Feff up your life, il motto che ci ha accompagnato lungo un'edizione – e dentro la splendida Udine, nelle piazze, nei vicoli, nei locali, in ogni angolo e in ogni pozzanghera in giorni di pioggia anche incessante – come al solito tracimante vitalità ed entusiasmo, stimoli e coinvolgimento, sorprese e delusioni.
E Cinema.
Asiatico. Un viaggio meraviglioso che conduce in realtà fra loro diversissime – ed è questo il concetto più difficile da far capire al diffidente o al curioso di turno –, come passare da un mondo all'altro, ognuno con il proprio carico di storia, politica, condizione sociale, prospettive, culture, tradizioni, sogni, esigenze.
Un'avventura preziosissima e, parimenti, faticosa.
[Proprio dura la vita del cinefilo ebbro dell'infinita magia del buio della sala, eh]
E sono pure riuscito a ritagliarmi del tempo per visitare per bene la città, scattare un po' di foto, osservare cose e persone e pietanze (che osservavano me), assistere ad un paio di incontri con membri di cast e assorbire raggi di sole durante il contest di cosplayer in Piazza San Giacomo (uno degli innumerevoli eventi correlati e disseminati tra teatro e luoghi udinesi).
In pratica, degli oblò spaziotemporali dall'interno della sempre spettacolarmente folle esperienza fareastfilmfestivaliera.
Che esige attenzione e dedizione alla causa, che invita alla schizofrenica partecipazione collettiva fatta di riti ricorrenti: le code, le facce, le pause, i gadget e i dvd esposti (impossibile resistere!), gli invitati con i loro look improbabili e i saluti sentiti; e i volenterosi volontari, i colori, i discorsi captati tra la gente, i millemila caffè e qualche calice di vino, gli sguardi d'intesa, gli applausi, meritati e non, gli accrediti esibiti orgogliosamente, i pasti veloci e quelli voraci, l'attitudine vulcanica di Sabrina Baracetti mentre introduce attori, registi, produttori, sé stessa.
E l'ombrello nascosto nello zaino perché dentro non te lo fanno portare.
Maledetta pioggia.
Benedetti film.
42.
Che sì, è il doppio di 21, come l'edizione del FEFF; ed è, come noto, la risposta (alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto). Sono i film che ho visto. Perdinci, tanti (lo è senz'altro per me).
Per farvela breve, come d'abitudine, li espongo di seguito con annesso breve commento e insindacabile voto, in ordine cronologico. [ancor più in breve. I migliori del concorso: Three Husbands; When Love Blossoms; A First Farewell; The Odd Family: Zombie on Sale. I peggiori: More Than Blue; JK Rock; Reside; Rampant]
A proposito di ospiti saliti sul palco. Da segnalare: la bellissima attrice cinese Yao Chen (definita, tra le altre cose “superdiva”, “icona fashion”, “filantropa” … “topa” lo aggiungo io), l'enigmatica Chloe Mayaan, la meravigliosa e solare Crisel Consunji con le sue parole sulla libertà di pensiero e sul superare le frontiere (ehm …) e infine il simpaticissimo Hideki Takeuchi che non ha avuto bisogno del traduttore umano in quanto munito di aggeggio tecnologico tipo Star Trek (che sagoma!).
Ah, e il leggendario Anthony Wong. Che ho incrociato per le vie di Udine, in centro, con famiglia appresso. Ho avuto la tentazione di chiedergli una foto ma, vedendolo con la sigaretta in bocca e l'aria da duro ho temuto che potesse prendermi a pistolettate.
Tragedia mvaldemariana sfiorata.
Per approfondimenti, sin dal primo giorno del festival, gli inviati sul campo, Fabio/Alan e Daniele/Supadany – coi quali ho condiviso visioni e osservazioni – vi hanno costantemente aggiornato, anche sui premi (che non mi vedono per nulla d'accordo, ma tant'è) con recensioni e post. Leggete, prego.
Segnalo, infine, il pezzo che Hollywood Reporter ha dedicato al FEFF, rendendone i giusti meriti (Nell'articolo, peraltro, si manifestano preoccupazioni per la tenuta del Festival, a causa di tagli continui operati da Enti locali e nazionali, sulla base di quanto dichiarato dagli stessi organizzatori).
In fondo, testimonianze di giorni felici e caotici.
1 - KONPAKU
Dal Singapore un horror low budget. E si vede. Una sorta de L'esorcista in salsa mussulmana. Ogni religione ha i propri demoni e i propri riti. Il tema è ricorrente e sentito: il protagonista non pratica né prega eppure ne è condizionato, tant'è che non concepisce come possa sposare la donna di cui s'innamora se ella – atea, giapponese – prima non acconsente a convertirsi. Ambientazione e tematiche, tra le quali l'accettazione del diverso e l'importanza del proprio credo, così come le didascalie che ammoniscono sul fatto che la storia sia ispirata a eventi reali (vabbè, ogni mondo è paese), non sollevano Konpaku dalla mediocrità del girato, ingenuo e convenzionale nell'aderire ai canoni del genere.
Voto: 4
2 - INNOCENT WITNESS
Non la vittima, non l'avvocato dell'accusa o quello della difesa. No, il focus è la testimone oculare di un omicidio che forse è un suicidio. Una testimone “innocente”. Liceale affetta da Asperger, Jiwoo dovrà difendere non solo la sua testimonianza ma soprattutto la sua natura. Il film sudcoreano si concentra su Soon-Ho, l'avvocato incaricato di difendere la domestica imputata e sul suo rapporto con la ragazzina, da lui avvicinata tra diffidenze, curiosità e incomprensioni. Certo, il genere – un procedural thriller – e la presenza di una persona affetta da autismo, non sembrano poter lasciare molti margini, ma lo script è solido e convincente nel tratteggiare i due personaggi principali e il regista, Lee Han (Punch), ne inscena le dinamiche con rigore apprezzabile aiutato dalla buona interpretazione degli attori. Laddove Innocent Witness scade è nel finale: la banale risoluzione del caso con una scena in tribunale di grosso effetto drammaturgico ma del tutto implausibile e indisponente (ovvero, si poteva tranquillamente arrivare alle stesse conclusioni senza martirii né paroloni enfatici ridicoli). I buoni sentimenti trionfano ma non è il punto.
Voto: 6,5
3 - MORE THAN BLUE
Lacrima-movie taiwanese così lacrimevole, ricattatorio, eccessivo, da spegnere ogni speranza. Di innamorati e malattie terminali, di solitudini che convivono e sacrifici per amore, di dichiarazioni mai fatte e segreti scoperti mai rivelati, di canzoncine pop e tristezza diffusa su faccini belli e sfortunati di divetti, di scene sempre più melense e improponibili oltre che di indubbio gusto. Così, è troppo. Oltretutto, quello che viene fatto spacciare per atto d'amore estremo in verità potrebbe benissimo essere accusato d'essere ennesima dimostrazione di paternalismo. Te lo permetto io, prego. Ma inutile fare alcuna considerazione. Due palle. Si legge di successo clamoroso al box office casalingo. Non l'avrei mai detto. Sola presenza di luce Annie Chen (fa la stronza, ché una ci vuole sempre), che gnocca.
Voto: 2
4 - DOOR LOCK
Ancora Corea del Sud. Ancora un thriller. Adattamento di Bed Time di Jaime Balagueró, in Door Lock l'insicurezza tra le mura di casa (un monolocale in un grosso edificio, con un codice di sicurezza per aprirne la porta) riflette quella del quotidiano, tra insidie metropolitane e sul luogo di lavoro. Dalle (ripetute) molestie alla vera e propria caccia all'uomo – anzi, alla donna –, anche da parte delle istituzioni, il passo è breve e sempre più progressivamente angosciante. Nulla di nuovo sotto il sole, però il racconto è coeso e sufficientemente strutturato nel perseguire i suoi intenti, e qualcosa lo affronta pure in tema di donne e lavoro, isolamento e paure urbane. Brava e intensa la protagonista Kong Hyo-jin, presente in sala.
Voto: 6
[Kong Hyo-jin]
5 - TWO SISTERS
Due sorelle. Un trauma infantile. Una oggi è scrittrice di successo, l'altra è rinchiusa in un istituto psichiatrico, che sta per lasciare per un periodo di prova nel mondo fuori. Questi gli elementi (sì, comuni all'omonimo cult di Kim Ji-woon del 2003 di cui è un rifacimento) per l'horror psicologico made in Malaysia. Il ritorno nella casa di famiglia – luogo dell'evento tragico rimasto ancora oscuro – dà modo al regista, James Lee, esponente di spicco della Malaysian New Wave, di sfoderare l'intuibile repertorio di rumori sospetti, porte da non aprire, presenze inquietanti, incubi tormentosi, verità apparenti, azioni disturbanti, con senso di angoscia crescente e orrori pronti a rivelarsi fino al ribaltamento di ruoli e all'inconfessabile realtà delle cose. Il contesto circoscritto alla villa permette evidentemente al regista di usare il budget limitato: il suo è un buon lavoro, diretto ed efficace nell'instillare dosi d'inquietudine crescenti. Tutto però troppo prevedibile e già visto.
Voto: 5,5
[le ultime due a destra, Emily Lim e Lim Mei Fen]
[sempre loro]
6 - PEGASUS
Rally made in Cina. Prima parte in forma di (risaputa) commedia con picchi di dramma e dosi di umorismo anche demenziale nonché toni di familismo per quella che è una classica storia di riscatto (il protagonista, celebre e vincente pilota di auto da corsa, è fermo da cinque anni per aver preso parte a una gara illegale in un parcheggio multipiano); scorciatoie, umiliazioni ed ostacoli sono i preparativi per la costruzione della macchina con cui fare il ritorno sulle scene che è anche ricostruzione identitaria (al passato da sbruffone incosciente si contrappongono le responsabilità del presente). Il preludio allo scatenamento dell'azione. A rotta di collo. Su un percorso che definire folle è riduttivo (una lunghissima serpentina senza protezione che scala una montagna; siamo nel deserto di Bayanbulak, nello Xinjiang – vedi A First Farewell sotto al n. 34). Sequenze adrenaliniche spettacolari (regia, montaggio e montaggio sonoro sugli scudi), finale e post-finale che cercano a tutti i costi l'effetto sorpresa.
Voto: 6
7 - PROMISE OF THE FLESH
Inserito all'interno della retrospettiva “I choose Evil”, ideata per celebrare i cento anni del cinema coreano e che mette in rassegna opere realizzate durante il periodo di dittatura militare tra il 1961 e il 1993, Promise of the Flesh è un melodramma del 1975 diretto dal Kim Ki-young del supercult The Housemaid (l'originale del 1960), dispiegato su flashback (di cui uno, lunghissimo, su un treno) e presente. Un destino funesto affligge una donna vittima di torti e tradimenti subiti da uomini, per i quali prova oramai una cieca, comprensibile avversione; nell'incontro con un uomo che sembra provare per lei affetto sincero le fa intravedere qualche spiraglio di luce nel tunnel di disperazione assoluta nel quale è irreversibilmente condotta. Sentimento che pervade tutta l'opera, da cui ne emerge con rigore e forza espressionista, spinta fino alla saturazione di toni e colori materici, pastosi che donano vita e carattere, permettendo un'adesione totale e totalizzante alle vicende e alla psiche della donna.
Voto: 7,5
8 - MOTIF
Female-cop thriller dalla Malaysia diretto da una donna, Nadiah Hamzah (presente in teatro con la sua protagonista) e interpretato dalla simpatica e non proprio altissima Sharifah Amani (avvistata in più occasioni a fare la coda per i film come noi comuni mortali). Un poliziesco dallo sguardo femminile in un mondo di uomini: la Amani è un'investigatrice chiamata a risolvere un caso di sparizione prima e omicidio in seguito, dalla polizia locale, dai cui componenti tutti maschi è snobbata e osteggiata. Lo stesso vale per gli indigeni. Ok, il taglio femminile. Che non va oltre la primaria lettura, mentre la componente thriller segue percorsi routinari e i personaggi risultano deboli. Non malvagio ma lascia poco.
Voto: 6
[al centro, l'attrice Sharifah Amani e alla sua sinistra la regista Nadiah Hamzah]
9 - THE GREAT BATTLE
Il buon Fabio/Alan Smithee sostiente, lucidamente, che è sempre il solito film di guerra epico in costume. Ha ragione. Però. Minchia che epica. Che sequenze di battaglie furiose e azione super-spettacolare. Questo fastoso blockbuster – ben 20 milioni di dollari di budget (che per la Corea del Sud sono un'enormità) – è stato concepito sulla base di un fatto storico di cui residuano scritte tre-righe-tre. Come costruire un terrapieno per scalare la mancanza di terreno fertile. Comunque, corre l'anno 645, l'imperatore Taizong attacca il regno di Goguryeo; durante il tentativo di presa di una fortezza di ridotte dimensioni e uomini, con un parco di 200.000 uomini contro 5.000, quella che doveva essere l'impresa facile di un giorno si trasforma in una vicenda trascinata per mesi. Costellata dei più tipici strumenti del genere (i tradimenti, l'arroganza da un lato e l'inventiva dall'altro, le battaglie interne, i sacrifici e le perdite dolorose), lascia – fortunatamente – poco spazio alla costruzione drammaturgica e introspettiva, e a quella politico-storica (sarebbe stato in ogni caso fuori luogo e pretestuoso), per dare spazio all'infinita serie di battaglie. Epica fino alla fine. Lunga (136 minuti), avvincente, ben progettata e realizzata (così si perdonano pure le assurdità), entusiasmante.
Voto: 7
10 - INTIMATE STRANGERS
Ok, il remake sudcoreano di Perfetti sconosciuti. Che hanno rifatto ovunque, dalla Spagna alla Germania al Qatar al Messico. Pure a casa vostra, probabilmente. Per funzionare, funziona. Ma è Perfetti sconosciuti, rifatto piuttosto fedelmente (alcuni dialoghi sono identici), il film che su una buona idea si è costruito una considerazione sopravvalutata. Rimane giusto l'interesse del contesto sudcoreano (che, nello specifico, non è molto diverso del nostro).
Voto: 5
11 - MASTER Z: THE IP MAN LEGACY
Yawn. Di Ip Man hanno tipo fatto centodue film, tra trilogie multiple, capitoli definitivi che non lo sono, prodotti spuri, eccetera. Lo (li) conosciamo a memoria. Master Z: The Ip Man Legacy è uno spin-off ufficiale della saga interpretata da Donnie Yen. Ne sentivate la mancanza, nevvero? Dunque, cosa contraddistingue, e cosa sposta, questo film rispetto al capostipite? Beh, nulla: è alquanto modesto, e gli ingredienti sono sempre gli stessi, uguali proprio. Da rilevare semmai quelle che sono presenze pazzesche attorno all'anonimissimo attore principale, Max Zhang (una faccia con meno carisma è ardua da scovare): allora, ci stanno Michelle Yeoh (divina), Tony Jaa (ruolo da misterioso con poco minutaggio) e Dave Bautista che fa il cattivo. Apperò. Probabilmente in bolletta o in debito o per aver perso una scommessa, chissà. Sta di fatto che potrebbero aver speso gran parte del budget per loro, visto che le scenografie sono ridicoli fondali di cartone.
Voto: 3,5
12 - LOVERS IN WOOMUKBAEMI
Facente parte della retrospettiva “I choose Evil” di cui sopra, Lovers in Woomukbaemi è un film del 1990 che parla di adulterio e condizioni sociali. Il-do si trasferisce con la famiglia dalla città, Seul, alla campagna, in una cittadina senza prospettive, per fare il sarto in una piccola fabbrica; qui conosce Gong-rae, giovane come lui e anch'essa sposata. Deflagra la passione, si consuma l'amore tra infimi motel a una fermata di treno e serre nella campagna; scoperta la liaison scoppia il finimondo. Messa così, pare tragica; e lo è. Ma è anche dannatamente umoristica (impagabile la scena in cui entrambi tornano al lavoro con i segni delle violenze sul volto lasciati dai rispettivi coniugi), in particolare grazie al personaggio della moglie di Il-do (l'attrice è Yoo Hae-ri): questa appena può lo corca di mazzate (non è il solo destinatario, anzi) e lo ricopre dei peggiori insulti. Perlopiù meritati, giacché l'uomo è un donnaiolo impenitente e un irresponsabile per natura. Irresistibile la serie di violenza inflitta a Il-do mentre tiene il loro bambino sulle spalle, attaccato con una fascia. La resa comica è esilarante, devastante fino alle lacrime. Registro brillante e drammatico risultano sapientemente dosati, tempi sempre azzeccati, messa in scena dinamica e performance attoriali versatili.
Voto: 8
13 - CROSSING THE BORDER
Road movie che opera su più livelli, Crossing the Border è un racconto intergenerazionale che invita ad avere uno sguardo aperto sul mondo, ad avere un atteggiamento più positivo e a prestare la dovuta attenzione a ciò e a chi incontriamo lungo il nostro percorso. Difatti, quello dell'anziano e del piccolo nipote, partiti da una località di campagna a bordo di un veicolo a tre ruote motorizzato per raggiungere un vecchio amico in fin di vita distante migliaia di chilometri, è un viaggio dell'anima, capace di riflettere sulla vita e sulla morte, sulla vecchiaia e sul futuro, sui cambiamenti epocali della Cina negli ultimi decenni, sull'importanza di ascoltare e, se possibile, aiutare il prossimo, sul comprendere come gli ostacoli della vita possano aiutare a crescere. Delicato, poetico, lento (inteso come valore, non come resa), intenso e certo non privo di elementi di umorismo ben calibrati. Gran bel film.
Voto: 7,5
14 - THE SCOUNDRELS
Sul solco dei gloriosi action hongkonghesi, il film taiwanese The Scoundrels cerca di tracciare una propria idea di cinema d'azione con protagonista una coppia improbabile. Due uomini: uno un ex famoso giocatore di basket, l'altro un violento rapinatore di banche. L'incontro tra i due genera conseguenze imprevedibili, scontri con altri criminali e con la polizia, sorprese e colpi di scena. Ottime coreografie, sequenze action dure e credibili (la resa dei conti tra i due è senza esclusione di colpi), atmosfera noir con luci livide e pioggia, facce giuste (in particolare il cattivo, Wu Kang-ren), ritmo crescente, finale inesorabile. Le regole sono pienamente rispettate.
Voto: 6,5
15 - HEAVEN'S WAITING
Il primo filippino è una delusione. Heaven's Waiting ha un incipit eccentrico: il vecchio Manolo (l'attore Eddie Garcia, assai celebre in patria) decede e si ritrova in Purgatorio, dove altre anime come lui soggiornano il tempo necessario per poter essere ammessi in Paradiso. Qui incontra la vecchia fiamma Lisang, in attesa da ben due anni. I caratteri forti di entrambi si scontrano di continuo in quella che è una elaborazione della loro vicenda personale, delle loro scelte, di espiazione e redenzione. Di fatto, una storia d'amore. O una telenovela, in pratica. Verbosissima e dall'incedere faticoso, si dimentica dei personaggi secondari, perde presto la bizzarria dello spunto di partenza, finché si aprono le porte. Dei titoli di coda.
Voto: 4
16 - 212 WARRIOR
Uhm, ok, boh, beh, mah, eh. Difficile parlare di siffatto prodotto, un fantasy così demenziale capace anche di strappare una risata sguaiata ma che rimane una becera farsaccia. Film evento in Indonesia nel 2018 (e vabbè), con personaggio ripreso da una serie di romanzi popolari, 212 Warrior, ambientato nell'isola di Giava è un miscuglio di action, fantasy, mitologia, commedia comica, racconto di formazione. Quindi, combattimenti con arti marziali, magia, strane creature, gusto dell'avventura, scoperte ecc. E poi peti (la “scorreggia velenosa”), battute sceme (folgorante però, il «populista!» indirizzato a un personaggio), siparietti da Bagaglino, dinamiche eccentriche, trucco e parrucco discutibile (l'anziana guerriera), fino al lunghissimo, estenuante scontro finale (ma serio, boh). Su tutto, la faccia da idiota del protagonista (l'attore Vino G. Bastian), le sue mossette gaie, le sue espressioni da scemo patentato, la sua interazione con l'altro scemo (il ciccione della scorreggia velenosa e altre simpatiche manovre). Che pirla(ta di film). Contiene seria minaccia di sequel.
Voto: 4 (ma sarebbe s.v.; o un 2, con 2 in più per la scorreggia velenosa).
[al centro, l'attrice Sherina Munaf e la produttrice Sheila Timothy]
17 - DEFAULT
Le grandi crisi economiche non hanno colpito solo gli Usa, o l'Europa. Default racconta di quella sudcoreana del 1997, dopo decenni di boom economico. Siamo dalle parti di La grande scommessa, con personaggi che intuiscono il default imminente e decidono di specularci, pezzi di cronaca da giornali e tv, lassismo delle istituzioni che negano fino alla fine la gravità della situazione mentendo pertanto alla popolazione e piccoli imprenditori che perdono tutto (attività, casa, famiglia, dignità). Un racconto corale nel quale emerge in particolare la figura di un'analista della Banca di Corea: la sua lotta per cercare di proporre soluzioni (tra le quali informare il popolo) è avversata in ogni modo da governanti ottusi e/o collusi. Una svolta arriva con l'avvento – lasciato come ultima spiaggia – dell'odiatissimo FMI (una sorta di Spectre, dietro cui, viene detto esplicitamente, ci sono interessi Usa), le sue imposizioni e precondizioni inaccettabili (le conseguenze di tale nefasta decisione si sentono ancora oggi), rappresentato dalla prova luciferina di un viscido Vincent Cassel. Il pregio del film – stanti le immancabili convenzioni del filone e il sentimento di facile sdegno che suscita – risiede nella chiarezza espositiva, frutto di una sceneggiatura equilibrata e sufficientemente articolata (da considerare in maniera positiva anche il colpo di scena che riguarda due delle tre figure principali) e di una regia che evita colpi ad effetto.
Voto: 6
18 - JK ROCK
“Rock'n'roll-never-dies comedy”, così recita la definizione di lancio del festival. Ok, è il classico caso in cui il Rock'n'roll è più dichiarato, incitato, suggerito che suonato. È più un pop-rock leggero e di facile presa e consumo, ecco. Quindi, il rock non c'entra un beneamato plettro, su. Anche in Giappone lo fanno e lo sanno fare. JK Rock è un mero, banale teen movie che segue la scia di prodotti pseudomusicali affini, compreso l'inevitabile concorso per band. Si salva giusto il tenerissimo gattino bianco, inquadrato con bieco profitto dal regista (e che in sala fa ovviamente rumoroso centro: gli “oohhh” delle gattare sono scattati automatici come l'autovelox appena sfori il limite).
Voto: 3
19 - THE RIB
Il bianco e nero illumina la storia di Huanyu, transgender trentaduenne in attesa dell'operazione per il cambio di sesso e quindi ottenere il definitivo status di donna. La legislazione cinese lo permette ma esige l'autorizzazione firmata anche dai genitori, anche se la persona in oggeto è maggiorenne. Quello rimasto è il padre, naturalmente impreparato anche soltanto a capire la questione (o a definire condizioni di sessualità), figurarsi ad affrontare le problematiche relative. E così, mentre Huanyu è alle prese con la propria ricerca identitaria, con il cambiamento fisico, con le umiliazioni quotidiane, il padre dovrà compiere un arduo percorso di accettazione, di apertura mentale, di sminamento delle proprie rigorose convinzioni. Entrambi, infatti, appartengono a una chiesa che, mentre parla di rispetto degli individui non esita a cacciare fisicamente in malo modo Huanyu dalla propria struttura. Splendida la scena con loro due che camminano assieme mentre nel b/n irrompe l'abito rosso fiammeggiante della donna. Un film cinese naturalmente inserito nei tempi, che mostra le diffidenze e pregiudizi da parte di società e comunità (mentre le istituzioni sono quasi assenti, neutrali: effetti della censura?), che perde anche qualcosa per strada (il coinquilino e la sua ragazza), e che sembra anche fin troppo edu(l)c(or)ato, ma in grado di suscitare la giusta gamma emozionale.
Voto: 7
20 - RAMPANT
Zombie-wuxia movie con intrighi di corte, Rampant è un'opera coreana che si inserisce nel filone dei film di zombie, assai prolifico (fin troppo, tra film, serie, web, videogames, libri, fumetti) e con riscontro più o meno assicurato. Da qualunque lato lo si guardi è piatto, prevedibile, sciocco (tanto più quanto cerca di prendersi sul serio), con combattimenti in stile La tigre e il dragone e personaggi stereotipati. Eroi loro malgrado, compagni impavidi, donzelle pronte a tutto, spalle comiche (incredibile la battuta sulla merda di cane in un momento tragico), traditori mefistofelici: il repertorio è completo. Debole anche dal punto di vista narrativo, specie la battaglia finale, con sacrifici e scontri inutili quando si poteva arrivare ben prima e senza danni allo stesso risultato.
Voto: 3,5
21 - THE CROSSING
Hong Kong da un lato (la scuola), Shenzen, Cina (casa), dall'altro. Il viaggio quotidiano da uno all'altro di Peipei, sedicenne dall'aria innocente ma scaltra e sveglia, muta da mero percorso fisico a impegno lavorativo quando, per caso, si trova a trasportare illegalmente un iPhone; circostanza che, unita alla necessità di guadagnare soldi, la fa arruolare come risorsa criminale da usare a quello scopo. The Crossing è un racconto di formazione, descritto in maniera realistica credibile, aderisce al suo personaggio con riprese dedicate dalla mdp donandogli spessore e profondità, e lo stesso fa per i comprimari (la madre fannullona, l'amica, il ragazzo che la protegge, la capobanda che diviene una figura materna sostitutiva). Non solo: tese e adrenaliniche le sequenze di passaggio alla dogana, incisivi i movimenti della mdp nella giungla metropolitana hongkonghese, incalzante il ritmo. Forma e sostanza riescono a conferire un ritratto valido e intenso di Peipei e del suo passaggio dall'adolescenza all'età adulta.
Voto: 7
22 - THE ODD FAMILY: ZOMBIE ON SALE
Ancora zombie. Sì. Ma fighi. Altro colpo di fulmine dopo il caso mondiale di One Cut of the Dead presentato la scorsa edizione del Far East. Trattasi di film coreano, dai molteplici riferimenti (da The Host a Cocoon a Train to Busan a Warm Bodies), dall'alto tasso di horror e umorismo. Non si contano le scene in cui ci si piega in due dalle risate: le trovate sono senza soluzione di continuità e ad elevato grado di creatività. Impaginando la storia di una famiglia assai atipica alle prese con uno zombie venuto dal nulla, The Odd Family: Zombie on Sale si fa superbamente beffe dell'idiozia degli uomini (perlopiù impegnati a ribadire/rinverdire la propria virilità, o a trarre profitto) mentre alle donne spetta il compito di portare praticità e lucidità (impagabile la moglie incinta armata di padelle e qualsiasi altra cosa le capiti a tiro). Non manca nemmeno il sentimento, che affiora tra lo stordito zombie mangia-cavoli (irrorati di ketchup) e la componente più giovane della famiglia. Il film è inoltre ottimamente girato e fotografato (basta la scena dei fuochi d'artificio), e sempre ficcanti risultano gli intermezzi umoristici. Spettacolare il finale con l'apocalissi zombesca e irresistibile la divertentissima ultima scena giocata sul contrappasso. Ho tipo voglia di rivederlo subito.
Voto: 8
[al centro, l'attrice Uhm Ji-won e il regista Lee min-jae]
23 - FLY BY NIGHT
Crime movie dalla Malaysia in cui una famiglia di piccoli delinquenti si trova a dover gestire le conseguenze delle azioni dell'ambizioso membro più giovane che tenta il colpo grosso. Alle prese con criminali ben più grossi e poliziotti corrotti, il capofamiglia lotta allo strenuo per salvare attività e nucleo. Su script talora confusionario, e già di suo non certo granché originale, il regista confeziona un buon dramma in cui palpabile risulta l'ineluttabilità dello stato delle cose. Alcuni attori non sembrano esattamente geni della recitazione, ma la resa globale è comunque da apprezzare.
Voto: 6
24 - ONLY THE CAT KNOWS
Solo il gatto lo sa. Sì. Quanto il tipico uomo giapponese di una coppia anziana possa essere ottuso e difettoso in comunicazione. E quanto la donna debba sopportare tale situazione. Masaru e Yokiku non fanno eccezione: lontani i tre figli, a Yokiku non rimane che lo splendido gatto randagio Chibi da accudire. Quando questi sparisce (perché, si sa, i gatti sono stronzi), e Masaru cinicamente dichiara che probabilmente è morto, le cose crollano. Da qui la decisione da parte di Yokiku di chiedere il divorzio. Il film si prende il tempo necessario per la definizione dei personaggi, dandogli un percorso da compiere, spessore intimo, profondità, umanità, e un passato in uno splendido bianco e nero (l'attrice che interpreta Yokiku da giovane è di stordente bellezza). La storia, che coinvolge figure minori (la figlia che abita più vicino, l'impacciato giovane scrittore che gioca a shogi con Masaru, il ragazzo addetto alla ricerca di Chibi), e tocca diverse tematiche (la vecchiaia, i rapporti di coppia e quelli con i figli adulti, i divorzi tardivi) ha un'evoluzione sorprendente e coinvolgente, carica di affetto verso i suoi personaggi, non priva di momenti leggeri sempre inseriti con cura all'interno di un racconto empatico e sincero.
Voto: 7,5
25 - ROMANG
Ancora una coppia anziana. Però abitanti con figlio inetto e le di lui moglie e figlioletta. Irascibile, ai limiti della cattiveria lui, mansueta e amorevole lei. Per quest'ultima scatta una diagnosi di demenza vascolare; poco dopo, lo stesso per il marito. Figlio e famiglia spariscono (letteralmente, e non è l'unica pecca della sceneggiatura), la malattia avanza per entrambi, i due vecchi da soli iniziano un percorso di reciproche attenzione e comprensione, anche tramite l'ausilio di promemoria scritti (tipo Memento), nonché a ricucire un rapporto mai così saldo e sincero. Finale intuibile. Un po' ricattatorio ed enfatico nei toni e nelle inquadrature, troppo dilatato (quasi due ore), il film coreano Romang conta sull'eccellente prova dei due attori protagonisti ma non aggiunge nulla al filone.
Voto: 5
26 - UNSTOPPABLE
Ma Dong-seok. Inarrestabile. “Toro scatenato” (questo il titolo originale coreano) dai pugni così potenti e violenti che ne basta uno o due per costringerti a ordinare una bara. In Unstoppable interpreta un ex criminale redento dalla vita placida assieme alla cara moglie e alla perenne ricerca di affari improbabili che lo vedono puntualmente raggirato. Una sera si imbatte per caso in una banda di malviventi che più tardi le rapirà l'amata. Sono cazzi ameri. In pratica è Io vi troverò. Però figo. Girato alla grande, con montaggio, montaggio sonoro e sound design da brividi. E con Ma Dong-seok che spacca culi, incendia auto della polizia, provoca scosse telluriche con la sua arte, infila la testa di un gigantesco cattivone nel soffitto e lo trascina per qualche metro. Esaltante tutta la sequenza dell'assalto all'edificio in cui sono imprigionate moglie e altre donne (faccenda di compravendita di esseri umani e di organi. Importa?), travolgenti tutte le scene di azione e inseguimento e scazzottate e la fine che riserva al villain psicopatico. Ah, poi ci sarebbe la coppia comica di spalla. Scemo e più scemo. Quando a quello più scemo – o è quell'altro? – si scioglie il colore dei capelli in faccia, riuscendo comunque a darla a bere ai poliziotti accorsi, stavo svenendo dalle risate. Geni. E che tempi comici. Che ridere anche l'ultima scena. Che figo Ma Dong-seok. Non fatelo arrabbiare.
Voto: 8
27 - HARD-CORE
Dallo stesso regista di Linda Linda Linda e My Uncle (passato al FEFF 19), l'adattamento live-action di un manga di culto. Hard-Core parla di uomini ai margini della società (uno iracondo, l'altro tonto e sempre eccitato), con un linguaggio eccentrico che mescola fantastico e analogico, satira sociale e lettura politica. I due lavorano al soldo di un vecchio miliardario reazionario che li costringe, una volta a settimana, a lavorare in una miniera nel quale pensa ci sia l'oro di uno Sgohun. I toni si mantengono sempre in una dimensione bizzarra sospesa tra commedia nera e avventura. L'avvento di un robot di vecchia costruzione trovato in una fabbrica abbandonata, fa ancora più deragliare il film in territori sempre più bislacchi, con alcune trovate riuscite (il travestimento a un locale, il robot che prende il volo), ma sempre all'interno di un quadro di cui si faticano a vedere oggetto, contesto, sfondo, senso. Rimane un oggetto, lungo oltre due ore, più curioso che riuscito.
Voto: 5
28 - THREE HUSBANDS
Un'aria malsana, sporca, oscura riveste l'opera di Fruit Chan, Three Husbands. Tre mariti, di cui uno anche padre, e una donna. Voluttuosa, carnale, sensuale, rapace, prostituta, con la sua vagina dichiarata patrimonio culturale e una voglia di sesso irrefrenabile. Una creatura probabilmente appartenente a un'altra specie (negli spazi angusti di un buco sulla terraferma si trova come un pesce fuor d'acqua), sicuramente incompresa. Il viaggio sulla barca dei quattro è una traversata metaforica, una satira politica (l'espansionismo cinese? Il rapporto tra Cina e Hong Kong?), un oggetto che naviga in acque corrotte tra corrotti, un simbolo della decadenza dell'uomo. Visivamente disturbante, eccessivo, suggestivo, permeato da un umorismo tetro, lurido, e con una rappresentazione estrema fatta di scene forti, viscerali (il sesso è filmato tra contorsioni ed equilibrismi, senza risparmi di corpi e dettagli; spiazzante il profilattico infilato a un'anguilla a sua volta inserita nella vagina della donna), e avvalendosi della prestazione totale di Chloe Maayan, Three Husband è opera a tratti indefinibile ma viva e pulsante, che non può lasciare indifferenti.
Voto: 8,5
[Chloe Mayaan, e con il sottoscritto. Non sembra felicissima ma vi assicuro che ha tenuto sempre la stessa espressione]
29 - RESIDE
Horror thailandese di riti e fantasmi, evocazioni e ritornanti, Reside inscena la storia di una “Madre” e dei suoi adepti in una villa isolata che intonano un canto per risvegliare un corpo dall'identità celata essendo ricoperto da fasce da capo a piedi). Qualcosa va storto. Gli spettri di una famiglia entrano nella dimora, un altro cerca di farlo. Ecco. La scena immediatamente successiva accade qualcosa. Malgrado il severo ammonimento di non lasciare porte e finestre aperte. Qui il lettore medio di horror e gialli ha già capito tutto. Infatti. Quanto segue altro non è che una normalissima faccenda di spiriti che si impossessano di corpi, di una mattanza inevitabile (peraltro mettendoci troppo tempo), di rivelazioni da soap opera, di dialoghi a tratti sconcertanti. E di spiegoni (anche per mezzo di inutili flashback) così reiterati da recare fastidio estremo. Finale a sorpresa (certo, come la Juve che vince il campionato con cinquanta giornate di anticipo). E ancora spiegoni. Qualcosa di decente arriva dalla messa in scena, ma il danno è irreparabile.
Voto: 3
30 - WHEN LOVE BLOSSOMS
Pechino, un complesso in periferia, un piccolo appartamento nel quale condividere bagno e cucina: Xiao Qiang, un fattorino, Xiao Xia, una agente immobiliare; entrambi giovani, poveri, immigrati, soli e isolati, emarginati dalla società. Lui ama lei che anela le attenzioni di un altro che la lascia. Un giorno Qiang effettua una consegna in un teatro durante le prove di uno spettacolo che racconta di un fattorino che consegna un pacco a una donna che vuole suicidarsi per causa amorosa: è una folgorazione. Il giovane trova il modo di tornare ogni giorno, impara le battute a memoria. L'arte e la vita. I piani si (con)fondono, da una se ne trae giovamento per l'altra. Si impara, si cresce, ci si identifica, si cerca di costruire un rapporto. Ma il palcoscenico della vita è un posto duro e caotico (lo imparerà soprattutto la ragazza, stuprata da un ricco imprenditore), una sceneggiatura da scrivere, un luogo dell'anima senza finale prestabilito (il finale è severo, giacché rimane sospeso il destino tra i due), un posto a cui tornare dopo qualche ora gloriosa, un ritratto fatto a mano che lei forse guarderà. When Love Blossoms ha uno sguardo sensibile e stratificato, delinea in maniera intelligente e profonda lungo 88 minuti (e non una roba dilatata fino alle due ore) caratteri e narrazione, dimensione intima e scavo introspettivo, con una visione attenta, ragionata su tematiche di estrema attualità. Straordinario l'espressivo Liu Di.
Voto: 8
31 - PASSING SUMMER
Dalla rassegna di tre opere dedicata alle commedie indipendenti coreane, Passing Summer si svolge in una pensione in un luogo di vacanza fuori stagione. Proprietari una coppia, c'è un ospite fisso misterioso, poi sopraggiungono un giovane dall'aria assorta e due ragazze, una superficiale in cerca di avventure, l'altra riflessiva; infine, un uomo che cerca di vendere le sue lezioni di surf. Il surf è una metafora ricorrente, da cui dialoghi e battute («L'amore dovrebbe essere come il surf. Un'onda alla volta»; «Non pensare all'onda persa. Se aspetti ne arriverà un'altra») attingono per ragionare sui percorsi impervi dei sentimenti. Il legame già esistente di più abitanti tra loro fa emergere vicende del passato rimaste aperte, scatenando sentimenti inespressi e rivendicazioni. Ma siamo sempre in una commedia dai toni leggeri, non impegnata né impegnativa. Tra le conclusioni, una lascia particolarmente stupiti (perché non si è dato alcun elemento prima a sostenerla), ma importa relativamente. Si tratta giusto di un film carino che lascia poco.
Voto: 5,5
32 - LOST, FOUND
Persa, ritrovata. Spoiler. Vabbè, importa il percorso, no? Che è quello di un rapimento di una bambina, della madre avvocatessa divorzista rampante e cinica in fase di divorzio dal marito medico, della babysitter rapitrice (e, a margine, della moglie rappresentata dalla parte avversa all'avvocatessa nella causa di divorzio). Storia di donne, di madri e mogli. Di diversa estrazione sociale e dai vissuti opposti (disperato e intriso di violenze e torti subiti quello della babysitter). Il film procede tra flashback volti a spiegare le motivazioni della rapitrice, mentre nel presente procede l'affannosa ricerca della verità. Un thriller dai mezzi non indifferenti (e si vede), costruito su misura per Yao Chen in cerca di premi e riscontro (che al botteghino nazionale ha già ottenuto in grande misura). Nulla di rilevante ma neanche di biasimevole. Starebbe benissimo anche nel palinsesto televisivo italiano (tipo Rai 2 o Rete 4), e ci starebbe pure un rifacimento magari made in Usa. Improponibile però la redenzione esagerata della donna che ritrova bambina e umanità. Ma dai. Voto: 4,5
[Curiosità: a introdurre i film sono stati invitati regista, produttrice e attrice protagonista, Yao Chen, a cui è stato consegnato un premio ad hoc. La sola presenza della diva cinese (evidentemente celeberrima in patria) ha fatto letteralmente invadere la sala di ragazzine e ragazzini cinesi, da cui eravamo circondati: una roba mai vista, un entusiasmo dilagante, si udivano più dialoghi in mandarino che in italiano. Ma lei è stupenda, che classe.]
33 - EERIE
Eerie. Inquietante. Giusto il titolo. Gli horror con le suore cattive non portano fortuna (vedi il brutto St. Agatha di Darren Lynn Bousman visto al ToHorror). In questo horror filippino, ambientato in un severo liceo cattolico per sole ragazze, trovano residenza fantasmi, insegnanti chiaroveggenti, suore inquietanti, studentesse bulle, poliziotti volenterosi ma impotenti, segreti terribili, morti terrificanti. Se vi siete fatti un'idea, sì, è quella. Null'altro da ricordare, da segnalare. Ogni cosa procede come deve. Messa in scena suggestiva non disprezzabile (in particolare la fotografia).
Voto: 3
34 - A FIRST FAREWELL
Classe 1987, per Lina Wang si tratta del debutto. Splendido. A First Farewell è girato nella regione autonoma dello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina, tra gli abitanti uiguri, etnia di religione islamica dai tratti più occidentali che orientali (ed è la prima cosa che salta agli occhi durante il film). Inizialmente pensato come un documentario, è poi tramutato in film dalla sceneggiatura in divenire e dai personaggi finzionali ricalcati però su quelli esistenti (ogni personaggio mantiene infatti il suo vero nome). Contesto rurale, di campi di cotone e deserto, di condizioni di indigenza e ignoranza, uno stile di vita duro e faticoso, segnato dall'abbandono in massa verso la città per chi vuole emanciparsi. L'abbandono è un tema fondamentale, un mantra ricorrente per Isa, un bambino, che vede nell'ordine, quelli del fratello partito per l'università, della madre malata in una casa di riposo, dei compagni di gioco Kalbinur e Alinaz, del piccolo capretto che aveva preso con sé. Da cui il primo addio, inteso come saluto a una persona cara che probabilmente non si vedrà più, ma anche come sparizione di interi villaggi, di un modo di essere e vivere. Nel mezzo, la rigidità delle istituzioni (in una scena a scuola, l'umiliazione pubblica di una madre che non si interesserebbe dell'istruzione dei figli) e quella del proprio credo religioso, l'importanza di capire e parlare il mandarino quale linguaggio essenziale per comunicare ed emanciparsi, il lavoro nei campi. Sembra una novella di Verga. A First Farewell si contraddistingue altresì per la stupenda fotografia, di riprese immersive di paesaggi mozzafiato che sembrano appartenere a un'altra epoca in contrapposizione alla durezza della vita; è uno sguardo struggente e poetico, evidentemente conosciuto e sincero, su un mondo remoto che parla però a tutti. Bellissima la canzone sui titoli di coda.
Voto: 8,5
35 - PROJECT GUTENBERG
Chow Yun-fat spara con due pistole in uno slow motion alla John Woo. Leggenda. L'omaggio al glorioso cinema d'azione di Hong Kong è palese e dichiarato. Ci sono sequenze di sparatorie ad alto tasso di adrenalina e spettacolarità nonché investimenti (quella nella giungla culmina in una esplosione pazzesca), c'è una certosina ricostruzione del lavoro di falsario, c'è una storia d'amore avversata dal destino, c'è una storia di crimine e violenza che non può non affascinare. E c'è Chow Yun-fat che fa il supercattivo, elegante, arrogante, con sorriso beffardo d'ordinanza. Ruba la scena pure alla mdp. Però c'è anche un racconto in flashback, da parte dell'artista falsario suo malgrado ingaggiato proprio da Yun-fat, che ricostruisce gli eventi. Suggerimento: I soliti sospetti. Narrativamente, non torna nulla. Il film poteva benissimo fermarsi prima di spiattellare l'impensabile coup de théâtre, che indispone non poco, e srotolare finali su finali. Un vero peccato.
Voto: 6,5
36 - DARE TO STOP US
Dare to Stop Us è un omaggio sentito al grande K?ji Wakamatsu, qui interpretato con adesione e convinzione da Arata Iura (che proprio per il regista recitò in 11:25 The Day He Choose His Own Fate, nella parte di Mishima). Il film si concentra nel periodo tra il 1969 e il 1972, tra le mura della Wakamatsu Family, luogo di creatività, ubriacature, accese dispute verbali, libero pensiero, accesso al magico mondo della celluloide. Nel descriverne lo spirito radicale, il carattere irascibile, irruento, ribelle, con un passato nella yakuza, e l'aura di implacabile, intransigente nonché autocelebrato cantore delle distorsioni del sistema, Dare to Stop Us ne esplora mito e influenza, idiosincrasie e manie, senza mai scadere nell'agiografia. Fondamentali i compagni di viaggio (tra i quali il fidato Masao Adachi), dediti alla causa e disposti a ricoprire qualunque ruolo nella famelica attività produttiva dell'allora già celebre regista di pink film. Centrale è però la figura di Megumi, giovane donna che parte dal basso per conquistare sempre più spazio e considerazione da parte dei colleghi, tutti maschi (attrici a parte). All'interno di una pellicola nata per rendere lode a un grande cineasta trova quindi spazio l'attenzione al ruolo della donna: Megumi osserva gli altri mentre orinano dal tetto sulla strada e vorrebbe farlo anche lei, Adachi pensa che lei non sia abbastanza donna. Attraverso la sua storia personale, la sua crescita e affermazione identitaria, il regista Kazuya Shiraishi celebra un'epoca irripetibile da cui trarre insegnamento in tempi in cui tutto è concesso e nulla è frutto del nostro libero esercizio.
Voto: 7,5
37 - STILL HUMAN
Tripudio in teatro per Anthony Wong. E ci mancherebbe. Gli applausi si ripetono, scroscianti e lunghi, a fine proiezione. Un trionfo al FEFF (premio del pubblico e degli accreditati Black Dragon). Abbaglio collettivo; d'altronde che Still Human si presti a ricevere grande riscontro da parte della massa è deduzione intuibile. Ancora vecchiaia, più disabilità: il ruolo di Wong è quello di un uomo che vive da solo (divorziato, il figlio vive con l'ex moglie all'estero), in un piccolissimo appartamento di un edificio popolare, paralizzato dal torace in giù. Cambia continuamente badanti. L'ultima, è una giovane donna, immigrata filippina con i suoi problemi familiari. Trascorrono le stagioni; così i capitoli del rapporto tra i due procede, con prese di coscienza, maturità, persino sentimento. Bella chimica tra gli attori, simpatiche alcune gag, ma siamo dalle parti di una ricetta preconfezionata, un prodotto a largo consumo capace di strappare risate e commozione. Incredibilmente troppo melenso e fuori dalla realtà nel finale, ma il successo è assicurato.
Voto: 4
[Anthony Wong e la meravigliosa Crisel Consunji, la badante che tutti vorremmo avere]
38 - FLY ME TO THE SAITAMA
Dall'autore di Thermae Romae, Takeuchi Yuichi, un'opera che pare un live-action manga, traboccante gusto pop e post-pop, flussi umoristici grotteschi e fuori di testa, deliranti, kitsch, e prese in giro dello snobismo e del senso di superiorità del metropolitano, moderno abitante di Tokyo nei confronti del povero provinciale, nello specifico la sfigata prefettura di Saitama. Discorso che si potrebbe fare in qualunque posto nel mondo (tipo il milanese con i monzesi). Molte battute, trovate e situazioni di segno strambo, paradossale, vanno a segno ma alla lunga il gioco stanca, si ripete, si dilata, fino a giungere a una sostanziale indifferenza. Simpatico ma superfluo.
Voto: 5
39 - THE DEVIL FISH
A leggere la sinossi, mi aspettavo fritture di paranza che prendevano possesso di corpi facendoli esplodere dall'interno con fuoriuscita di organi spappolati, fluidi mefitici e putrescenti, decomposizione immediata (tipo la fine di M Valdemar nell'insuperabile racconto di Poe). Beh, m'ero fatto un film tutto mio, perbacco. C'è giusto un pescetto, dall'aspetto meno sgradevole di certe portate in locali infimi. The Devil Fish è un horror fantasy ispirato al tradizione folklore taiwanese, roba di demoni, esorcismi, maledizioni, ammazzamenti. Una due ore dai ritmi altalenanti, dal passo zoppicante, dalla confusione narrativa, dalla tensione disomogenea: l'attenzione scende presto sotto il livello della guardia, in attesa di una conclusione magari più dinamica che puntualmente non arriva.
[Però molto soddisfacente la magnata a base di pesce con gli amici Fabio e Daniele giusto qualche ora più tardi]
Voto: 4
40 - BLACK HAIR
Sempre dalla retrospettiva “I choose Evil”, una pellicola di forte impatto e innegabile fascinazione. Un tipico noir, del 1964, che ricalca stilemi (e qualche ingenuità) appartenenti al genere, con un andamento, una progressione e un respiro da romanzo tragico, abitato da personaggi duri e intensi, iconici, contrappuntato da sequenze potenti e monologhi/dialoghi ficcanti (anche quando retorici e altisonanti), innescato da un bianco e nero che penetra negli anfratti emotivi squarciando pulsioni e coscienze. E regole. Come quelle che dominano il credo del Boss e della sua banda di criminali, come quelle che “viola” sua moglie in quanto stuprata da un tossico. Un codice etico che non ammette eccezioni, che esige rispetto assoluto e conseguenze immediate. Anche per sé stessi. Costruzione drammaturgica esemplare, crescendo inesorabile, scene clou formidabili (il confronto tra il Boss e la ritrovata moglie, divenuta prostituta). «Non ho scelto il Male. Il Male ha scelto me».
Voto : 8
41 - SIGNAL ROCK
Un'isola filippina (Samar), rocce e scogliere a strapiombo sul mare: un ragazzo prende un vecchio cellulare, gli attacca una rudimentale antenna (una posata), e compone un numero. Attorno a lui, tra cavità e piccole fosse, altri sono al telefono o in attesa. È l'unica zona dell'isola in cui c'è segnale. Questo l'incipit, un luogo ricorrente attraverso il quale passano le comunicazioni al di là dell'oceano, spesso da e verso Paesi lontani: le condizioni non certo ricche della località isolata e la mancanza di prospettive costringono le donne a emigrare, alla ricerca di lavoro e soprattutto di marito. Non rimane che la comunità, il senso di appartenenza: così, un grave episodio ai danni della sorella dell'intraprendente Intoy, diventa caso che riguarda parenti, conoscenti, persino il sindaco e il parroco. Produrre documenti falsi per salvare la sorella, risiedente in Finlandia, è una faccenda a cui nessuno si sottrae; ovviamente intoppi e pericoli reali (come affrontare il mare in tempesta a bordo di una vecchia barchetta) si frappongono e determinano situazioni delicate. Registro brillante e drammatico si fondono per creare uno straordinario spaccato di una realtà chiusa, ai margini, ma vitale, con norme tutte sue (la cella è a tempo: appena va via la luce si può tornare a casa), feste paesane che terminano in rissa e matrimoni in pompa magna tra giovani donne e anziani consorti stranieri (esilarante lo sketch con il tedesco). Eccezionali fotografia e messa in scena, ben disegnati i caratteri, coesa la tenuta, efficaci gli attori: bella sorpresa, Signal Rock.
Voto: 8
42 - BELIEVER
Believer è il remake coreano di Drug War del grande Johnnie To. Un solido action-thriller, cinetico e dinamico, dalle sequenze e coreografie ottimamente girate (la sparatoria dentro il container, quella risolutiva alla stazione), con figure borderline e altre stereotipate. Tutto ruota attorno al misterioso signore della droga Mr. Lee, al risoluto poliziotto che vuole scoprirne identità e fermarne traffici ed (efferate) esecuzioni, e al giovane sottoposto di Mr. Lee, unico scampato all'esplosione di una fabbrica di droga. Lo svolgimento dunque si attua sulla caccia all'uomo, in un percorso ovviamente traboccante ostacoli e intralci d'ogni specie. Il ritmo forsennato e la linearità e semplicità del racconto permettono al film di filare diretto e spedito alla meta, anche quando il colpo di scena atteso si palesa con tutto il suo carico di incongruenze e richiedendo una grande sospensione dell'incredulità. Al limite, ma lo si accetta. Si accetta molto meni la scena finale, che ricerca l'effetto speciale e lascia volontariamente in sospeso l'esito, ma è decisamente troppo poco credibile. Difficile, comunque, non lasciarsi trasportare dall'intensità e dalla fluidità dell'azione.
Voto: 7
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[fuori e dentro il teatro]
[volontari a rapporto, di prima mattina]
[immagini random dal contest di cosplayer, una piccola Lucca]
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