In questi ultimi anni si dibatte molto sul ruolo attuale della critica cinematografica e della figura professionale del critico cinematografico. L’arrivo, prima di internet, e in seguito, dei social media ha provocato una rivoluzione nella trasmissione e riproduzione di dati, immagini, pensieri, sentenze e anche insulti prima inimmaginabili, aprendo così il dibattito anche sulla critica. Mereghetti, decano dei critici, aveva a suo tempo sbroccato contro il “critico da blog”, mentre su FilmTv rivista da tempo vengono proposte a più riprese riflessioni più intelligenti e meno perentorie sul tema.
Voglio, con questa mia riflessione, provocare ulteriormente e non mandarle a dire né a una parte – il critico professionista – né all’altra – il critico amatoriale.
Partiamo da un dato di fatto. A tutt’oggi, se non mi sono informato male, non esiste un “corso di laurea in critica cinematografica”. Esistono insegnamenti che possono comporre un corso di laurea, ma non esiste un corso di laurea specifico per la professione critica. Ed è anche un errore, dovrebbe invece esistere, così come Teoria e critica del cinema e della narrazione audiovisiva dovrebbe diventate disciplina di insegnamento nella secondaria di I e II grado, tanto quanto Letteratura. Ma questa, e quella su una vera e strutturata riforma scolastica, sono un’altra storia – a cui per altro sto dedicando studi e riflessioni di prossima pubblicazione [dato il mio ruolo di insegnante].
Da questo dato nasce una prima domanda: come si diventa critico? Credo, correggetemi se sbaglio, che l’unico modo per essere dei critici professionisti sia, a laurea ottenuta – filosofia, lettere, beni culturali, etc. – l’iscrizione all’ordine dei giornalisti. Da qui, seconda domanda: tra me e un critico professionista quindi, l’unica differenza è l’iscrizione all’ordine? Risposta: sì.
Oggettivamente ci sono altre differenze che sono poi la logica conseguenza della professione di critico, ovvero: un critico, per questioni di lavoro, deve vedere regolarmente film, leggere le riviste specializzate, i libri più attuali, ma soprattutto vedere, vedere, vedere montagne di film per poter avere una visione la più ampia possibile sul cinema, storico come attuale. Al contrario, un semplice appassionato vedrà molti meno film, leggerà e si informerà molto di meno, proprio perché non è un lavoro, e soprattutto “selezionerà” i film che vorrà vedere, mentre il critico professionista è, credo, obbligato dalla redazione a vedere i film per recensirli, andare a festival e retrospettive che magari salterebbe a piedi pari, ma deve pur farlo perché è il suo lavoro.
In conclusione, tra un critico professionista e uno amatoriale, le differenze sono relative perché la discriminante lavorativa innesca una serie di successive differenze che davvero allontanano le due tipologie di critico, dotando il primo di una cultura cinematografica molto ampia e vasta – anche se non sconfinata – e caratterizzando il secondo di una viscerale passione viziata però dalla selettività e dalla soggettività del proprio giudizio – ma davvero un critico professionista commenta un film in modo oggettivo? Inoltre, non essendo un lavoro, anche lo studio e l’informazione di settore sono settoriali. Ecco perché mi piace pensare che tra le due tipologie di critico non esiste davvero una differenza di classe o di facoltà di giudizio del tipo “Io professionista posso giudicare un film, tu amatoriale invece no”. Eppure c’è chi continua a sminuire, ridicolizzare e contrastare la critica amatoriale nonostante si sia appena dimostrato che non esistono differenze intellettuali estreme, ma solo di esercizio. Sorpresa: io stesso critico la critica amatoriale. Ovviamente parlo di quelle persone che in tutta libertà aprono un blog e scrivono solo perché hanno la tastiera del pc davanti – una volta si diceva che uno parlava solo per far prendere aria ai denti. Dopotutto, c’è amatoriale e amatoriale. Infatti, un conto è l’amatore appassionato, studioso, spettatore e lettore forte, come si dice in gergo, e un altro conto sono gli spettatori una tantum, senza studi previ, incapaci di poter interpretare il film perché non sono in possesso degli strumenti critici adeguati, confondendo la pratica del blockbuster del sabato sera al multisala come momento di esperienza dialettica.
Quindi: critico professionista, critico amatoriale – ovvero non stipendiato – e infine critico coatto, o ciarlatano o cialtrone, ognuno usi il termine che preferisce. Tra il primo e il secondo sono fortemente convinto esista solo una differenza salariale, mentre tra i primi due e il terzo una differenza intellettuale e culturale. A volte un abisso. Sarebbe il caso di proporre un definitivo giro di vite con tanto di pietra tombale sull’ormai falso storico che vuole che la rete sia democrazia e libertà di idee – basti guardare alla politica dove i paladini della rete sono i primi a dribblare i doveri e le regole della democrazia e del buon senso. Dopotutto basta ricordare Umberto Eco.
Ma facciamo un altro esempio, per chiudere: il mio. Sono laureato in Lingue e letterature europee ed extraeuropee, così titolava all’epoca il mio corso di laurea. Ottima valutazione finale, 110 con lode, con un piano di studi di letteratura spagnola e nordamericana con approccio comparatistico, tra cui due esami di Teoria e critica cinematografica con Raffaele De Berti. Prima della discussione della tesi, agli stand allestiti all’Università degli Studi di Milano per far conoscere agli studenti le realtà lavorative a cui potevano aspirare, c’era anche lo stand della casa editrice Il Castoro. Io, ovviamente interessato, ho chiesto informazioni e la ragazza addetta allo stand mi ha detto che i due esami che avevo fatto mi bastavano per poter lavorare nel settore. Eureka!
Ora, io vedo, approssimativamente, un film al giorno. Tra cui serie tv o film già visti, ovviamente, ma potrei dire di vedere qualcosa come almeno 200 film nuovi all’anno, tra cui anche prodotti inguardabili che interrompo subito o che cerco di finire velocemente. Quindi, riassumendo, oltre a un percorso di studi che mi permetterebbe di lavorare nel settore, ho anche un cultura cinematografica non sconfinata, ma credo di poter dire molto ampia e varia nonostante una logica selettività e settorialità personali – la famosa soggettività.
Proseguiamo. Oltre agli studi e alle visioni, posso annoverare anche letture e studi personali. La mia libreria scoppia di salute e di libri di cinema (teorie, generi, manuali, registi, attori, etc.) che leggo e studio e rielaboro nei miei scritti, nei miei commenti – non amo parlare di recensioni. Inoltre, leggere FilmTv rivista mi aiuta nell’esercizio dialettico. Non bastasse, le mie varie pubblicazioni attestano ulteriormente le mie competenze: «Teen Wolf. Adolescenza e licantropia. Temi e figure», pubblicato su Brumal (Vol. 4, n. 1, 2016), rivista dedicata al genere fantastico dell’Università Autonoma di Barcellona; «El lugar de un forajido: El bandido adolescente di Ramón José Sender» e «Il western come tremendismo: Cristo vs Arizona di Camilo José Cela», studio e analisi di due opere letterarie di genere western senza però esulare dal cinema, pubblicate rispettivamente in Alazet (n. 27, 2015), rivista dell’Università di Huesca e in Iperstoria (n. 12, 2019), rivista online di studi americani dell’Università di Verona, di cui lascio i tre link a fine articolo.
Domanda: perché il mio commento a un film vale di meno della recensione di un critico? Perché dovrebbe essere meno credibile? Perché non potrei aver interpretato il film meglio del critico navigato?
Esempio. È una vecchia storia che purtroppo mi tocca riesumare. Pier Maria Bocchi, in «Spagna e populismo» (FilmTv, n. 13, 2017) cestinava l’intero cinema spagnolo in 15 righe. È l’opera di un critico? È un articolo responsabile? È giusto argomentare in così poco spazio lo stato di salute, tra l’altro ottimo, del cinema spagnolo del XXI secolo? Più che un articolo professionale mi è sembrato e mi sembra tutt’ora una sfuriata isterica senza contesto e senza coordinate culturali, per non dire della metodologia e dell’approccio critico del tutto assenti. La storia si ripete, in parte. Con il titolo «Auguri per il tuo horror» (FilmTv, n. 2019), lo stesso Bocchi, pur esaminando dettagliatamente e con intelligenza lo stato di salute del cinema horror, al momento di citare i migliori titoli del decennio sfoggia pellicole abbastanza sconosciute, magari solo tangenti al genere, dimenticandosi di film horror che secondo me hanno davvero segnato il decennio 010. Ma, appunto, “per me”. Può quindi il mio giudizio, per di più di esperto e studioso di horror e western, valere di meno di quello di Bocchi – come di qualunque critico professionista? Oppure conta solo l’iscrizione all’ordine dei giornalisti e la militanza festivaliera?
Mi auspico, in conclusione, che nelle riviste di settore, se davvero non si vuol dare spazio alla critica amatoriale come FilmTv rivista faceva anni fa dialogando con l’omonimo online, e non la si vuol accreditare in generale, disconoscendola per principio, che per lo meno siano più firme a trattare lo stesso tema, a togliersi qualche sassolino in più, come già si fa. Spero, per esempio, che facciano seguito altre riflessioni sul genere horror in risposta all’articolo di Bocchi citato poco sopra, per avere una pluralità di punti di vista e riflessioni. Così non si correrebbe il rischio di autarchicizzare un tema, una discussione, come purtroppo è accaduto con quell’infelice articolo sul cinema spagnolo, a cui sarebbe stato giusto accostare altri punti di vista.
Mauro Fradegradi
Abbiategrasso, lunedì 26 agosto 2019
Link ai lavori citati:
https://revistes.uab.cat/brumal/article/view/v4-n1-fradegradi/288-pdf-it
http://revistas.iea.es/index.php/ALZ/article/view/2580/2570
http://www.iperstoria.it/joomla/images/PDF/Numero_12/Fradegradi_pdf.pdf
Link al vecchio articolo scritto contro “Spagna e populismo” di Bocchi:
//www.filmtv.it/post/34382/contro-bocchi-e-spagna-e-populismo
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta