Sono nata figlia unica, e quello che mi ha fatto sempre paura è stata la solitudine. Sono nata figlia unica, e quello che ho sempre invidiato ai miei compagni di gioco erano i loro fratelli o le loro sorelle con le quali dividevano la stanza. Avevo terrore della mia spaziosa cameretta solitaria, che riempivo di pupazzi per renderla meno paurosa durante la notte. Ma invece di confortarmi, quelle bambole che di giorno mi sembravano così carine, di notte acquistavano sembianze terrificanti: i volti paciocconi diventavano ombre e i sorrisi dei ghigni.
Avrei pagato qualsiasi cifra per avere accanto il respiro di un fratello maggiore, magari poter condividere con lui la coperta e il cuscino. Invece il più delle volte, dopo aver cercato invano il coraggio di rimanere nel mio letto, mi avventuravo nel temutissimo corridoio di casa per arrivare alla camera dei miei genitori e potermi infilare nel lettone. Spesso la mia mamma la mattina dopo mi chiedeva di cosa avessi avuto paura, se avessi fatto un brutto sogno, io allora per “tranquillizzarla” le inventavo un incubo, ma non erano quelli a terrorizzarmi, non è mai stata la finzione a farmi paura quanto la realtà della solitudine. La solitudine è uno stato dell'animo con il quale si nasce, matura dentro e non ti abbandona mai. La notte ti abbraccia fino a farti mancare il respiro e difficilmente lascia il posto ai sonni tranquilli. Sempre la mia mamma, che devo ammettere è stata la più sensibile a riguardo, ha cercato in tutte le maniere di farmi passare le paure notturne: lucine, pupazzi nel letto, porte sempre spalancate, lunghe attese mano nella mano aspettando che mi venisse sonno...tutto inutile per moltissimi anni.
Un giorno la mia mamma mi portò a casa una bellissima bambola, di quelle con il viso di porcellana, i capelli da pettinare e il vestitino di pizzo. Non so esattamente dove l'avesse comprata o se qualcuno gliel'avesse regalata. Mi disse solo che le avrei dovuto dare un nome e che con lei in camera non mi sarei più sentita sola. Le bambole non mi sono mai piaciute particolarmente, tanto più quelle così curate e delicate, così non mi preoccupai più di tanto e lasciai la bambola sopra una mensola e me ne dimenticai ben presto. Con la notte non tardarono ad arrivare le mie solite paure notturne.
Nel buio conoscevo a memoria ogni ombra della mia cameretta, e sapevo bene come fare per correre fino alla camera dei miei genitori senza trovare intoppi sulla strada. Quella notte però rimasi impietrita da due occhi lucenti nel buio che mi fissavano. Due punti luminosi e senza anima che mi osservavano. Se mi sforzavo riuscivo a vedere il contorno della bambola che la mamma mi aveva dato la mattina, e quasi quasi mi pareva di coglierne anche un sorriso beffardo. “Cosa fai? Non riesci a dormire?”- un sussulto, un urlo strozzato nella gola, un attimo e balzai seduta sul letto: nessuno, nessuno dentro la stanza buia tranne me e la bambola, che (lo avrei giurato) ora non era più sulla mensola ma accanto al letto. “Non riesci a dormire? Eppure la tua mamma ti ha detto che ora non saresti più stata da sola”- era la bambola che mi parlava, ed ora era più vicina al letto- “ma tu di giorno fai la coraggiosa e non ci hai creduto, ti sei dimenticata di come ci si sente a stare tutto il giorno da soli, dimenticati sopra una mensola, nemmeno il nome ti sei degnata di darmi, mi vuoi costringere a diventare cattiva?”- ormai ero sotto le coperte, non avevo il coraggio di tirare fuori la testa, sentivo la bambola sussurrarmi quelle parole, ma ascoltarle -scoprì- non mi faceva così paura come in un primo momento. La bambola non aveva torto: non avevo creduto alla mia mamma, l'unica che aveva sempre cercato di aiutarmi con le mie paure notturne. Avevo dimenticato la bambola sulla mensola, l'avevo lasciata sola sapendo bene come si soffre a sentirsi così, che certe volte fa diventare cattivi. Forse se avessi fatto qualcosa per far capire alla mia bambola che avevo compreso lei mi avrebbe perdonato.
La mattina mi svegliai nel mio lettino. La luce del mattino nella mia cameretta era calda e allegra, tutti i miei giocattoli erano sulle mensole, i miei disegni attaccati al muro, i raggi del sole facevano strani giochi di luce sul soffitto. Mi venne da sorridere e chiamai la mamma con tutto il fiato che avevo in corpo. La mamma arrivò sulla porta: aveva il grembiule colorato e una mollettina sui capelli che la faceva sembrare una ragazzina. “Vedo che la tua nuova amica ti ha fatto compagnia stanotte” - mi disse la mamma indicandomi la bambola nel mio letto. La bambola aveva dormito con me e lo avrebbe fatto per molte notti ancora, quella stessa mattina le diedi un nome (che non vi svelerò), si fece colazione insieme, la pettinai e la sistemai sulla migliore mensola della cameretta. La bambola ha ascoltato ogni mia confidenza, fino a quando l'età mi ha permesso di parlare con le bambole non ho mai smesso di farlo, e ancora oggi mi sorprendo, a volte, a parlare quella lingua magica che mi ha fatto sentire meno sola nella mia infanzia. Oggi è un linguaggio che riservo ai miei animali o agli oggetti a cui tengo molto, o alla mia mamma che non c'è più, ma che è riuscita a trovare il modo di farmi passare le paure quando era viva e a starmi vicino ora che è in un luogo lontano.
Ora sono molto più grande, non mi ricordo che fine abbia fatto la mia bambola, ma nelle notti buie, quelle paurose e piene di pensieri, non è raro che la senta bisbigliare le vecchie storie che le piaceva raccontare, il trucco è starla ad ascoltare per non farla diventare troppo cattiva.
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