Quasi al giro di boia, questa nona edizione del Sicilia Queer che tra alti e bassi riesce a riservare sorprese non trascurabili di giorno in giorno. E forse proprio il day 5 è la giornata delle visioni più felici, nel segno dell'ottimo o semplicemente dell'onesto Cinema.
Anche perché si parte col botto con Serpentario, capolavoro di Carlos Conceiçao, che già l'anno scorso con Coelho Mau aveva dimostrato un'ottima capacità nella gestione di un ritmo ipnotico e accattivante attraverso la "semplice" gestione dei campi, dei tempi e dei silenzi.
Serpentario è una sorta di film distopico che vede protagonista il giovane Joao Arrais (giovane attore tutt'altro che principiante, già abile nel Coelho Mau su citato e presente anche nei Misteri di Lisbona di Ruiz), nei panni di un ragazzo alla ricerca di sua madre in una terra africana post-apocalittica, fatta di deserti e di città fantasma. Prima di addentrarci nel vagabondaggio del protagonista, che occupa tutta la seconda parte del film, Conceiçao ci trascina in un trip lirico e cosmico nel mondo e nel contemporaneo, come se ci trovassimo di fronte uno sguardo alieno che esplora la Storia e l'Essere Umano - quasi ritraducendo il Koyanisqaatsi di Godfrey Reggio. Prima coinvolgendo direttamente il protagonista, e decontestualizzandolo storicamente - il gruppo di africani che ne notano lo strano abbigliamento e che ne parlano come di una strana creatura sbucata fuori dalle acque buie dell'Oceano o addirittura dai confini del Mondo - e poi quasi dimenticandosi del soggetto narrato e deragliando fantasticamente fra immagini dell'universo, arditi sprazzi sci-fi e montaggi frenetici di guerra, sesso e storia. Il dramma umano si consuma nel formato del film, che si mantiene 16 mm ma trascende la materialità del gesto filmico per ricondursi alla fissità dei paesaggi e al silenzio dei momenti in cui Arrais percorre gli interni di case abbandonate e si perde in ambienti chiusi di cui smettiamo di capire le prospettive, facendo perdere anche noi. Fino a un finale da brividi che mette sia il protagonista che lo spettatore di fronte a una catarsi da incubo, misteriosa e inquietante. Un capolavoro.
Voto: 8/10
Viene poi invece il turno de L'amour debout, che a giudicare dal web è stato massacrato un po' ovunque un po' da tutti perché presunto balbettamento di certo cinema francese di fine secolo (specialmente, Eric Rohmer). Premettendo che i cineasti rohmeriani-wannabe vengono spesso additati senza alcuna ragione, o magari per il solo fatto di voler attingere a uno stile di regia assoluto e implacabile e che elimina fortunatamente spettacolo e romanticismi - uno stile talmente "generale" che non può essere davvero prerogativa dei soliti 2 nomi ultra-citati - si può sostenere che il film di Michael Dacheux è un film parzialmente riuscito, un po' fuori fuoco nella gestione di alcuni personaggi ma decisamente più in gamba nell'inseguirne altri. Il titolo, L'amour debout, l' "amore in piedi" letteralmente, sembrerebbe fare semplicemente riferimento all'unica scena di sesso del film, che per il resto mantiene un pudore esemplare e delicato. In realtà il titolo potrebbe evocare, in un certo senso, l'incertezza del sentimento e del desiderio, o ancora l'impossibilità di comprenderlo e di accettarlo. Sempre con la leggerezza necessaria per prestare attenzione a piccoli gesti e banalità, Michael Dacheux cerca di infondere al film un ritmo essenziale e qualche ammiccamento cinefilo gustoso - la presenza di Françoise Lebrun - azzeccando almeno un paio di sequenze super (il segmento primaverile della casa in campagna, oppure la crisi di sonnambulismo di Bastien) e assecondando i comportamenti dei suoi personaggi, tentando di non aprire e chiudere alcun discorso ma di rimanere lì, sospeso, tra la commedia inoffensiva e la semplicità della malinconia. Niente di eclatante né di originale, ma certo privo della furbizia che gli imputano.
Voto: 6/10
Per la sezione Eterotopie si visiona la trilogia siriana di Ammar al-Beik, regista indipendente che, lontano dalla volgarità pornografica di autori conterranei come Feras Fayyad (Last Men in Aleppo), cerca di rielaborare il lutto di una guerra estenuante e implacabile con l'umanità e la bellezza. Senza mai risultare stucchevole, sconvolto quando necessario e pieno di pietas quando il soggetto lo richiede, Ammar al-Beik mette in scena a partire da The Sun's Incubator la suggestione di una connessione fra eventi apparentemente sconnessi: la nascita di sua figlia Sofia e la nascita di un movimento rivoluzionario anti-regime (siamo nel 2011), nonché lo shock per la tragedia di cronaca nera di un giovane tredicenne massacrato. Ma ciò che è davvero potente in questo cortometraggio è il silenzio domestico rotto costantemente dal rumore, dalla televisione, dalla Storia che prosegue e inghiotte esseri umani senza pietà. Gli ultimi minuti di corto, immersi in un ronzio minaccioso, sono grande Cinema.
Voto: 6,5/10
Sulla stessa linea d'onda, ma con un incedere quasi più teorico e smaliziato, La dolce Siria, forse il suo film più celebre. Le "connessioni fra le cose" si fanno qui più fondamentali e sostanziali, fautrici di un montaggio che salta da un momento a un altro senza alcuna soluzione di continuità se non quella del rumore degli aerei, dei missili e delle bombe. E mentre la vista dei nipotini che giocano con la Bolex è già manifesto simbolico del Cinema che resiste all'Apocalisse, il montaggio trattiene filmati girati direttamente dal regista e filmati di repertorio come in un reportage "collagistico" che cerca paralleli addirittura con I Clown di Fellini per trovare famiglia e umanità anche nella distanza, nello straniero, nel Cinema mondiale.
Voto: 6,5/10
Con Kaleidoscope c'è ancora più consapevolezza del fatto che per raccontare la Siria si può ricorrer ad allusioni, frammenti e transmedialità, piuttosto che alla messa in scena diretta della violenza vera. Un principio di astrazione che qui si traduce in un lungo pianosequenza nella camera da letto di un fotografo e della sua compagna, pronti a fare l'amore ma interrotti sia da telefonate dei colleghi del protagonista, fotografo di guerra, sia da discorsi fra loro due sulla più o meno responsabilità di lei nel non interessarsi direttamente alle faccende politiche. Tra piccoli ammiccamenti (il manifesto di Maria Braun di Fassbinder appeso alla parete) e uno spiraglio finale degno di Kiarostami, un film che conferma il set di opere di Ammar al-Beik qui presentate come elementi singoli di un organismo più grande e complesso, che Donatella della Ratta identifica nella volontà del regista di non dare veri e propri inizio e fine ai suoi lavori, ma di lasciare che siano improvvise e violente finestre su una realtà che finalmente possiamo capire.
Voto: 6/10
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