiatura ben si adattava alla sua mancata formazione di attrice professionista.

 

Non esagero nel dire che da lì è cominciata per te una fase in costante salita, da cui non si salva nemmeno quel progetto su Aldo Moro che risponde al titolo di Se sarà luce sarà bellissimo, di cui sono rimasti soltanto pochi minuti rispetto a quanto girato.

Ho ancora tutto sul groppone. Non so nemmeno se sono stati conservati i materiali girati, dal momento che la società di produzione è fallita prima della chiusura del progetto di trilogia, per chiudere il quale aveva girato quasi tre ore già montabili. Gli dedicai tantissime energie ma sono a oggi disponibili solo quei minuti finiti in un dvd, recuperati non dalla pellicola ma dall’avid di bassa qualità con cui stavamo montando.

Cosa è accaduto dopo?

Ho realizzato Iris, con un finanziamento governativo modesto. È stato l’unico mio film familiare e, come dico sempre, l’unico a lieto fine. È dichiaratamente ispirato a Il palloncino bianco, visto per caso a Parigi quando ancora in Italia non era nemmeno uscito, ed è interpretato da mia figlia Arancia che aveva 6 anni. È seguito dal già citato Rosa Funzeca e si è arrivati così, dopo questo, a una sorta di limbo produttivo. Sono stato costretto ad abbandonare i miei progetti più ambiziosi riuscendo a fare soltanto titoli a bassissimo costo, con grandi difficoltà ad arrivare in sala. Anche quando ce l’hanno fatta, sono usciti in pochissime copie che nessuno ha notato. Rinforzato dal motto secondo cui nessun medico m’ha prescritto di fare il regista, ho vissuto il tutto con tutta la serenità possibile. Sono riuscito a sopravvivere, ho realizzato dei documentari per la Rai e ho continuato a considerarmi un privilegiato che trascorre la maggior parte del suo tempo a leggere, scrivere, vedere film, stare con le persone che gli stanno a cuore. Grazie al cinema ho girato il mondo e sono stato invitato in festival di tutti i continenti solo Antartide escluso. Certo, con Il delitto Mattarella mi aspetto che cambi qualcosa e che possa tornare a occuparmi di progetti un po’ più complicati rispetto al recente passato.

Eppure anche le tue ultime produzioni hanno trovato le porte aperte in vari festival internazionali. Penso ad esempio a La divina Dolzedia, presentato anche al Festival di San Paolo in Brasile, oltre che in quello di Taormina.

È un film che ho realizzato con pochissimi fondi (dovuti a un finanziamento del Nuovo Imaie) ma a cui tengo tantissimo. La cosa buffa è che a quel tempo Matteo Salvini era già molto in voga ma nessuno immaginava che sarebbe arrivato al 30% di voti. Nel film, due prostitute (la Jelo e la Ferro, figlia del grande Turi) si ritrovano a tavola a fare un’analisi contrapposta – una berlusconiana e una renziana, ai tempi – della politica italiana. Non appena il discorso cadeva su Salvini, ne venivano fuori di tutti i colori da strani punti di vista. Essendo pulle, prostitute di un certo tipo, la loro analisi politica la fanno partire dagli aspetti erotici di quei politici. Secondo la loro prospettiva, un bravo politico è tale solo se fotte bene. Se fotte male, invece, è un cattivo politico. Rivisto oggi, non so che impressione farebbe: rimane un progetto a cui tengo tantissimo e prima o poi proverò a proporlo a qualche piattaforma.

Guia Jelo

La divina Dolzedia (2017): Guia Jelo

 

Pronunci la parola “pulla” e non posso non pensare a Le buttane, con cui partecipi in concorso al Festival di Cannes.

Con grande scandalo della critica italiana, anche in quel caso. Da Cannes, i critici accolsero brutalmente il film con un coro di recensioni negative. L’unica che lo difese tantissimo fu Lietta Tornabuoni su L’Espresso e su La Stampa. Da quello che ricordo, lo definirono un filmetto inutilmente provocatorio e con una struttura disorganica. Irene Bignardi, che all’epoca recensiva per la Repubblica, scrisse che andava rimontato perché si vedeva che il montaggio era stato fatto in maniera frettolosa risultando un film non-difendibile. Accusarono persino la direzione del Festival di aver voluto creare uno scandalo, come riportò Gloria Satta su Il Messaggero. Quell’anno a Cannes in concorso c’era anche Una pura formalità di Giuseppe Tornatore: fu l’unica volta di due siciliani nella sezione principale, evenienza che non si è mai più ripetuta. E c’era anche Caro diario di Nanni Moretti, che vinse il Premio per la migliore regia.

Ti senti un ‘incompreso’ dalla critica?

Mai. Ai geni incompresi non ci ho mai creduto. Ogni opinione non è né vera né falsa ma, nella critica artistica, va sempre attentamente ragionata dall’autore, senza vittimismi, tenuto anche conto è che il ‘pensiero divergente’ che ci fa crescere, e non certo i complimenti spesso superficiali o interessati. 

Se mai, dal punto di vista umano, ho sempre avuto come l’impressione che chi non mi conosce abbia un giudizio umano pregiudizialmente negativo su di me come persona. Forse si son fatti l’idea che io sia un tipo metodicamente provocatorio, che mi senta chissà chi, che sia un ambizioso senza bersaglio. Se esiste tale percezione è sicuramente colpa mia: darò un’immagine sbagliata o più probabilmente la danno i miei film, che in effetti, lo ammetto, almeno nelle intenzioni vorrebbero essere piuttosto ambiziosi. Forse certi miei film trasmettono qualcosa di intellettualistico o di intellettualoide. Io ho la mia idea di cinema e dei riferimenti molto alti, ma non ho mai creduto che i miei ‘maestri’ sarebbero fieri di me o delle cose che ho fatto. Io vedo il cinema non solo come cinema d’autore formale, ma anche come qualcosa di ‘disturbante’ che deve chiedere allo spettatore di partecipare; anche se vorrei che se ne sentisse ‘colpito’, addirittura ferito!, in prima persona. Boh. Forse chiedo troppo. Ma come ho detto almeno due volte in questa intervista, ‘Nessun medico ha prescritto che io debba fare il regista’.

Aurelio Grimaldi

Il delitto Mattarella (2020): Aurelio Grimaldi

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Pietro Cerniglia.

©2020 Mondadori Media S.p.A. – Riproduzione riservata

 

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