IL FESTIVAL DI LARRAIN
Con “La Veritè”, commissionato all’autore giapponese KORE-EDA, il 28 agosto inizia la 76ma rassegna festivaliera veneziana. Nonostante proclami ed intenzioni, la manifestazione appare sulla carta scontata: certo, le previsioni sono fatte apposta per essere smentite ma il programma è ordinario e senza alcun sussulto, soprattutto nel concorso principale.
GLI ITALIANI
Tre, come ormai ampiamente noto, i titoli italiani. “Il sindaco del Rione Sanità” sembra confermare la difficoltà per Mario MARTONE, che proprio al festival del 1992 trovò consenso critico e popolare (“Morte di un matematico napoletano” è l’unico titolo del cineasta fondatore di “Falso Movimento” che gli ha fruttato un riconoscimento importante, oltre al modesto premio Pasinetti consegnato a Elio Germano per “Il giovane favoloso”, sempre a Venezia, nel 2014, ben 22 anni dopo), di sperimentare una nuova via d’Autore al cinema italiano e raccontano di un necessario rifugiarsi in titoli di provenienza teatrale, da cui viene lo stesso regista e non tragga in inganno la lettura nel 2019: il film, in fondo, è davvero coniugato al 1960, anno in cui Eduardo De Filippo trascrisse l’omonima commedia ed in tempi di Gomorra l’abusato tema della camorra potrebbe lasciare perplessi gli spettatori. “La Mafia non è più quella di una volta”, di Franco MARESCO, pare incamminarsi sulla stessa strada del precedente “Belluscone”, utilizzando lo stesso impresario – Ciccio Mira – protagonista della pellicola. Stavolta, però, è più evidente la fatica condotta nel mostrarci un paese che dalla mafia sembra non essere ancora uscito e la figura della fotografa ormai novantenne Letizia Battaglia sta lì a testimoniare una strada mai interrotta davvero, tuttavia, anche qui il tema può difficilmente appassionare. Certo, il cinema del co-autore di Cinico Tv è esso stesso sorpresa ma si perde nel momento storico attuale, difficilmente catalogabile. Innegabilmente piacerà agli amanti del genere ma altamente improbabile che porti a casa riconoscimenti tangibili: preso così, è il solo film che utilizzi tracce d’improvvisazione ma resta spesso oscuro fuori dei confini nazionali. Per ultimo, “Martin Eden”, di Pietro MARCELLO: operazione complicata, resa peraltro più tormentata da una produzione lunga e travagliata – si era pensato di vederlo in concorso a Cannes, prima che a Venezia – appare come un ibrido: tanto lontana pare la scrittura di Jack London (seppur adattata in terra italica, ancora una volta a Napoli, a dimostrazione che la Direzione del Festival punta su un immaginario consolidato e non vuole rischiare su titoli di diversa concezione e location), quanto poco documentaristico lo sviluppo –e, in fondo, l’autore casertano questo finora è stato, seppur documentarista poetico. I due lavori dei registi campani, in ogni caso, sono prodotti in collaborazione con Rai Cinema, mentre per l’opera dell’autore siciliano, si tratta del ritorno in laguna per la ILA Palma e la Dream Film, che però, per “Belluscone” erano presenti nell’ambito di “Orizzonti” e non nel concorso principale.
LE STAR
Anche Roman POLANSKI, autore tra i più amati, punta sul passato con “J’accuse (L’ufficiale e la spia): “l’affaire Dreyfus”, ufficiale francese accusato nel 1895 di essere un informatore dei tedeschi, divise la Francia per lunghissimi anni: trasposto già in pièce teatrale, in altri film, poi in una miniserie televisiva del 1968, sembra essere un altro prodotto lontano dallo spettatore medio e necessario ai cinefili e critici per discutere dell’autore polacco; certo, nel cinema o conta il “come” piuttosto che il “cosa” ma l’avvenimento resta più un appassionato atto d’amore verso la Settima Arte del suo regista che non un’opera di larga diffusione; Steven SODERBERGH, comunque autore finora solo di qualche prova davvero interessante, mentre spesso ha parlato in maniera stantia e convenzionale, con “The Laundromat” (che in Italia sarà presentato con il titolo di "Panama Papers" ) ci parla ancora una volta di intrighi, complotti, traffici che, se non fosse per la presenza di Meryl Streep, sarebbe lecito saltare la visione. Certo, non può esserci un Festival senza gli USA ma sarebbe stato davvero un gran colpo assicurarsi Tarantino, che invece ha preferito Cannes. Per restare nei dintorni di Hollywood, più interessante la visione di “Marriage story”, "Storia di un matrimonio",ad opera di Noah BAUMBACH, che cerca di analizzare un matrimonio e la sua fine/nonfine dall’interno: sin qui, nonostante l’appeal, Scarlett Johansson non ha ricevuto grandi riconoscimenti in Veneto, se si fa eccezione per il premio del 2004 (…un altro mondo cinematografico, è il caso di dirlo) quando si aggiudicò “Controcorrente” per l’interpretazione di “Lost in translation”. Ecco perché puntare su quest’opera appare azzardato. Rapporti tra padri e figli travestiti da fantascienza per “Ad Astra” di James GRAY, con un cast forte (Brad Pitt, Tommy Lee Jones, Lyv Tyler, Donald Sutherland) per un genere che a Venezia non ha mai trovato il favore del pubblico e, ancor meno, quello degli addetti ai lavori. Della pattuglia d’America del Nord fa parte anche Todd PHILLIPS, cinquantenne produttore-regista adrenalinico, noto ai più per “Una notte da leoni 1,2,3” che sbarca con “Joker”, fumettone realizzato con i soldi di Bradley Cooper – che coproduce – e di cui fanno parte il magnifico De Niro (un’altra prova sbagliata?) e Joaquin Phoenix nel ruolo del clown cattivo. Anche questo film è ambientato nel passato: il regista sceglie gli anni ’70 e ’80 perché più libero di interpretare l’immaginario collettivo che ha partorito il celebre criminale. Certo, la suggestione di vedere assegnato un premio per un film apparentemente diverso dagli altri, ci sta tutta ma sarà difficile uscire dalla sala con qualcosa di consistente oltre agli applausi (se ci saranno).
L’IMPEGNO E I FRANCESI
Tralasciando il convenzionale film di apertura (in genere, è quasi sempre fuori dall’assegnazione dei titoli), possiamo osservare come il cinema cominci davvero a parlare al passato: “A Herdade” – (La Tenuta), di Tiago GUEDES sembra essere una rievocazione, neppure troppo convincente, del Portogallo dagli anni Quaranta ad oggi, per raccontare ciò che è stato di una dittatura fascista fin troppo nascosta alla Storia; “The painted bird”, scritto, prodotto e diretto dal sessantenne di origine ceca Vaclav MARHOUL, è un’ulteriore storia ambientata alla fine della Seconda guerra mondiale, anche se girata in un folgorante bianco e nero, che non pare però avere gli attributi (e forse neppure i mezzi produttivi) per aspirare al riconoscimento maggiore anche se, di certo, potrebbe ritrovarsi assegnato un premio data la tematica; più o meno nello stesso periodo è ambientata “Lan Xin Da Ju Yuan (Teatro Lyceum)” (che in Italia passerà come "Saturday Fiction") di YE LOU, cineasta cinese – e forse questa è la più grande novità – che racconta con il suo lavoro filmato come “cinema-veritè” l’imminenza dell’attacco di Pearl Harbour attraverso gli occhi dell’attrice Jean Yu; anche Olivier ASSAYAS si lascia tentare dal passato: certo, il 1990 – anno di ambientazione cinematografica de “Wasp Network”, che sarà presentato in sala Darsena il 31 per gli accreditati – è più vicino ai nostri giorni ma in fondo cerca nuovi stimoli in un’operazione “nostalgia”, per parlarci di Castro e dei momenti finali della Guerra Fredda: difficile prenderlo troppo sul serio ma l’autore di “Sils Maria” ha dimostrato con “Carlos”, miniserie sull’omonimo mercenario venezuelano di sapersela cavare con intrighi e pistole, pur senza essere Di Palma o Scorsese. Conoscendo la natura della giuria, improbabile strappare elogi, anche se il cast stellare (Penelope Cruz, Edgar Ramirez, Gael Garcia Bernal) potrebbe conquistare molti favori. Nonostante la provenienza, almeno sulla carta, il film di Assayas non pare ascriversi alla tradizionale – piccola – pattuglia francese, come pure l’opera di Polanski, pur se saldamente prodotto Oltralpe: il pegno da pagare è (ancora) un prodotto targato Robert GUEDIGUIAN, “Gloria Mundi”, per una scelta che, nonostante tutto, appare superata. Il fatto è che i film corali presenti in maniera abbondante nella tradizione transalpina oggi fanno più fatica a restare spontanei: la cronaca, raccontando di storie di emarginati, poveri diavoli e disoccupati sembra, in quest’ottica, superare di gran lunga questi territori.
L’ANIMAZIONE
A quattro anni di distanza da “Anomalisa” (Charlie Kauffman, 2015), torna in concorso un film di animazione, anch’esso cinese ma prodotto in collaborazione con Hong Kong: “Ji Yuan Tai Qi Hao”, ovvero "No.7 Cherry Lane" di YONFAN, che, attraverso l’amore di Ziming, uno studente universitario ad Hong Kong, per la signora Yu e sua figlia Meiling, prova a raccontare gli eventi del 1967, che determinarono, sulla scia della Repubblica Popolare Cinese, le rivolte tra i comunisti locali e il governo coloniale britannico. Certo, scegliere una prospettiva storica (ancora…) ma utilizzando una forma più adatta ai bambini, potrebbe creare difficoltà di comprensione ma a 71 anni l’autore-regista può permettersi di scegliere la libertà creativa che crede.
E in tema di settantenni, va segnalata la presenza di Roy ANDERSSON, con "About Endlessness" - “Om det oandliga” (Sull’infinito): vincitore a sorpresa nel 2014 - “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” -, lo svedese ha preparato questo film in un tempo assolutamente breve per la sua idea di cinema, ne è prova il breve minutaggio (76’) e probabilmente può essere considerato un’appendice del lavoro precedente. Più orgogliosa che sentita la sua partecipazione ma l’autore 76nne (76 come Venezia, 76 come i minuti del suo film...) sa divertirsi (e divertirci) anche a fari spenti.
Nonostante un apprezzabile impegno, possiamo giudicare esornativa la presenza di Atom EGOYAN (“Guest of honour”), ormai spostatosi da Cannes a Venezia (“Remember”, con Christopher Plummer fu presentato nel 2015), con una trama, tratta da una propria sceneggiatura che indaga rapporti padre-figlia e sembra essere un racconto di ambiente e caratteri piuttosto che di formazione: probabilmente, superfluo, conferisce però ulteriore allure internazionale – semmai ce ne fosse bisogno – alla rassegna, essendo girato in lingua inglese ed armena e iscritto come film canadese, paese del regista che, nato in Egitto, proviene infatti da una famiglia armena.
LE DONNE
Due le rappresentanti del gentil sesso in concorso: dal mondo arabo, Haifaa AL MANSOUR con “The perfect candidate”, che, attraverso l’esperienza di una giovane dottoressa saudita che si candida alle lezioni comunali narra ancora una volta una storia di emancipazione femminile e l’australiana Shannon MURPHY che presenta “Babyteeth”, che racconta il primo amore di una giovane gravemente malata, Milla, per lo spacciatore Moses: in entrambi i casi c’è da augurarsi che si tratti di scelte felici, specie nel prodotto australiano – come non ricordare il Leone d’Argento di Jane Campion per “An Angel at My Table” del 1990, viatico beneaugurante – piuttosto che di un forzato allargamento “dovuto”, dati i tempi. Certo, un premio in uno dei due casi, tenuto anche conto che l’australiana è al debutto assoluto, apparirebbe sorprendente.
Curioso appare “Waiting for the Barbarians” di Ciro GUERRA: prodotto dall’italianissimo Iervolino che, almeno finora, ha lavorato prevalentemente sull’home video, ha un cast che sembra assortito con troppa fretta: Johnny Depp e l’italoaustraliana Greta Scacchi, oltre al londinese Robert Pattinson non paiono attori consoni ai progetti del regista de “El abrazo de la serpiente” e, specie il giovane inglese, sembrano ancora storditi dai ruoli che continuano ad accettare. Il film, comunque, non pare discostarsi eccessivamente dall’omonimo libro del massimo studioso del postcolonialismo sudafricano, John Maxwell Coetzee in cui si narra della graduale presa di coscienza di un magistrato di fronte agli spietati interrogatori condotti sui barbari dei confini.
PABLO LARRAIN
“Ema” è l’opera con la quale il regista cileno si presenta per la terza volta in concorso in laguna: tutto concorre, a prescindere dalla storia, che è stata sapientemente presentata in poche righe, con un commento telegrafico del cineasta (“Una meditazione sul corpo umano, sulla danza e sulla maternità”) a fare di questo film l’unico vero favorito al titolo di Leone d’Oro. Primo, perché Larrain è stato scippato nell’anno di “Post Mortem” (alla 67ma Mostra del cinema il presidente di giuria, Tarantino, assegnò il massimo riconoscimento alla sodale Sofia Coppola per “Somewhere”) ed anche per come è stato trattato “Jackie”, che ha portato a casa nel 2016 il solo fregio per la sceneggiatura. In secondo luogo, va qui ribadito che la presidente di giuria è Lucrecia MARTEL che, da argentina, potrebbe anche meglio interpretare il sentimento espresso dalla celluloide girata dal cineasta nato a Santiago del Cile: di sicuro, la concorrenza non appare eccessivamente forte, almeno sulla carta e il festival soffre l’essere scontato.
La direzione di Alberto BARBERA, d’altra parte, negli ultimi anni ha provato a trovare un giusto bilanciamento tra spettacolo e forma critica ma, per farlo, ha spesso trascurato la crescita di nuovi autori o il recupero di grandi registi (“Il traditore” di Bellocchio avrebbe potuto finire qui e magari essere meglio apprezzato) : in anni di produttività che riconosce solo forme economicamente convenienti, questa critica che gli si può muovere è la più debole possibile; resta però un senso di incompiutezza e una specifica di progetto poco chiara, che ha favorito troppo alcuni (la Rai brilla con 20 titoli tra le varie sezioni: ma nessuno di essi sembra essere davvero il frutto di un’operazione artistica; d’altro canto, se alla fine i prodotti sono necessari al piccolo – egemone – schermo italiano, vanno girati secondo direttive precise, anche sacrificando “la mano” di chi dirige ) a scapito di altri che, nella loro incompiutezza (per stare dalla parte di Inarritu), probabilmente sono più spontanei, sentiti, urgenti. E, magari, scavano nelle pieghe di oggi senza “dover ricorrere stabilmente al passato” (cit. Barbera, intervista al Tg Rai, 27 agosto).
In conclusione: Buon festival e che lo spettacolo abbia inizio!
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