Quando l'habitat è ideale, il tempo vola via, sfugge letteralmente dalle mani, lasciando tuttavia sedimentare dei ricordi, instaurati su pagine che potrai sempre sfogliare senza far altro che azionare il pensiero. Così, per un cinefilo un festival è sempre un'occasione preziosa, il modo migliore per immergersi nella passione e viverla appieno, a un ritmo altrove nemmeno ipotizzabile. Non fa eccezione il Far East Film Festival, con il suo viaggio a 360° nel variegato universo del cinema asiatico degli ultimi mesi, impreziosito da alcune anteprime assolute e da una retrospettiva che si sta rivelando clamorosa. Una manifestazione che non offre un attimo di tregua, con la sua programmazione senza soste e la concreta possibilità di assistere fino a otto proiezioni giornaliere. Una plongée che dall'apertura di venerdì 26 aprile al momento di scrivere, ha regalato molteplici spunti. In attesa di vivere la seconda parte del festival, che vivrà il suo apogeo nelle ultime due giornate, quando il monumentale Anthony Wong sarà a Udine, riportiamo alcuni estratti del ricco programma già transitato.
Apertura: Birthday (+ Renny Harlin in trasferta cinese). In occasione della opening night, il Teatro Nuovo allestito a festa è stato preso d'assalto, con la presenza delle istituzioni e soprattutto di Jeon do-yeon (foto sotto), una delle principali attrazioni dell'edizione numero ventuno del festival. Dopo una presentazione dei tanti ospiti già giunti nel capoluogo friulano, la popolare attrice è stata omaggiata con un vibrante patchwork delle interpretazioni che i Far East lovers hanno scolpite nello spirito. L'attrice si è visibilmente commossa, esattamente come accaduto al pubblico durante la proiezione di Birthday (recensione di Supadany), nel cui acme drammatico era impossibile distinguere distintamente i singhiozzi provenienti dallo schermo da quelli dei vicini di sedia (altro che effetto 3D). Per riequilibrare gli umori, subito dopo il pubblico è stato rivoltato come un calzino da Bodies at rest (recensione di Alan Smithee), l'action thriller nuovo di zecca firmato da Renny Harlin, per conto di una produzione condivisa tra Cina e Hong Kong. Da assumere a neuroni disattivati: se ci riuscirete, sarà goduria vera. Più in generale, l'accostamento di questi due titoli è stato tanto spregiudicato quanto vincente, un inizio con i fiocchi.
Retrospettiva: Corea del sud. A dir la verità, prima dell'apertura ufficiale, il Far East Film Festival ha tagliato i nastri di partenza con The body confession, il primo film della rassegna dedicata al cinema sudcoreano del passato e ai suoi cento anni di vita, denominata I choose the evil. Una raccolta che estrae dalla polvere pellicole dimenticate, in alcuni casi boiocottate per anni e solo di recente restaurate e riabilitate. Un'esperienza unica, il privilegio - concesso a pochi - di posare lo sguardo su immagini rare, un viaggio indietro nel tempo, che accende la curiosità, aprendo una finestra sulle fondamenta di un movimento tra i più brulicanti, fecondi e in vertiginosa ascesa di questo secolo. A giudicare dai primi due titoli - se fossero stati diretti rispettivamente da Douglas Sirk e Michelangelo Antonioni, The body confession (recensione di Supadany) e A day off (recensione di Alan smithee) sarebbero considerati dei cult assoluti - parliamo di un dono dal valore inestimabile. Nel frattempo, è stato proiettato anche Lovers in Woomukbaemi, un'altra gemma che affonda le mani nell'insoddisfazione sociale e nel tradimento, con scaglie esileranti di risse tra marito e moglie che ricordano da vicino quel che combinavano Mariangela Melato e Giancarlo Giannini in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto.
SABU - Jam. Un altro colpo del festival è stato riuscire ad avere tra gli ospiti SABU (vedi foto), alla sua prima visita in Italia (per sua stessa ammissione, c'era stato vicino nel 1996, quando avrebbe dovuto presenziare al Torino Film Festival). Tanto emozionato sul palco quanto disponibile con il pubblico, SABU ha ricevuto meritati applausi per il travolgente Jam (recensione di Alan smithee) film corale a tre vie, raccoglitore di molteplici suggestioni, tra le altre con una morbosa passione da fan in salsa Misery non deve morire e strappi iper violenti a suon di martellate, zigzagando tra Quentin Tarantino e Park Chan-wook. Una scarica di energia che, in corrispondenza della chiusa, aggiunge una spezia a sorpresa.
Innocent witness. Una parata di ospiti ha anticipato la proiezione di Innocent witness (recensione di Alan smithee), legal drama sudcoreano che scardina di netto il confine di appartenenza, con note e tematiche passanti dalla denuncia delle ingiustizie a un messaggio di comprensione, assegnando il ruolo di protagonista indiscusso al fattore umano. Sul palco, oltre al regista Lee Han, sono saliti il celeberrimo Jung Woo-sung, una delle stelle più luminose del cinema sudcoreano (foto sotto), e Lee Kyoo-hyung, promessa in rapida ascesa. Una coppia ben assortita che sul grande schermo si è trovata a meraviglia.
Door lock. Nonostante tratti un argomento dibattuto (non possiamo più sentirci realmente sicuri nemmeno sigillati tra le mura domestiche) in formato thrilling, Door lock ha sostanzialmente diviso la platea (recensione positiva di Alan smithee, negativa di Supadany). Al contrario, nessun dubbio sulla protagonista Gong Hyo-jin (vedi foto sottostante), attrice molto popolare in patria che, in questa circostanza, è stata sottoposta a un autentico crash test.
The great battle. Niente di nuovo sul fronte orientale. Battaglie portentose e un drappello di personaggi posti sotto la lente di osservazione, non rappresentano certo una novità. Ciò nonostante, The great battle (recensione di Alan Smithee) diretto da Kim Kwang-sik (foto sotto) è tecnicamente realizzato alla grande, con scene di massa nitide e focus da mozzare il fiato, ancora più dettagliati. A Hollywood dovrebbero proprio vederlo, ne potrebbero trarre insegnamenti preziosi.
Crossing the border. Un film che trasmette piacevoli sensazioni, evitando di scivolare nella palude della retorica, è sempre il benvenuto. Discendente diretto di Una storia vera e L'estate di Kikujiro, Crossing the border (recensione di Supadany) coagula la mite saggezza di un nonno con la candida innocenza del nipotino, orchestrando un road movie nel quale da ogni incontro emerge un insegnamento di vita. Un analgesico ideale per disinnescare la frenesia dei tempi moderni.
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