Da anni volevo scrivere questo articolo, giocando sulla canzone di De André, ma ho sempre aspettato. Ora, dopo la Coppa Volpi alla migliore interpretazione maschile al Festival di Venezia 2019 per Martin Eden (Pietro Marcello), non posso più aspettare e possiamo tutti davvero dire che non avevamo dubbi a sostenere che Luca Marinelli è, insieme ad Elio Germano, il miglior attore della sua generazione. Entrambi nascono a Roma. Germano nel 1980 e Marinelli nel 1984. Il primo debutta su grande schermo nel 1993 e Marinelli nel 2010. Quasi dieci anni di differenza, è vero, ma sempre la stessa generazione a cavallo tra X e Y Generation, tra scetticismo e senso del dovere, sfiducia e competitività, ribellione e neoliberismo, cinismo e narcisismo. Conoscendo Germano e Marinelli come uomini e attori, credo siano molto più vicini alla X Generation che alla Y, ma come tutte le definizioni accademiche, anche queste, di natura sociologica, non hanno confini e parametri scientifici, quindi certi.
Personalmente ho conosciuto e apprezzato Marinelli in Non essere cattivo (Claudio Caligari, 2015), senza essermi reso conto che avevo già avuto modo di vederlo all’opera in Tutti i santi giorni (Paolo Virzì, 2012). Ma è stato comunque il film di Caligari a dare la possibilità a Marinelli di giocarsi il tutto per tutto con un personaggio sopra le righe, vero e terrigno come la periferia romana che racconta il film. Da lì, come con Germano da Che ne sarà di noi (Giovanni Veronesi, 2004), è stata una continua rincorsa a tutti i suoi nuovi film e il recupero dei precedenti. Il risultato è stato grandioso e ottimista: la sensazione di grandezza e totale piacere che avevo provato durante la visione di Non essere cattivo sia grazie alla storia che grazie all’interpretazione dello stesso Marinelli, è stata confermata in ogni pellicola successiva. Dal supercattivo premiato con il David di Donatello di Lo chiamavano Jeeg Robot (Grabriele Mainetti, 2015 [anche se gli avrei preferito il riconoscimento per Non essere cattivo, già Premio Pasinetti a Venezia 2015]) al Diabolik dei Manetti Bro. (2020), passando per il nudo integrale de La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013), il fratello disfunzionale di Ludovico Tersigni in Slam – Tutto per una ragazza di Andrea Molaioli (2016 [Tersigni, che è uno dei migliori attori della generazione più recente, quella che segue Richelmy e Franceschini], il criminale maldestro e spassoso di Lasciati andare (Francesco Amato, 2017), il grande Milton di Fenoglio in Una questione privata, proprio al fianco di Lorenzo Richelmy (Paolo Taviani, 2017), l’applaudito Fabrizio De André di Luca Facchini (2018), lo spietato sequestratore di Trust (Beaufoy/Doyle, 2018) e ovviamente il marinaio di Martin Eden che sogna di diventare uno scrittore e che lo ha consacrato tra i più grandi attori italiani di sempre, proprio come Germano Palma d’Oro per La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010).
Non so che studi abbia fatto Luca Marinelli, come si è formato, qual è la sua scuola – come se ci fosse bisogno di averne una o di appartenervi per forza – e quali sono i suoi punti di riferimento attoriali, registici, teorici, politici e quant’altro. Ma la sua storia cinematografica, parafrasando di nuovo De André, è una storia vera, così vera e tangibile che ci fa subito pensare a un talento primitivo, elementale. Acqua, terra, fuoco, aria. Luca Marinelli è una forza della natura. Attore di corpo come Germano, con in più una grande considerazione per il volto e lo sguardo. Se il corpo, come teorizzo da tempo, è segno, e l’attore quindi è segno, vettore, significante, è anche vero che il corpo dell’attore è un elemento scenico preciso senza il quale dizione, voce, emozioni stanislavschiane non avrebbero senso e sarebbero solo orpelli vanitosi. Secondo me, Marinelli, come Germano e altri ottimi attori di questa generazione, è molto più radicato alla terra e all’immanenza della recitazione che ispirato dalle fumose teorie sull’attore e il personaggio.
La sua interpretazione maiuscola in Non essere cattivo, una performance sopra le righe, borderline ed istrionica, non risulta mai esagerata e finta, mai chiassosa e macchiettistica. La grandezza di Marinelli sta appunto nel saper utilizzare il corpo per comunicare, dosando i gesti e le pose tanto quanto la presenza scenica e il rapporto con gli oggetti, l’ambiente e i colleghi.
Valori aggiunti sono voce e sguardo. La sua voce, con la sua modulazione ammaliante, il tono e il timbro che ipnotizzano lo spettatore per la capacità dell’attore di essere incisivo quanto di recitare con chiarezza e appeal fonico, è uno strumento attoriale importante nella definizione dei suoi personaggi. Mentre quei due occhi limpidi, giganteschi e profondi fanno del suo sguardo un dettaglio iconografico fondamentale per ricamare la cifra stilistica dell’attore. Sorpresa, delusione, rabbia, isteria, impotenza e tanti altri stati d’animo dei suoi personaggi, come passano attraverso le nevrosi e la plasticità del suo corpo, passano anche attraverso i suoi occhi e irradiano dallo sguardo un animo, un’emozione, un’idea di interpretazione tagliente e fatale, penetrante e famelica.
Corpo, voce, sguardo, sono in Marinelli strumenti di lavoro naturali e genuini, su cui e attraverso i quali, l’attore studia, lavora e perfeziona la propria recitazione e l’idea di personaggio che vuole restituire al pubblico. Esattamente come Elio Germano, Marinelli fa di se stesso un segno performativo, il significante primo delle sue interpretazioni. Se dovessi dire chi, secondo me, appare sullo schermo, se l’uomo o il personaggio, direi l’uomo principalmente, e il personaggio come emanazione di un altro da sé, tale da diventare un unicum.
La verità tellurica della storia interpretativa di Marinelli, ruspante e genuina, addizionata dalla furia artistica e dallo slancio attorico esclusivi dell’attore stesso, è destinata a durare a lungo e in periodo in cui il cinema italiano, dal 2010 in avanti, ha riscoperto il genere e l’ibridazione, l’utilizzo di nuove tecnologie e la narrazione di storie altre e diverse dalle solite paludate e mediocri narrazioni del mondo borghese italiano. Il noir, il fiabesco, l’horror, il crime, etc., stanno fortunatamente oscurando la commedia cafona e monocorde che ha dominato i ’90 e i primi anni del 2000, mentre una nuova commedia, quella dei Genovese, Genovesi e Bruno sta tracciando il nuovo perimetro del genere italiano per definizione. In questo panorama, senza disdegnare l’estero in cui proprio Marinelli, Germano, Favino e Richelmy sono molto attivi, il vincitore della Coppa Volpi 2019 può davvero segnare una storia esemplare di attore impegnato, tale è l’uomo Marinelli anche grazie alle sue importanti parole di ringraziamento per chi aiuta e salva i migranti – mentre il Codacons ha perso l’occasione di fare bella figura con la sua infelice e stolta polemica – ma anche di attore leggero che sa quanto un qualsiasi personaggio in qualsiasi film di qualsiasi genere possa ben essere un antidoto all’ignoranza e possa comunque rappresentare l’uomo, la vita, il mondo.
Mauro Fradegradi
Abbiategrasso – 10 settembre 2019
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