Espandi menu
cerca
Il Cinema Messicano del nuovo millennio.
di Peppe Comune
post
creato il

L'autore

Peppe Comune

Peppe Comune

Iscritto dal 25 settembre 2009 Vai al suo profilo
  • Seguaci 174
  • Post 42
  • Recensioni 1523
  • Playlist 55
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

Pensando al cinema messicano degli ultimi anni, mi tornano spesso alla mente due aspetti in particolare, che per quanto sembrano inizialmente lontani, arrivano ad essere tra di loro abbastanza complementari : il Luis Bunuel messicano e la contiguità territoriale che il Messico ha con gli Stati Uniti. Se il secondo aspetto ha una consistenza più pregnante e diretta rispetto alle sorti poetiche della contemporanea cinematografia messicana, il primo è più propriamente il frutto di quei percorsi carsici che spesso la mente umana si mette a compiere, in una maniera del tutto libera talvolta e che altrettanto liberamente da corpo a delle assonanze concettuali più o meno pertinenti.

 

 

Per quanto riguarda Luis Bunuel, credo che ci siano due film del suo periodo messicano che sono fatti apposta per guardarsi insieme allo specchio : “I figli della violenza” e “L’angelo sterminatore”. Il primo concentrato sull’esistenza povera e disperata di ragazzi di strada, il secondo sull’indole parassitaria e autoreferenziale della morale borghese. I primi sono l’ultimo tassello del sintema sociale retto dai secondi ; gli uni rappresentano le vittime inascoltate di un disegno sociale che li vuole come gli agenti tellurici da poter sempre colpevolizzare all’occorrenza, gli altri incarnano la propensione del potere a speculare sulle profonde contraddizioni sociali. Chi conosce questi due capolavori sa che Luis Bunuel vestì di sagace simbolismo entrambi i film, concedendo ai figli della povertà tutta l’umana comprensione del caso, e rinchiudendo in una sorta di spazio vendicativo gli esponenti dell’alta società messicana.

 

Luis Buñuel

Il fantasma della libertà (1974): Luis Buñuel

 

Credo che le due direttive indicate sono ancora molto presenti nel variegato universo del “nuovo” cinema messicano, e non solo perché si tratta di temi abbastanza universali e trasversali, ma soprattutto perché il Messico è ancora oggi un paese attraversato da profonde ed insane contraddizioni. Un gigante dai piedi d’argilla, suscettibile di poter produrre in egual misura ricchezza esclusivista e povertà estrema, condizioni di benessere diffuso e stato di indigenza generalizzato. Queste contraddizioni ci rimandano alla stretta vicinanza del Messico con gli Stati Uniti, una vicinanza che genera quasi per forza di inerzia delle forti implicazioni di ordine culturale, economico e psicologico. L’epopea americana, anche attraverso il cinema, ci ha consegnato l’idea di un Messico come una zona di frontiera dove potevano trovare accoglienza tutti i “fuorilegge” in fuga dai territori sterminati del “selvaggio west”. Il Messico è rimasto un paese di frontiera, dentro cui si può restare per costruirsi un proprio posto nel mondo, o oltre il quale si tenta di fuggire per cercare di migliorare le proprie condizioni di vita. Quest’oltre ha naturalmente le fattezze geopolitiche degli USA, un paese grande ed ingombrante che per i messicani può essere centro d’attrazione permanente o bersaglio deputato di rivendicazioni giustizialiste, fonte di opportunità lavorative o fulcro d’irradiazione di un pericoloso spirito di emulazione, modello da imitare o terra di “gringos” da detestare. Sembra che in Messico convivano da sempre due atteggiamenti : la consapevolezza di essere un grande paese e la sensazione sempre invasiva di dovere vivere di luce riflessa.

Tutti questi aspetti messi in rilievo non necessariamente vengono esplicitati in maniera chiara nel cinema messicano di questi anni, ma vi fanno capolino in vari modi e in diverse forme espressive. Rinvenibili nella cruda rappresentazione della violenza urbana, nelle profonde diseguaglianze che permeano il tessuto sociale del paese, nel dominio capillare e indiscriminato delle bande criminali, nel corto circuito latente che intercorre tra i ricchi che esercitano il potere e il popolo minuto che lo subisce, nella circostanza psicologica di sentirsi un paese autosufficiente ma di dovere sempre stare a rimorchio. Assumendo le forme della rabbia che si trasforma in vendetta, del caos disarticolato di Città del Messico che trova il suo contraltare nelle disadorne regioni periferiche, del degrado urbano che migra nell’abbrutimento delle coscienze, della monotonia domestica che diventa alienazione dalla vita, della calma tragica che convive col senso di morte, dei venti rivoluzionari che mutano il loro aspetto in fatalismo disincantato. Ecco, se da un lato si può dire che la coeva cinematografia messicana, per la sua diversificata impronta poetica, sfugge alla tentazione di essere presentata come un corpo sufficientemente omogeneo per temi trattati e stile adottato, dall’altro lato possiamo indicare come elemento comune che lo attraversa con una consistenza più o meno marcata, l’esistenza di “nuovi figli della violenza”, altrettanto emarginati e più arrabbiati di prima, prodotti dalle contraddizioni planetarie e cresciuti all’ombra dei più autorevoli gestori del mondo globalizzato.

 

Alfonso Cuarón, Yalitza Aparicio

Roma (2018): Alfonso Cuarón, Yalitza Aparicio

 

Alejandro Gonzàlez Inarritu e Alfonso Cuaron sono certamente le gemme più lucenti del cinema messicano del nuovo millennio. I loro due film messicani, “Amores perros” (del 2000) e “Roma” (del 2018), rappresentano anche un ideale chiusura del cerchio rispetto al periodo temporale trattato. Due opere bellissime che sembrano anche camminare a braccetto per come vivono carnalmente la capitale e per come i loro personaggi sanno assorbire affrontandole tutte le contraddizioni che l’attraversano. Insieme a Guillermo Del Toro sono ormai delle star riconosciute, autori che filtrano sempre con la madre patria, ma che rappresentano anche la dimostrazione pratica del fatto che la vicinanza con il colosso statunitense li ha portati quasi naturalmente ad ibridare la singolarità delle rispettive poetiche con le dinamiche più propriamente commerciali richieste dall’industria Hollywoodiana.

Yalitza Aparicio

Roma (2018): Yalitza Aparicio

 

Ma il cinema messicano del nuovo millennio è anche molto altro. Per quello che mi riguarda, è soprattutto quello di Carlo Reygadas, tra gli autori più incisivi nel tradurre una particolare idea di cinema in apporti originali da offrire alla grammatica cinematografica. È un cinema ostico ed affascinante il suo, carico di simbolismi, pratiche ancestrali e corpi che si desiderano sessualmente,  film che mischiano alienazione metropolitana ed elegia naturalistica (“Japon” e “Battaglia nel cielo”), mistica visionaria e adesione estatica all’immensità del creato (“Luz silenciosa” e “Post Tenebra Lux”). Sempre attraversato da una discreta carica visionaria ma molto più incline a giocare a carte scoperte sul versante della violenza esibita è il cinema di Amat Escalnte, i cui personaggi sono come degli incubatori di rabbia pronti ad esplodere in ogni momento. Nel suo cinema la morte fa capolino con regolare naturalezza, portata in dote dalle bande del narcotraffico (“Heli”), dalla disperazione che arma le mani degli sfruttati (“Los Bastardos”), dall’ipocrisia benpensante che violenta i sentimenti (“La Region Salvaje”) o semplicemente dalla noia che prosciuga l’amore per la vita (“Sangre”). Il tema della morte è centrale anche nel cinema di Michel Franco, ma se in Escalante questa è un fatto che si lega alle profonde ingiustizie che popolano il paese, nei suoi film è il frutto di devastanti elaborazioni del lutto da parte dei suoi personaggi (della moglie-madre in “Despuès de Lucia”, del figlio in “Chronic”, con un densissimo Tim Roth). Cosa che si trasforma in un nocivo disadattamento alla vita. Rodrigo Plà, invece, punta a mettere in evidenza il rapporto asimmetrico tra chi il potere lo detiene e cerca di usarlo in maniera arbitraria e chi lo subisce e vorrebbe ribellarsi. Ne “La zona”, il suo sorprendente esordio, ci porta dentro un quartiere per ricchi che luccica per contrasto proprio in mezzo ad una fitta rete di baraccopoli che lo circondano. Una tentazione troppo grande per gli emarginati patentati. Ne “Un mostro dalle mille teste”, invece, una donna disperata combatte per la vita contro la tracotanza di una compagnia assicurativa. Una lotta impari contro il potere dell’alta finanza e suoi tentacoli anonimi e oppressivi.

 

scena

Battaglia nel cielo (2004): scena

Ruth Jazmin Ramos

The Untamed (2016): Ruth Jazmin Ramos

Hernan Mendoza

Después de Lucia (2012): Hernan Mendoza

Tim Roth

Chronic (2015): Tim Roth

 

A questi registi che già conoscono una certa notorietà internazionale e che possono godere di una decente fortuna distributiva, se ne aggiungono diversi altri che al momento sono noti solo nei ristretti circuiti festivalieri. Registi molto talentuosi che hanno quanto basta per confermarsi nel tempo, autori di film non meno belli e importanti (e vado ad elencare rimanendo ovviamente nei limiti delle mie conoscenze). Come David Pablos, autore del bellissimo “Las eligidas”, sul triste e diffuso fenomeno della prostituzione minorile. Oppure Josè Luis Valle, che ci porta ad indagare il mondo del lavoro col suo “Workers”, un film in cui i protagonisti si scagliano contro i “nuovi” padroni che li sanno sfruttare con ostentata benevolenza. O Sebastian Hofmann e il suo morto “non morto” in un dramma cupo come “Halley”, Pedro Gonzàles-Rubio, che con “Alamar” ci porta nella bellissima oasi naturalistica di Banco Chinchorro, a Cancun.

 

Nancy Talamantes

The Chosen Ones (2015): Nancy Talamantes

Jesús Padilla

Workers (2013): Jesús Padilla

Alberto Trujillo

Halley (2012): Alberto Trujillo

scena

Alamar (2009): scena

 

Ancora, Gerardo Naranjo, che mescola il mondo malefico del narcotraffico con i sogni infranti di una bellissima ragazza nel nero “Miss Bala” Fernando Eimbcke, che in “Club Sandwich” tratta l’iniziazione sessuale di un quindicenne in una commedia dal sapore agrodolce ; Alonso Ruizpalacios, autore di "Gueros", un on the road "familista" sullo sfondo di una rivoluzione mancata. Infine l’ultimo film del “vecchio” Arturo Ripstein, “La calle de la amargura”, una storia di triste emarginazione sociale.

 

Danae Reynaud, Lucio Giménez Cacho

Club Sandwich (2013): Danae Reynaud, Lucio Giménez Cacho

scena

Güeros (2014): scena

scena

La calle de la amargura (2015): scena

 

In conclusione, il cinema Messicano è vivo e vario, con una sua specifica unicità stilistica. Per essenzialita formale della messinscena, aderenza alle storie "urbanizzate" dei personaggi e propensione "realista" nel mostrare il carico di violenza presente nelle storie rappresentate, è certamente più vicino al cinema che si fa dalle parti del sud e del centro America che a quello prodotto dal sistema cinematografico statunitense. Almeno in fatto di cinema, il Messico si è quindi sottratto dalla morsa psicologica di un’ombra ingombrante.                         

Ti è stato utile questo post? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati