Nuovo giorno nuova corsa. L'1 giugno si inizia dalla seconda parte della selezione del Queer Short, un po' meno convincente della prima.
Christopher Manning, già passato dal Sicilia Queer con il dimenticabile Jamie, passa prima dal London Film Festival e poi arriva sullo schermo del cinema De Seta con un breve film insignificante e praticamente nullo, che si fa forte di un linguaggio apparentemente essenziale - ma la musica, il primo piano, il chiaroscuro ad effetto: a questi non può rinunciare - e acchiappaconsensi. E con personaggi inesistenti.
Voto: 3,5/10
E anche il secondo corto non è dei più felici. Diretto da Adriana Barbosa e Thiago Zanato, La flaca tenta la strada della metafora che diventa però troppo scoperta, poiché cerca di rileggere il "diverso", il "queer", nella celebrazione rituale della Santa Muerte, e ce lo spiega con un tempestivo commento fuoricampo come se non potessimo arrivarci da soli. Siamo in Sud America, e la protagonista è una transgender che balla per la misteriosa divinità scheletrica durante una festa che organizza per rispettare una sorta di fioretto fatto proprio con la Santa Muerte. Ma non è al sicuro. Non c'è nulla che indichi la presenza di un regista (o di due!) dietro la macchina da presa.
Voto: 4/10
Between Us Two di Wei Keong Tan sembra mostrare traumi profondi e irraccontabili con la brevità e la delicatezza dell'haiku, con un'animazione molto oscura che fa luce su anfratti segreti dell'anima. Ma la brevità non aiuta a penetrare nella foresta di segni, benché si percepisca a pieno il dramma. Dovrebbe bastare?
Voto: 5/10
Il Framing Agnes di Chase Joint e Kristen Schilt si aggiudica il titolo di peggior film del concorso. Per quanto si possano apprezzare le intenzioni di un'operazione metacinamatografica - per arrivare a stupirci ce ne vuole comunque, con questi presupposti - il film appare come un'esibizione logorroica di fumo negli occhi atta a mascherare una pallida pochezza di fondo, che la musica extradiegetica arriva a ricordarci puntualmente. Convinto di dover giocare con le identità, ma senza un reale motivo, il corto di Joint e Schilt soffre di un messaggio troppo ingombrante e didascalico; giusto, sacrosanto, ma dimentico che un film non si gira con le sole buone intenzioni.
Voto: 3/10
Assolutamente tra i migliori in concorso, Azul Vazante di Julia Alqueres è un misterioso "capriccio", tragico e sconvolgente, in cui la storia della malattia di una donna trans e della madre che la assiste in quelli che sembrano i suoi ultimi momenti diventa di dominio pubblico, esibito senza privacy nella piazza di una cattedrale gotica, o su una strada, quasi come in una "recita capovolta" alla Bunuel. L'effetto è straniante, tutto affidato a immagini che giocano continuamente con la profondità di campo, a illustrare gli estremi di una "messa in berlina" del dramma intimo di due personaggi.
Voto: 6/10
Dalla Bulgaria, un corto che parte citando Kieslowski (o Tarkovskij, a scelta libera dello spettatore) e poi diventa una sorta di versione drammatica di Bridget Jones, che ci fa sussultare laddove nel film con la Zellweger avremmo riso: una donna single è invitata a un matrimonio, e vive la festa con un broncio che non finisce più e con un'incapacità totale di adattarsi al mondo che la circonda. Solo le brevi parentesi-sigaretta con una cameriera sembrano ridestarla dal malessere. La cura per la protagonista - gesti, sguardi, riflessi in misteriosi grandissimi specchi - è innegabile; l'intento del corto ha pretese un po' scontate ma per quello che vuole essere può dirsi ben riuscito.
Voto: 5/10
Il trash ci salverà. Popo Fan, dalla Cina, racconta il graduale avvicinamento di due anime solitarie, in un mondo un po' incomprensibile un po' folle. Mentre gli sguardi e le curiosità dei due protagonisti crescono di pari passo col minutaggio, i segmenti di follia si fanno sempre più frequenti (una scena che ha a che fare con la pipì di uno dei due protagonisti è un'esilarante goliardia gratuita) così come il citazionismo (Wong Kar-wai!) supera i confini di qualsiasi buon gusto. E per fortuna!
Voto: 5,5/10
Conclusi i cortometraggi, si rientra subito in sala per il bel lungometraggio di Marie Losier, The Ballad of Genesis and Mary Jaye, incentrato su quello che fu cantante dei leggendari Throbbling Gristle e poi degli Psychic TV. Benché consapevole dei benifici ottenibili dal suonare musica sperimentale - all'insegna dell'improvvisazione - Genesis P-Orridge trova consolazione soprattutto nel rapporto di amore assoluto con Lady Jaye, musicista e compagna devota, un rapporto talmente estremo da spingersi fino al progetto Pandroginia, un progetto dagli intenti anche artistici per il quale i/le due si sarebbero sottoposti/e a svariati interventi chirurgici per assomigliarsi quanto più possibile. Tra follia e devozione, e l'inconfondibile stile di Marie Losier che tiene d'occhio le vecchie avanguardie statunitensi anni '50-'60 allo scopo di rileggerle in chiave ludica e profana - ma non per questo tenendo a distanza momenti di pura commozione - un breve film che immerge in un universo altro e in un rapporto profondissimo tramite filmati di repertorio, delicate voci fuoricampo e un'attenzione post-produttiva che tantissimi filmmakers contemporanei, amatoriali e non, dovrebbero prendere a esempio.
Voto: 6,5/10
Il corto successivo, firmato Benjamin Crotty, Le Discours d’acceptation glorieux de Nicolas Chauvin, ci fa rifare capolino in un immaginario cinefilo - quello del regista - irriverente e spiritoso, divertente e pieno di riferimenti sempre opportunamente (de)contestualizzati a storia, cinema e icone del contemporaneo. Il "capriccio psicostorico" del corto porta in scena un protagonista superbo e fiero, pansessuale e, soprattutto, convinto di esistere, e inconsapevole di essere soltanto un baluardo etico (sciovinista, appunto) sfruttato da Storia e propaganda. Una creatura di pura immaginazione, il cui ruolo effettivo ha l'inconsistenza del nonsense e del concetto astratto. Il corto è divertentissimo e pieno di attenzione per il ritmo, fatto di stacchi e contrappunti, camera a mano e ambientazioni da teatro dell'assurdo. La montatrice, Ael Dallier Vega, è trasversale a tanto Cinema contemporaneo (Fort Buchanan, Atlantique, Cassandro the Exotico! di Marie Losier), e qui dimostra un'abilità da tenere d'occhio, anche più che in altri esemplari più celebrati - come appunto il film di Mati Diop Premio della Giuria a Cannes 2019.
Voto: 6/10
Delude invece - ma solo il sottoscritto - Diamantino di Gabriel Abrantes, trionfo in vari festival internazionali durante il 2018 e giunto al Sicilia Queer dove, nel 2017, si era dedicata un'intera retrospettiva al regista e alla sua folta schiera di cortometraggi. Il film è una satira - un po' facilona - di tante ossessioni del contemporaneo, dal fanatismo calcistico al fanatismo politico, dai meme sui social all'immigrazione, e vuole risultare spiritoso mettendo in campo una serie di trovate più o meno efficaci - i cagnolini giganti sul campo fanno effettivamente ridere - ripetendole allo sfinimento, dimenticandosi di ritmo di scene e gag, e usando il nonsense come alibi per non spingersi mai oltre il semplice ammiccamento. Alla fine viene tirato in ballo un po' tutto un po' a caso, in una cornice di non-regia mossa fastidiosa e di effetti speciali volutamente pacchiani - ma non per questo affascinanti. Per concludere poi il tutto con un'ultima mezz'ora - quella di troppo rispetto ai corti e i medi del regista - in cui il "dramma" assurdo, con i suoi toni un attimo più trattenuti e sommessi, smette di divertire, e il tentativo in corner di risultare queer (con la deformazione del petto del protagonista) diventa il modo per risultare semplicemente approssimativi su tutto.
Voto: 4,5/10
Decisamente più interessante, Seuls les pirates di Gael Lépingle è un esperimento silenzioso e umile che lavora cautamente con ritmi, personaggi e atmosfere. Al momento risulta la scelta più originale della selezione di questo Sicilia Queer: le anomalie visive, che rendono il dramma sociale una fiaba contemporanea, sono date da prospettive impreviste, musiche perfettamente calibrate e una cura drammatica non indifferente, che recupera la voglia di scoprire personaggi e luoghi. Da confrontare con To Live To Sing di Johnny Ma, alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2019: anche lì, uno smantellamento e un piccolo teatro destinato a scomparire. Ma se nel film di Johnny Ma era un teatro portatore di vecchie tradizioni, qui il teatro è lo sfogo quasi solipsistico del singolo protagonista, la cui voce strozzata da un intervento alla laringe concretizza al meglio la sua incapacità di comunicare col mondo che lo circonda.
Voto: 6/10
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