Non è semplice iniziare a redarre un simile post. Da dove iniziare? Questa è la domanda che sorge spontanea. Si tratta d'un tema di talmente ampio "respiro" che risulta, per l'appunto, alquanto difficile dire dove sarebbe meglio iniziare per affrontarlo. Ci proverò, comunque (e ci mancherebbe, dopotutto mi ci sono ficcato da solo nel casino!).
Se la domanda circa dove far iniziare la discussione è quella che sorge in me spontanea, come detto, quella che forse sorgerà da subito nel lettore sarà quella riguardante il cosa diavolo c'entri l'argomento citato nel titolo col cinema. Ebbene, purtroppo, c'entra. Perché c'entra un po' con qualunque cosa, qualunque ambito della discettazione umana, per così dire.
Il moralismo, l'etica moralistica, è un qualcosa di cui è talmente impregnato il nostro mondo che risulta, per usare un eufemismo, veramente faticoso presentare una visione distaccata del problema. A mo' di premessa diremo che il moralismo al quale mi riferisco è qualcosa di prettamente occidentale in quanto connaturato nel concetto di "peccato" che opprime la nostra civiltà da due millenni.
E cos'è mai il peccato se non l'idea che qualcuno possa essere condannato e, in una realtà più tetra, persino perseguitato ed, eventualmente, giustiziato persino per aver commesso atti che non fanno del male a nessuno?
In altri termini, cos'è mai il peccato se non una dottrina estremamente reazionaria che, in sostanza, ci considera tutti irrimediabilmente malvagi e quindi punibili a prescindere, anche qualora i presunti crimini tanto criminali poi non siano?
Cos'è mai il peccato se non una gracile copertura ideologica che dona "autorevolezza" e "morale grandeur" ad uno dei più bassi istinti del genere umano, che sarebbe poi quello di giudicare gli altri e godere delle loro sofferenze?
Il moralismo (la pretesa di giudicare gli altri dalla prospettiva d'una presunta superiorità morale e, perché no, anche intellettuale) opprime da sin troppo tempo la nostra civilità e dunque le nostre vite. E' ora di farla finita.
Purtroppo, tra i maggior mezzi di diffusione di tale abito mentale v'è proprio il cinema. Tant'è. A causa della sua persistente e perenne tendenza a ricercare di "abbracciare" il più largo pubblico possibile finisce per diffondere una visione unidirezionale e monodimensionale del mondo e di temi tra i più complessi, portando inevitabilmente ad un appiattimento generalizzato che non fa altro che favorire il rinforzarsi di certune credenze anacronistiche. E perniciose.
Il cinema, specialmente quello mainstream, d'accordo, ma, tristemente, talvolta anche quello "d'essai", appiattisce e livella il discorso su certe delicate tematiche favorendo il permanere di antichi pregiudizi e dando agli stessi, anzi, nuova e ampia diffusione. Un po' come internet, che ancora di più rappresenta un formidabile strumento di diffusione a livello globale di balle intergalattiche e intergalattiche cazz---, pardon: assurdità.
Il moralismo permea a tal punto la nostra cultura che, spesso, non ci rendiamo neppure conto delle sue influenze nefaste. Nel caso del cinema, e non solo del cinema, tali influenze si rivelano appena ci si accinga ad affrontare uno dei seguenti temi: l’amore, il sesso, la famiglia, l’eutanasia, l’economia, la salute (ce ne saranno sicuramente altri, ma credo che già solo questi possano risultare più che esemplificativi).
Nel caso dell’amore e del sesso appare evidente come il moralismo s’affermi nella tendenza a giudicare quasi sempre condotte che sono puramente naturali come crimini indicibili meritori d’imperitura vergogna (magari un po’ meno che in passato, ma comunque ancora presente: vedi il caso dell’adulterio o della prostituzione o del sesso tra giovincelli).
Nel caso della famiglia, ovviamente, s’evidenzia nella volontà di far girare sempre e comunque tutto il mondo solo attorno ad essa e, soprattutto, nel rappresentarla quasi sempre come composta da madre e padre con figli. Non ci si interroga, poi, sul se saperli educare dovrebbe essere una pre-condizione basilare, o se magari sarebbe il caso di contenersi, no: fare figli è un bene a prescindere. La famiglia “naturale” è il meglio che possa esistere, l’unico scopo del sesso è di fare figli.
Per quanto riguarda l’economia e la salute (lasciamo perdere per il momento l’eutanasia oggetto del post di cui parlerò più avanti) la tendenza al moralismo si rende palese nella condanna perenne delle vittime (Sei obeso? E’ perché mangi troppo e male [e non magari perché non puoi permetterti di meglio] Sei povero? E’ perché sei un buono a nulla [come se si trattasse d’una competizione equa, in cui tutti partono dallo stesso punto]).
Tutto questo, insieme ad un’istruzione fortemente inadeguata (che insegna sì a leggere e scrivere e far di conto, ma non a sviluppare un senso critico) e al continuo potere esercitato dalle vuote superstizioni del passato produce una società d’individui prontissimi a giudicare gli altri anche qualora non ne abbiamo alcun diritto, una società predisposta alla creduloneria, all’odio e al suprematismo (in quanto ognuno si crede migliore degli altri, e perciò parliamo anche di una società perfetta per gli ipocriti e i meschini). Dunque, una società, ancora, fatta apposta per i patriottardi pomposi (che in pratica insegnano a sviluppare la particolare facoltà mentale che predispone all’uccidere e al farsi uccidere per niente), gli istigatori all’odio e, in ultima istanza, una società perfettamente approntata alla guerra e all’auto-distruzione.
In questa più ampia tendenza al moralismo e all’irrazionalità della nostra società va’ inscritto l’odierno dibattito in merito al fine vita, inquinato a tal punto da vetusti pregiudizi e insensati moralismi dal perdere di vista l’unica questione importante: quella, naturalmente, della dignità umana. Del garantire al massimo grado tale dignità, sempre e comunque, e a maggior ragione nella malattia, nel dolore e, in definitiva, nella morte.
Giocando cinicamente con le emozioni delle persone si è cercato vergognosamente di impedire alle stesse, invece, di riflettere (vedere gli indegni manifesti appesi per tutta Italia dai “movimenti pro-vita” [Quelli del “potrà farsi uccidere”] per credere).
E giocando sempre cinicamente con le parole si è cercato d’indurre in errore i meno attenti, finendo per equiparare il suicidio in generale col suicidio assistito (ma è un perverso giochetto che viene portato avanti già da molto tempo, troppo tempo).
Ispirato dalla discussione intrattenuta nei commenti del post “ Ecco un film che ci aiuta a comprendere cosa significa legalizzare il suicidio assistito: UNA VERA BARBARIE!”di cui riporto una parte, ho deciso dunque di scrivere questo post. Per riflettere in merito.
Innanzitutto, vorrei riportare quanto là scritto per fare chiarezza e sgombrare il campo da fraintendimenti e moralismi.
“Allora: nonostante il nome possa trarre in inganno, il “suicidio assistito” si ha quando è il paziente a volersi togliere la vita: ha una malattia terminale, è perfettamente in grado di intendere e di volere e in prima persona prende le droghe allo scopo. E’ “assistito” solo in quanto viene portato a termine in strutture apposite che forniscono appunto la possibilità alla persona di assumere tali droghe e di così morire in pace e non tra atroci sofferenze. In questo caso, in sostanza, chi “assiste” provvede unicamente ad informare la persona circa le modalità, i mezzi e, se proprio, anche le eventuali alternative solo dopo che il soggetto abbia espresso inequivocabilmente la propria volontà di morire dignitosamente, ma non fa niente in prima persona del genere “staccare la spina”. Ripetiamo: fornisce solo i mezzi a persone affette da male incurabile che si dimostrano in grado di intendere e di volere.”
Come ho scritto in quel commento: scusatemi, ma non trovo nulla di “barbaro” o disumano in tutto ciò.
“E’ l’eutanasia, invece, che consiste nello “staccare la spina” a qualcun altro. In questo caso, naturalmente, la cosa si potrebbe dire si faccia più “complicata” ma, beninteso il principio di autodeterminazione dell’individuo, anche qui nel caso qualcuno abbia espresso chiaramente, per iscritto, ad esempio (ma, oddio, eresia non si può manco parlarne), la volontà di morire in determinati casi (ad esempio, una volta caduto in un coma da cui molto probabilmente potrebbe non svegliarsi mai) si dovrebbe semplicemente accettare la sua volontà e farla finita con inutili polemiche che vogliono entrare nella sfera personale dell’individuo e magari giudicarlo per scelte che afferiscono puramente a tale sfera e non urtano, dal punto di vista fisico, nessun altro (niente a che fare con l’omicidio, ma dovrebbe essere evidente).
Ma, andando più a fondo, anche il discorso sull’eutanasia non è affatto così semplice come vorrebbero far sembrare gli auto-definitisi attivisti “pro-vita”.
Perché ci sono tre differenti casi da prendere in considerazione.
Il primo è quello della cosiddetta “eutanasia volontaria” che si potrebbe dire molto simile al “suicidio assistito” per il semplice fatto che è il paziente in prima persona, chiaramente, magari persino per iscritto, che esprime la propria volontà di morire, ma da questi differisce, come già suggerito, per il fatto che a porre fine alle sofferenze interviene una persona altra e non il paziente stesso una volta provvisto con i mezzi (magari in quanto il paziente stesso è impossibilitato a muoversi).
Il secondo caso si fa forse più “sfumato” e si tratta di quello dell’eutanasia se vogliamo “non-volontaria”, anche se ritengo tale nome possa (e ti pareva) trarre in inganno. Qui ci si riferisce a particolari situazioni (ad esempio, se il paziente non è in grado di parlare) per le quali la decisione di porre fine alle sofferenze del paziente è basata:
1) o su quello che si ritiene, conoscendolo bene, che sarebbe la volontà dell’individuo in questione, avesse la possibilità di esprimerlo a parole;
2) o su quello che la persona che prende questa decisione di porre fine alle sofferenze dell’altra, e che conosca bene il paziente, vorrebbe fosse fatto se venisse lei stessa a trovarsi al suo posto;
3) o, infine, sulla decisione di un medico, sulla base non solo del suo raziocinio ma anche delle prove e dei test che testimoniano, ad esempio, dell’impossibilità di guarire e delle eventuali inutili sofferenze che si prospettano.
Su questo particolare tipo di eutanasia si può discutere ma eviterei di classificarlo frettolosamente come “omicidio” legalizzato.
Comunque, per ritornare al discorso, l’unico crimine identificabile è quello definito dell’eutanasia “involontaria” per la quale qualcuno, che non conosce il paziente, si arroga il diritto di decidere a suo insindacabile giudizio di porre fine alla vita di detta persona anche qualora la stessa abbia espresso in modo infraintendibile la propria volontà, al contrario, di vivere. E’ questo genere di “eutanasia” che viene sempre tirato in ballo da certi “attivisti” per giustificare l’oscurantismo totale di negare ogni altra forma di “serena morte”. ”
In ogni caso, per tirare infine le redini del discorso: il parlamento (era scontato) si è convenientemente astenuto dal legiferare anche una volta posto di fronte all’evidente assurdità dell’art. 580 del c.p. che, in sostanza, equipara l’istigazione al suicidio con l’aiuto al suicidio, operando una vergognosa mistificazione. E’ evidente come la legge utilizzi termini impropri, perché non sta scritto da nessuna parte che l’aiuto consista nel rafforzare l’altrui proposito al suicidio. Ma stiamo scherzando?
La mancata trattazione del tema per un intero anno (con qualcosa come 15 differenti leggi al riguardo presentata ma mai discusse) si deve ovviamente al più ampio clima culturale di cui ho fatto gran scrivere in questo post costituito dal solito moralismo asfissiante e dal solito oscurantismo di matrice spesso religiosa imperante.
Ho pertanto scritto il post succitato per invitare alla riflessione quanti (di certo, pochi) si ritroveranno a leggerlo. Ed anche per consigliare il film secondo me perfetto per capire come “imporre” la vita ad ogni costo non sia affatto una bella idea come qualcuno vorrebbe far credere. Perfetto perché non di nicchia, quindi facilmente recuperabile, e perfetto perché, non so dire se paradossalmente, diretto da un notorio conservatore: sto parlando, chiaramente, di Million Dollar Baby di Clint Eastwood. Ci sono altri esempi da fare, eventualmente anche più “alti” e magari ci sarà chi saprà consigliarmene di a me ignoti, ma ritengo, ripeto, che gli ultimi minuti del suddetto film dovrebbero essere più che sufficienti a comprendere come il costringere a vivere ad ogni costo, in certi casi, non sia affatto un’opera di bene. E, soprattutto, magari ad intuire come l’interferire con la volontà personale qualora non influisca minimamente sulla vita degli altri rappresenti una delle più agghiaccianti perversioni della nostra civiltà moralistica e retrograda, fissata col peccato, la colpa e l’espiazione.
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