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Cannes 72 - Lipogrammi coatti
di EightAndHalf
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Il primo vero problema sono le tastiere.

 

La sala stampa del festival di Cannes, situata al primo piano del Palais du Festival, è una grande stanza orizzontale, tavoloni lunghi e bianchi in 4 file, monitor neri prismatici opachi e, in sviluppo parallelo alla sala, una terrazza. È una terrazza abbastanza bassa, ma vanta una vista esclusiva sul red carpet a destra, e un'occhiata dettagliata sulla Croisette al centro e a sinistra. Certamente una pacchia a cui è possibile abituarsi. 

 

Ma il vero problema sono le tastiere. No, in realtà non è un problema assoluto, ma lo è quantomeno per un italiano, leone da tastiera e rapidissimo nella scrittura. Nella sala stampa di Cannes le tastiere sono di due tipi: quelle francesi e quelle americane. Non mi dilungherò eccessivamente sulle differenze varie ed eventuali, basti sapere che il nocciolo della questione sta nella presenza o meno delle vocali accentate. È a dir poco frustrante costringersi a un copia e incolla ripetuto e sfiancante delle vocali opportune; è frustrante dover interrompere in modo così violento il flusso dei propri pensieri. Lo è anche in questo momento. Ci vorrebbe la creatività lipogrammatica di un Georges Perec, per far sparire dall'intero testo non la 'e', ma tutte le vocali con l'accento. Ma questa creatività così cerebrale manca al sottoscritto. Come non manca invece la pigrizia: ci vuole ben altro per convincermi a portare con me il computer portatile italianissimo nei prossimi 15 giorni. Qualunque barlume di buona volontà viene ammutolito dal pensiero che non ci sarà tempo, perché le giornate saranno una corsa  continua all'ingresso in sala, ad accaparrarsi un  piccolo posticino per poter visionare i tanti film interessanti in programmazione, quelli cui si sono dedicate le visioni dell'ultimo mese di accanita cinefilia casalinga, per una dovuta preparazione.

 

Dal Tarantino di Once Upon a Time...In Hollywood, che porterà a file da brividi, al Kechiche di Mektoub My Love: Intermezzo, che promette una nuova immersione (di 4 spero lunghissime ore) in umori e turbamenti giovanili. Dal Lav Diaz di Ang Hupa, quattro ore e quaranta di pura oscurità (rimando alla trama ufficiale per capire meglio) al Malick storico di A Hidden Life che tanto sta facendo attendere gli amanti della narratività per il presunto ritorno del regista al cinema lineare. Chi mi conosce sa perché ho segnalato i 4 titoli di durata più lunga - può chiamarsi feticismo, quello per i film di lunga durata?, longofilmomania?, giganticinefilia? - e sa che l'amore per Malick è soprattutto per quella linearità narrativa perduta, infranta nel flusso di soli, luci, sguardi e tormenti. Chi non mi conosce invece cosa penserà? Che questo individuo si fa frenare l'entusiasmo da una tastiera straniera? O da una promessa di narrazione lineare? Sarebbe un pensiero comprensibile ma inesatto. Viva la narrazione, viva i coups de theatre di Bong Joon-ho (e i plot twist che lo stesso regista ha chiesto ai giornalisti di non spoilerare in Parasite), viva l'essenza cronachistica dei Dardenne (tornerà Le jeune Ahmed ai trionfi de L'Enfant? Forse Le fils sarebbe chiedere troppo), viva il racconto dei tempi morti di Jarmusch (quanti ce ne saranno in The Dead Don't Die?). 

 

E viva anche le tastiere straniere, suvvia, ché dopotutto anche in una tastiera italiana è complicato scrivere il cognome di Jukka-Pekka Valkeapää, presente alla Quinzaine des Réalisateurs. 

 

Arrivederci su queste pagine (su queste tastiere?) per commenti si spera esaustivi, non troppo lunghi e soprattutto con meno accenti possibile.

 

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