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Su Nadia Toffa e sull'abisso
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Ho assistito stamattina, di persona, al Duomo della nostra città, ai funerali di Nadia Toffa, e non sono stati certamente bei momenti. Sono ore di smisurata tristezza in cui si impongono delle riflessioni sulla vita, su che cosa ci facciamo qui, ma anche sulla nemesi della vita, la sua grande nemica, la Grande Puttana, la morte. Negli ultimi giorni ho letto commenti che mi hanno addolorato molto, nei quali si manifesta indifferenza per la scomparsa di Nadia, o addirittura si passano criticamente in rassegna alcuni degli errori che avrebbe commesso (condizionale) mentre compieva il suo lavoro. Tralasciando il fatto che non era proprio il momento opportuno, come altri più titolati di me hanno segnalato, io dico: se anche ha commesso degli errori, benedetti siano quegli errori! benedetta quella perseveranza! benedetta quella cocciutaggine, quell'iperattività! Perché negli errori ardeva ancora la fiamma della vita. Viviamo in un mondo in cui tutti han tolto a tutti il diritto di sbagliare: la cultura dello scarto sta prendendo il sopravvento. Quante volte ci si dimentica che l'uomo per natura sbaglia! Cessiamo di farlo solo quando la Grande Puttana viene a riscuotere il suo schifoso tributo. Nadia ha affrontato tante battaglie, ha detto tante cose, la maggior parte sensate, altre meno, ma con una vitalità e una fierezza che oggi le sono negate per sempre. Quando muore una persona, il pensiero viene rivolto quasi sempre a chi sopravvive. Un pensiero che assume le forme della consolazione, o del cordoglio. Ma dovremmo più spesso pensare alla immane disgrazia che subisce il defunto, alla nera ed eterna eclisse che lo avvolge: niente più abbraccio di una persona cara, niente più progetti, niente più lavoro, niente più profumo di un fiore, niente più brezza del mare, niente più tramonti d'estate, niente di niente. La vita è un dono. Forse non lo è il tumore in senso stretto (anche se su quella frase ti hanno equivocato, cara Nadia, noi l'abbiamo capito cosa intendevi), ma la vita sì: il prezzo da pagare per quel dono però è il più salato possibile. Un giorno, sul tavolo verde del destino, perderemo tutto e non ci sarà concessa un'altra mano per recuperare.

Il cinema può aiutarci ad afferrare in minima parte il mistero della morte. Esorcizzarla, è impossibile. Proprio ultimamente ho visto il film Voglia di tenerezza, nel quale questa ragazza, anche parecchio odiosa e testarda, scopre all'improvviso di avere un cancro incurabile e di avere poco tempo ormai davanti a sé. Tutte le decisioni della sua vita che fino ad allora ci erano apparse stupide ed incomprensibili - il matrimonio con un uomo privo di spina dorsale, o la rottura dei rapporti con la madre apprensiva (l'immensa Shirley MacLaine) - assumono un'altra luce, diventano espressioni della nostra missione in questa vita. Fare e disfare, creare scompiglio, mettere in crisi, fare disastri, c'è dignità in ogni cosa che si fa e dobbiamo sporcarci le mani quanto più possibile. Aurora non è una persona che ha sbagliato, ma una persona che ha vissuto. Quando Aurora guarda la madre pochi istanti prima della sua estrema ora, il suo sguardo è pieno di rimpianto non per le cazzate che ha fatto, ma per quelle che non potrà più fare. Così penso che sia per tutti.

Ieri invece vedevo Moulin Rouge!, un turbinio di colori e suoni come sa esserlo solo la vita. Anche qui la parabola della protagonista, la donna di malaffare Satine, condannata dalla tubercolosi a una fine inevitabile e rapida, mi ha rievocato il destino di Nadia Toffa. Una donna di istinti, di appetiti, di ambizioni, la rossa Satine: non una donna di alte e donchisciottesche battaglie come Nadia, ma come Nadia mossa dalla medesima energia. Ashley Wilkes in Via col vento l'avrebbe definita ansia di vivere. Satine avrebbe l'opportunità di riscattare la sua vita di lussuria quando si innamora di uno scrittore, ma la morte, la Grande Puttana, la falcia lasciando i disegni della giovane donna incompiuti. Le speranze stroncate di Satine diventano materiale per scrittori, merce per il cinematografo. La morte è in fondo un abusato espediente narrativo di cui ci serviamo per riempire un vuoto o per provare a spiegarlo. Ma quando vediamo una bara - bianca - al centro di una Chiesa, e in essa vediamo riflessa la nostra condizione, il nostro baratro, la nostra condanna, tutto appare così inadeguato.

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