Al penultimo giorno, già si tirano le somme sul concorso (si tifano Serpentario di Carlos Conceiçao ai lungometraggi, e Galatée à l'infini del collettivo di registe spagnole ai cortometraggi). Non ci si priva però della visione dei grandi classici restaurati nelle sezioni collaterali. E' infatti giunto il momento de La luna del maestro Bertolucci.
Come spesso avveniva in quegli anni, Bertolucci realizza un film nato per far discutere e suscitare polemica - e in questo caso anche sopravvivere straordinariamente alla prova del tempo grazie a una delle sue regie più virtuose e parossistiche. Si potrebbe tranquillamente accusare di gratuità almeno il 60% dei movimenti di camera, tutte sottolineature - molto liriche, e per l'appunto si parla anche di teatro di lirica - ed enfatizzazioni magniloquenti; e la fotografia di Storaro, stupenda, appare coerentemente (!) eccessiva. Ma è proprio questa la grandezza del film, ritrovare in un contesto assolutamente contemporaneo agli anni '70 (con tutte le disillusioni del caso, da quelle giovanili a quelle politiche) un soggetto che sia talmente atavico e primordiale da meritarsi una cornice epica e monumentale. Un film intimo fatto di dolly spericolati, paesaggi strepitosi, abitazioni sorprendenti, musiche invadenti e atmosfere oniriche anche nei momenti più insospettabili. Ipnotico, appassionante e infuocato, un'opera piena di difetti - gli eccessi di scrittura, soprattutto - ma talmente ammaliante da far accettare molto (troppo?) pur di godersi il viaggio.
Voto: 7/10
Arriva poi uno dei momenti più attesi del Sicilia Queer IX, cioè la proiezione di Golem del regista palermitano Etrio Fidora. E qui mi ritrovo costretto ad assumermi la responsabilità della prima persona: Etrio è un amico e sono stato testimone - fin dalla fase di scrittura, a distanza e saltuariamente - della gestazione di questo piccolo film realizzato al termine di un anno di studi alla FAMU di Praga da parte del regista. Il risultato comunque è, a prescindere da qualsiasi conoscenza o amicizia, un lavoro intenso e interessantissimo. Tutt'altro che impeccabile, ma pieno di spunti che invitano a riflettere sul voyeurismo e sul desiderio, nonché sul corpo, nell'era postmediale dei social network. Il protagonista, vessato dai suoi coetanei e per la maggior parte del tempo chiuso in bagno a fissarsi allo specchio e a torturare la propria pelle e la propria immagine riflessa (con un rasoio, con della crema, con le unghie), cerca un modo per evadere dalla prigione di un formato cinematografico ristretto che, alla maniera dolaniana - per riferirsi all'esempio più eclatante del cinema degli ultimi anni -, si apre nella dimensione onirica e poi si richiude, stretto e implacabile, sui momenti reali. Però in questo caso il formato non è una licenza poetica, ma è significativo del modo in cui percepiamo da spettatori e da esseri umani il Reale, fra prigione quotidiana dei sensi e sfogo dei propri molteplici desideri tramite stilizzazioni e idealizzazioni. Il tutto è confermato dal ricorso anche al formato "telefonino", in cui lo schermo si stringe ulteriormente e porta in primo piano storie di Instagram o semplici monitor di cellulare. Quello tra i formati, in Golem, è un cortocircuito che genera (letteralmente) mostri, fino all'esplosione finale. Benché si percepisca l'entusiasmo accademico, la semplicità di certi accorgimenti registici e qualche vezzo forse forse di troppo (lo strano liquido che scorre di tanto in tanto sulle pareti del film, chiaro riferimento a qualcosa che non anticipiamo), Golem è sinceramente un piccolo grande esperimento inquietante che ci mette di fronte a quello che dovrebbe darci ogni film che si rispetti: un'esperienza.
Voto: 6/10
Grossa delusione è invece il lungometraggio a seguire, Rafiki di Wanuri Kahiu, che cerca di farsi forte di un'ambientazione servita su un piatto d'argento (il Kenya dei palazzoni, delle periferie e verrebbe quasi da dire dei ghetti) per propinare un racconto di formazione ordinario, addirittura forse più patinato del solito. Mentre la camera stringe sui primi piani nella speranza di trovare un'improbabile connessione empatica con le protagoniste - meccanismi soliti, accademici, già scritti, già visti - le musiche si innalzano telefonate e gli sviluppi narrativi giungono puntualmente a soddisfare le aspettative dello spettatore - ivi compreso il salto temporale finale, preso direttamente dal manuale. Come detto in altre circostanze, qui non si sindaca sulle intenzioni, nobilissime in effetti. Ma sulla forma, e sull'insopportabile dare per scontato le cose della sceneggiatura, e sull'anonimato dell'intera operazione.
Voto: 4/10
Si conclude con una sorpresa. L'ultimo film del concorso, Lembro mais dos corvos di Gustavo Vinagre, è un esempio di ritrattistica cinematografica come se ne vedono pochi. Il primo esempio che viene in mente - ma gli obbiettivi sono proprio altri, non si parli qui di attinenza tematica - è la Fengming di Wang Bing, intervista di tre ore fissa sul volto di un'anziana attivista dei diritti civili in Cina che si ritrova a raccontare 40 anni della sua vita se non di più, ricostruendo tramite le sue parole universi, spazi e situazioni improvvisamente percepibili. Simile operazione "astratta", sfida al limite del campo visivo, è questo documentario incentrato sulla vita di Julia Katherine, attrice/cinefila/transessuale che vive a Sao Paulo e che racconta più di un trauma vissuto in giovinezza, nonché tantissime delle esperienze che la portano a definire le avventure di Joe di Nymp()maniac di Lars von Trier bazzecole. A parte l'evidente carisma della parlantina della donna, che rievoca proprio come Fengming situazioni articolate ma ben visibili con la sola parola, il grande interesse di Vinagre è chiarire il senso della ritrattistica al Cinema, o anche del formato intervista. La camera si dimena fra primi piani e campi larghi, come ad inserire e ad escludere alternativamente la figura di Julia nello/dallo spazio circostante. Intanto però lei interagisce con oggetti e elementi che la circondano, fino a dare loro un senso che prima non era intuibile. La vita di Julia va (ri)costruendosi sugli oggetti, sugli spazi e sugli angoli di questo piccolo salottino in cui ci sediamo anche noi ad ascoltarla, ed è difficile distogliere l'attenzione quando si rivela una tale capacità di riempire di senso e di pathos un semplice gesto o un semplice movimento di camera, tra l'altro umilissima e sempre incerta sulla rappresentabilità o meno di quanto Julia racconta. E' proprio alla luce di questa coerenza estrema, per i primi 70 minuti di film, che poi gli ultimi 10 minuti appaiono raggelanti, stupendi e quasi commoventi. Il film più toccante del Sicilia Queer IX.
Voto: 7/10
A domani per la premiazione!
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