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Il tassinaro e il poeta. Un viaggio intorno a Fellini
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C’è un film dell’ ’83, Il tassinaro, in cui il tassinaro (e anche regista) è Alberto Sordi che carica sul suo taxi personaggi famosi raccolti lungo le strade di Roma.

Uno di questi è Fellini.

Il tassinaro inserisce nell’autoradio una cassetta con le musiche di Nino Rota.
Fellini : Me metti pure la musica?
Sordi: Perché io metto questa musichetta, dottor Fellini, quando racconto alla gente tutti i sogni suoi, che lei fa vedere nei film, quelle scene fantastiche con quelle trippone, quelle chiappane, quelle zinnone, quelle bucine…con tutti quei preti sdentati, tutti vestiti de rosso che corrono in mezzo alla strada, e poi le monache cappellone, e le cavallerizze con le chiappe più grosse del cavallo, e poi i cardinali, i baroni, i conti, i zozzoni, i poveracci, i clown, i pagliacci, coi fischietti, le trombette…piripì piripì piripì piripì piripì. Er vecchio che se perde nella nebbia…poi sarebbero tutti i suoi sogni che…
Fellini: Solo questo lei vede nei miei film?!

 Un Fellini leggermente distaccato, quello che nei film guarda i suoi pupi agitarsi e lui, dall’alto, muove i fili ma resta fuori dal tumulto, ascolta il tassinaro logorroico, invadente e tutto core, un Sordi dei soliti, il romano de Roma che non ce la fa a star zitto, si espande a macchia d’olio ma centra perfettamente il bersaglio.

Chiediamoci allora …

 Chi fu veramente Fellini?

Genio difficile da definire con una formula, Fellini sfugge ad ogni classificazione.

Perché?

Perché la poesia sfugge e ben lo sapeva un grande poeta, Andrea Zanzotto, legato a lui da profonda affinitàe collaboratore alla sceneggiatura di tre dei suoi film, Casanova (1976) La città delle donne (1980) E la nave va (1983).

Zanzotto di Fellini è statoil critico per eccellenza, colui al quale il mondo di Fellini si è dispiegato in ogni più intima fibra.

“Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari” è un libro che il poeta diede alle stampe nel 2010, un anno prima di morire, e che raccoglie articoli e testi sul cinema talora dispersi o inediti.

Fellini lo aveva interpellato per il Casanova (1976)scrivendogli: “Vorrei tentare di rompere l’opacità del dialetto veneto che, come tutti i dialetti, si è raggelato in una cifra disemozionata e stucchevole, e cercare di restituirgli freschezza”.

Un invito che Zanzotto non poteva non raccogliere.

Nell’impasto linguistico caratteristico di tanta produzione felliniana, dove la vocalità diventava quella fisicità che Zanzotto descrive come: “voci-visceri, ventriloquie, movimenti muscolari e nervili”, il poeta trovava profonda sintonia col proprio linguaggio e grande è stato il suo contributo alla creazione di quei film.Tre film che appartengono alla seconda e ultima fase della vita artistica di Fellini. O forse potremmo dire la terza, se circoscriviamo fino a La strada una prima fase seguita dalla seconda con i capolavori da La dolce vita a Roma.

Dal Casanova in poi avvertiamo uno sguardo diverso, sono gli anni settanta e ottanta del ‘900, un passaggio epocale che rese irriconoscibile il mondo precedente, e Fellini ne avvertì il profondo cambiamento. Zanzotto, che aveva scritto i cori de E la nave va, parlava così del film in cui individuava la “Voce” come elemento distintivo primario :

Ora la Voce è morta (si suppone) e al suo posto si è formato un rumore di fondo sempre più disarticolato eppure invadente e invasivo, una schiuma anonima di chiacchiere e suono-sound, congiunta ad un lampeggiare e scoppiettare di lustrini altrettanto orgiasticamente fasullo, entro l’unità dell’audiovisivo.”

Pensare a Prova d’orchestra (1979) è d’obbligo, e ancor più a Ginger e Fred (1986). Non è un caso che questi siano gli ultimi film.

La voce della luna chiude definitivamente il cerchio, sulla mercificazione del linguaggio visivo Fellini ha detto tutto quel che c’era da dire e potrebbero essere sue le parole di Zanzotto:

Entreremo in un paradiso di pura visualità in cui scomparirà completamente il logos. Non parleremo più, ma avremo dei loghi“.

Breve storia della critica italiana

Dopo aver parlato della profonda empatia fra Fellini e Zanzotto, ci colpisce un articolo del 20 gennaio scorso sul Corriere.

Titolo:

La lunga battaglia della critica italiana contro il regista più grande” Incomprensioni e antipatie, stroncature e dispetti. Una conversazione inedita con il grande critico.

Il grande critico è Tullio Kezich, amico e biografo di Fellini sul quale aveva detto anni fa in un’intervista a Stefania Miccolis ( da Fellini e la Spagna, ed.Carabba, 2013):

Era un uomo che portava vitalità dappertutto […] poi ha perso l’allegria e anche la capacità di comunicarla e, piano piano, si è un po’ spento […] cominciava ad avere difficoltà di lavoro perché non trovava produttori, con la televisione c’erano tempi enormi di attesa […] Il potentato economico italiano ha fatto pochissimo per Fellini. Avevano questo genio universale, questo personaggio che rappresentava l’Italia fino negli estremi paesi del mondo, e nessuno gli dava una mano, nessuno gli dava la possibilità di avere un lavoro continuo… a lui sarebbe piaciuto andare tutti i giorni a Cinecittà, girare tutti i giorni, gli piaceva…”.

Ripercorrendo alcune tappe di questa “ lunga battaglia della critica italiana”, ecco un veloce florilegio:

Nino Ghelli nel 1952 su Lo sceicco bianco: “Un film talmente scadente per grossolanità di gusto, per deficienze narrative, per convenzionalità di costruzione, da rendere legittimo il dubbio se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello”.

Mentre la critica francese, quella dei critici rivoluzionari dei Cahiers du Cinéma su La strada (il primo Oscar) diceva: “Quel film appartiene alla classe delle opere mitologiche”, Ugo Casiraghi su l’Unità dell’8 settembre 1954 disapprovava:

L’autore non si è certo reso conto nell’involucro della sua decantata solitudine, di aver portato, con questo suo film, l’attacco più a fondo, dall’interno, contro il realismo cinematografico italiano. (…) Dopo La strada Fellini, col suo grande talento, deve assolutamente cambiare strada

 Su Il bidone Umberto Barbaro, sommo critico tra i fondatori del Centro Sperimentale di Cinematografia, scriveva nel ‘55:

L’assurdità della trama, la narrativa sghemba e slegata, la volgarità dei fatti rappresentati, dell’atteggiamento e delle parole dei personaggi, il gusto deteriore in caccia di effetti ultra-plateali, la costante falsità delle situazioni, dei nodi narrativi e delle soluzioni si sommano in un’opera totalmente mancata. Che è tra le più sgradevoli e infelici di tutta la storia della cinematografia, oltre ad essere la più goffamente presuntuosa” e su Le notti di Cabiria Corrado Terzi (l’Avanti!, 12 maggio 1957) così dardeggiava: “Siamo di fronte a delle caricature di personaggi, a caricature di emozioni, a simulazioni di poesia” E mentre il Secolo d’Italia del 7 febbraio 1961 tuonava contro La dolce vita: “Che cos’è dunque questa Dolce Vita? Sarebbe facile dire, e dicendo il vero, che è una menzogna e un insulto e, per usare il linguaggio del film stesso, una “schifezza”... Un attentato alla nazione, alla società, alla morale”, ci fa letteralmente sobbalzare la veemenza di quel Basta! gridato dal titolo dell’editoriale dell’Osservatore Romano l’8 febbraio: “Il male, il delitto, il vizio ostentato sugli schermi, sviscerato nella sua psicologia, incarnato nei suoi protagonisti, splendente in bellezze artefatte e procaci, è incentivo al male, al delitto, al vizio: ne è propaganda

Esponente maggiore di questa posizione negativa in quegli anni fu Guido Aristarco, quasi coetaneo di Fellini e voce autorevolissima della critica: “Ci sembra [...] che il fenomeno Fellini riguardi più il costume, più la psicologia e la sociologia che non l'arte del film [...] In questo senso Fellini appare come un regista anacronistico, irretito com'è in problemi e dimensioni umane largamente superate. [...](da Cinema Nuovo, III, 46 10 novembre 1954)

Fellini non fu risparmiato né da destra né da sinistra. La fama di disimpegno lo circondava, sull’Unità e dintorni La stradafu bollato come “film spiritualista criptocattolico”.Dall’altra parte però, destra e mondo cattolico, era visto come corruttore di costumi.

Con una di quelle proiezioni delle proprie paure e pulsioni su cui la psicanalisi avrebbe molto da dire, si arrivò perfino ad accusare Fellini di essere un cattolico bigotto. Lui, da autentico libertario qual era, rise di quest’accusa, troppo avanti e al di sopra per farsene condizionare.

Clowns e zingari, prostitute e magnaccia, minorati mentali e scioperati di provincia, nobili, preti e cardinali, borghesi e borgatari, erano come i poveracci e gli scugnizzi di De Sica, anche lui abbastanza malvisto dalla sinistra, dove il culto dell’ “operaio cosciente” e della “militanza attiva” a tutti i costi fu duro a morire.

 “Regista senza contrassegni

Così lo definisce Tullio Kezich, uomo di un tempo in cui bisognava essere di parte, engagé, pena l’ostracismo, o peggio, e Pasolini ne sa qualcosa.Le mobilitazioni della sinistra o della destra non gli appartennero mai, cantore solitario e senza confini, ironico dissacratore di conformismi, mai moralista o fustigatore di costumi, piuttosto divertito canzonatore, picaresco e raffinato, non fu mai della truppa, e non per superbia, egocentrismo, strafottenza o eccessiva considerazione di sé.

Fellini era molto amabile, amante della compagnia, sempre pronto alla risata, alla bisboccia, la leggerezza divertita era la sua cifra più autentica. E tuttavia l’unico interlocutore della sua vita fu la sua arte, o meglio, non la sua, l’arte e basta.

Non vedeva i film degli altri, qualche eccezione furono a volte Bergman e Kurosawa, la lunga ostilità (che poi fu reciproca) con Visconti non presupponeva che avesse visto i suoi film. Semplicemente appartenevano a mondi paralleli e inavvicinabili.

Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” scriveva in una lettera San Paolo ai Romani (12,2)

A prescindere da quale volontà Fellini volesse “discernere”, certo non si “conformò” mai, né fu una pletora accanita di critici a fermarlo.

100 anni ma non li dimostra

Il centenario dalla nascita, quest’anno, ha rinvigorito il ricordo, l’attenzione ai suoi film è rinata entusiastica, celebrazioni, mostre, restauri e convegni, tutto quel di cui l’Italia è maestra, è stato fatto. Chi lo conosceva ora lo conosce due volte, chi lo conosceva poco ora lo vede restaurato nelle sale, ed è un altro vedere, chi non lo conosceva affatto continuerà a non conoscerlo, ma non sa cosa perde.

Insomma, come spesso accade, da morti si funziona meglio che da vivi e, come ha detto Zanzotto di Pasolini, anche Fellini oggi è presente soprattutto con la sua assenza. E se quella di un tassinaro è la sintesi più colorata, verace, onnicomprensiva, del suo cinema, gli avremo fatto un bel regalo post mortem affiancandola anche a quella di un poeta.

 Ma poi, Fellini è morto veramente?

 C’è un film, Il viaggio di G.Mastorna, che potremmo definire un ultimo film mai girato, un non-film, sempre pensato, ipotizzato, perfino tutto disegnato da Milo Manara, e niente, ogni volta rimandato e poi rimasto così, non fatto.

Citato nelle biografie, fonte di rammarico per molti, c’è chi si chiede perché non l’abbia realizzato e tenta ipotesi, chi, se potesse, lo farebbe resuscitare per girarlo. Intanto Mastorna sfuma in una dissolvenza coerente con tutti gli altri film, un suggestivo “Fellini che non c’è”.

Sarà stata la malattia che lo stroncò in un’età in cui si possono fare tante altre cose ancora? O quella stanchezza che, a settant’anni, ti prende di fronte a certe forme esasperanti della vita?

A settant'anni, quello che mi fa sentire colpevole è quell'anno, quell'anno e mezzo che ci vogliono sempre per mettere in piedi la baracca d'un film, per impiantare l' "affare" Fellini. Con la Rai, a esempio: pranzi, appuntamenti da "Canova", avvocati, centinaia di telefonate, aspettiamo le elezioni, il Ferragosto, il ritorno dalle ferie, il nuovo presidente, il nuovo direttore generale, vediamo dopo Natale, a primavera, peccato che adesso c'è il ponte, partiamo tutti per il Brasile, perché non vieni anche tu, che li ti vogliono tanto bene? Prima che le diverse persone coinvolte riescano a trovare un accordo, a stabilire qual è la fetta che ciascuno può tagliarsi dalla "torta" Fellini ... Il tempo passa. A fare i conti, risulta che il tempo perduto per poter fare i film è molto più lungo del tempo impiegato per realizzare i film: questo mi deprime".

Fellini avrebbe lavorato ancora a lungo se avesse potuto, ma Mastorna no, quello sarebbe stato davvero l’ultimo film e non poteva girarlo, come non mise mai la parola FINE dopo i titoli di coda. Fellini non visse mai nella realtà ma nel sogno, e nei suoi film faceva avverare i suoi sogni. Dunque, non poteva morire.

Diceva: "Mi sembra d'averli avuti sempre, settant'anni. Ho la sensazione d'essere sempre e da sempre in compagnia di me stesso, d'essere venuto al mondo a ventidue, ventitre anni, e che da allora non mi sia più successo niente. Da quando sono entrato in un teatro di posa non ne sono mai uscito, un anno è scivolato nell'altro inavvertibilmente come in un lunghissimo film che continua. Il tempo, per me, non può essere se non eterno, immobile: faccio adesso le stesse cose di quindici, venti, trent'anni fa.. Non mi sembra d'aver avuto una vita scandita da emozioni diverse, ma d'aver vissuto sempre lo stesso interminabile giorno: tutto è fermo in un fotogramma che mostra un capannone buio, un centro illuminato con innumerevoli sagome mobili, un mare di luce sulla mia testa, e io che lavoro in questa folla, precaria ma immutabile. Di me, della mia vita, non ricordo niente. Sarà per il mio modo di gestire l'esistenza: del tutto provvisorio, contumace, in presenza-assenza. La memoria è quella che ho inventato, il resto è frammento, coriandoli. Non ho un vero ricordo. Non so su quale pellicola della mia macchina mnemonica potrebbe andare a incidersi: quanto ho immaginato nei film è più forte di quanto potrei ricordare. Ho la sensazione di non esserci, di non esserci mai stato, d'aver sempre latitato dalla mia stessa vita".

 Breve appendice conclusiva in forma di canzoncina per non pensare alla morte

 Il vitalismo del mondo felliniano, quel mondo che non si distrugge perché non c’è e i sogni non sarebbero sogni se fossero troppo simili alla realtà, è tutto in una canzoncina che Zanzotto scrisse per La città delle donne:

E’ d’affanno ogni sospiro/ ogni bacio è di vampiro/ ogni letto è di fachiro/ ogni carezza è ortica/ ogni  amplesso è fatica/ ca ca ca zzo fi fi fi ca/ chissà come finirà!”.

 Tema chiave del mondo felliniano, che Zanzotto coglie guardando i suoi “disegni intimi”, coesiste con gli altri temi in una girandola prismatica in cui tutto si scompone e ricompone in un ordine fantastico.

Questa serie di schizzi, disegni, colori in cui prevale un senso libero e giocoso di rappresentazione della fisicità e del suo fervore nell’espressione di un eros intenso e insieme smaccatamente paradossale, deve essere nettamente distinta, ed anzi opposta, alla mostruosa dissacrazione dell’eros oggi in atto. Non c’è nulla che in questi fogli possa essere confuso con l’arido calcolo presente nella pornografia, con la sua mercificazione e banalizzazione totale dell’eros. E Federico non lo dimentica, mentre si lascia andare all’estro fantastico che, a partire dalle vignette giornalistiche remote, sempre accompagnò con pugnaci e deliziosi disegni e schizzi tutta la sua attività filmica”.

 

 E Fellini è tutto qui:

un cinema- laser che fa fuori, manda in fumo ciò che non sia verità, appropriandosi anche di questo fumo. E tutto sarà allora un supremo divertimento.” (A.Zanzotto, cit.)

 

 

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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