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Silenzio, parla Agnès
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È incredibile quanta ignoranza alberghi in me, nonostante tutte le buone intenzioni. Nonostante io sia immerso in un flusso di cinema costante e abbia iniziato presto a guardare film con il nonno, che mi veniva a chiamare anche se il Carosello era finito ed io ero già a letto, contravvenendo alle regole imposte di miei genitori. Tutto inutile.
Arrivato alla soglia dei 54 anni di Agnès Varda non avevo mai visto una cippa. Fino all'altro ieri, giorno dal quale sono riuscito a ingurgitare, senza saziarmene minimamente, il suo primo e il suo ultimo film. Meraviglie. Una delle cose belle dello scoprire di avere clamorose lacune è che poi ci si ritrova come bambini alla fine della scuola, con tre mesi di vacanza davanti, un'immensità. La stessa situazione che si vive quando finalmente, dopo che tutti te lo hanno ripetuto per anni (devi vedere Breaking Bad e Better Call Saul, hai visto Breaking Bad e Better Call Saul?, non puoi non aver visto Breaking Bad e Better Call Saul), finalmente inizi Breaking Bad e dopo un episodio o due dici "Ma che cavolo, dove sono stato fino ad ora?". E poi dopo un attimo subentra la felicità. Quella dell'amore, quella che ogni inquadratura sbavi, quella che non vedi l'ora di riiniziare a far l'amore, con le immagini.

Agnès Varda, dov'eri? Anzi dove ero io? A guardare Breaking Bad, ovviamente.
Fortuna che Il Cinema Ritrovato ha pensato di portare nelle sale, sebbene con una distribuzione difficoltosa e ovviamente un po' per aria (potete seguire gli aggiornamenti qui), la sua ultima opera Varda by Agnès insieme ad altri due lungometraggi e tre cortometraggi che sono stati restaurati, sempre ad opera della Cineteca di Bologna: Cléo dalle 5 alle 7 e Daguerréotypes. Cosa che mi ha messo sulle sue tracce e che mi ha spinto, anzi gettato, a recuperare la sua filmografia completa.
In Varda by Agnès c'è lei, seduta su una sediolina a fianco di un tavolino, sul palco di in un cinema francese, che ripassa, racconta e commenta alcuni spezzoni di quasi tutti i film e i cortometraggi della sua carriera. C'è lei, con quella pettinatura bicolore un po' assurda - mi sembra di vederla mentre con un solo asciugamano addosso, davanti allo specchio di casa si taglia la frangetta da sola, un po' di più a destra, un po' di più a sinistra e poi di nuovo a destra finché il danno è fatto, la frangetta è storta ma lei se ne frega, si fa l'occhiolino allo specchio, si dà un'affettuosa spettinata e azzarda un paio di passi di danza totalmente improbabili - c'è lei con quel suo stile colloquiale, spontaneo, naturalmente bello ed elegante, c'è lei che parla e racconta e seduce la platea senza lesinare aneddoti e racconti, svelando come sono state girate alcune scene, il loro significato, i retroscena, i fuori scena. E la cosa che investe lo spettatore, soprattutto uno spettatore impreparato come me, è l'immenso ammontare di creatività, esercitato nei limiti imposti da budget ridotti, che si rivela in trucchi ad alto rendimento per ottenere il risultato desiderato e compiere la straordinaria capacità di visione d'insieme unita ad una cura non artificiosa, mai strumentale, per il dettaglio.

Quando ci si innamora si vuole sapere tutto del proprio oggetto, si vuole tornare indietro nel tempo e nello spazio, per recuperare quel che si pensa aver perduto, per amare dall'inizio, per amare tutto. E così ho fatto io, dopo esser stato preso per la gola dagli spezzoni commentati di Varda by Agnès, mi sono lanciato come una furia sul suo primo film, La Pointe courte. Un esordio abbagliante in cui mette subito in gioco uno sguardo da entomologa documentarista su uno dei luoghi della sua adolescenza, un borgo di pescatori del mezzogiorno francese nei dintorni di Sète. La camera penetra, sicura, decisa, fluida, tra le povere case dei pescatori di molluschi e crostacei, si insinua tra le famiglie numerose, nei tinelli sporchi dove pascolano un numero spropositato di marmocchi tra i due e gli otto anni, case sovrappopolate, sottostrutturate con lo sguardo di oggi, entra nelle stanze da letto riservate agli ospiti invece linde, affacciate sul mare, illuminate dalla luce bianca di un'estate che sembra eterna. In questo luogo - per il quale da subito provo una infinita nostalgia, per il tempo che rappresenta, per la vita che vi si conduceva - cala una coppia in vacanza che si dibatte già in questioni molto sofisticate. Lui è un giovanissimo, esordiente, Philippe Noiret, che torna anch'esso nei luoghi della sua infanzia, lei un'inquieta Silvia Monfort, elegante, già pervasa dell'esistenzialismo parigino della rive gauche che si muove nel suo vestito nero tra i bianchi panni stesi nei vicoli come un fantasma malinconico che visita una specie di paradiso perduto. Sullo sfondo della piccola vita di routine del borgo, scandita dai ritmi della pesca e delle maree, la coppia affronta, all'interno di dialoghi altissimi, le inquietudini tipiche di un tempo sintonizzato sul fuso orario di Parigi: chi amiamo quando amiamo, amiamo l'altro o l'idea che ci siamo fatti di lui o ancora amiamo l'idea che l'altro suggerisce di noi stessi. Nel borgo la vita procede con la durezza del Midi francese, perfettamente aderente alla spigolosità del dialetto, all'aridità del paesaggio, e intanto la coppia si muove, perlustra il territorio, parla in un flusso di coscienza e solo affermando e poi negando la medesima affermazione sembra trovare una sorta di pace, o almeno una specie di direzione.

Era il 1955, Agnès Varda aveva 27 anni, aveva iniziato la sua carriera come fotografa e fotografa è rimasta tutta la vita. Ogni piano lo svela, ogni quadro trasmette amore per quel che contiene, senza alcuna fatica, senza che appaia mai troppo studiato, troppo costruito. Come se lei sapesse sempre dove mettersi, dove mettere lo sguardo o l'obiettivo per tirare fuori il lato giusto, a volte nascosto, a volte evidente. Ad un certo punto, proprio in una delle sequenze raccontate in Varda by Agnès, su una delle sue amate spiagge, credo durante le riprese di Les plages d'Agnès, lei gira con uno specchio seguita dal cameraman e presenta uno ad uno tutti i componenti della troupe, posizionando lo specchio in modo da mostrare alla camera un lato della persona, un'espressione, una porzione di profilo. Quel che sembra un gioco diventa la dimostrazione pratica della sua capacità di inquadrare la vita, della sua innata consapevolezza di dove puntare l'obiettivo, con quale angolazione, con quale profondità, cosa che implica soprattutto, a monte, sentire, più che sapere, quale sia il proprio posto nel mondo per poi restituire al mondo l'idea che un film è prima di tutto un'esperienza collettiva, fatta di persone. Al momento di presentare se stessa, con lo stesso gioco, si posiziona con un piccolo specchio davanti ad un enorme specchio, in cui si riflette il mare, in modo che il mare possa essere ovunque, tutto intorno a lei, Agnès, semplice isola di sabbia.

Varda by Agnès seduce chi ama il cinema, con la sua magia e i suoi piccoli inganni. E, con la sua apertura in una sala piena di gente che ascolta in silenzio le parole di Agnès e i suoi racconti, è un film con il quale rinnovare il nostro amore per il cinema come esperienza ed espressione collettiva. Proprio qui, oggi, in questo esatto momento.

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