Tre film molto diversi per epoche, humus socio-culturale, obiettivi. Tre film italiani riguardanti il carcere.
Sciuscià (1946). I due ragazzini, prima di finire in carcere, non avevano ancora conosciuto il male. Certo, conoscevano la povertà, avevano visto la guerra; ma la guerra era poi finita, e dal loro punto di vista anche la povertà poteva essere considerata come una situazione passeggera. Due importanti pilastri sostengono le loro vite: la speranza verso il futuro e la loro amicizia. L'acquisto del cavallo, un bene di diporto, serve a dar loro un'illusione di ricchezza: è la concretizzazione di un sogno. L'esperienza del carcere segna quindi una diabolica e duplice cesura: nel chiuso di una cella non ci può essere un futuro, e l'amicizia risulta impossibile, in quanto piagata dalle necrosi del sospetto e dell'invidia. Essi guardano negli occhi per la prima volta cosa significhi l'età adulta, e più in senso lato che cosa significhi l'essere uomini, e ne rimangono pietrificati come se guardassero Medusa. Il male, in Sciuscià, viene a coincidere con l'uomo. Non è l'obiettivo di De Sica opporre una condanna ferma verso il sistema carcerario minorile, che pure fa acqua da tutte le parti; ma non c'è nemmeno gran partecipazione verso la tragedia dei protagonisti, inglobata in un disegno di superiore necessità. Il carcere è solo una delle tante forme possibili con cui si può sostanziare la sventura insita nella condizione umana.
Mery per sempre (1989). Diversamente dal film di De Sica, nel riformatorio Rosaspina i ragazzi hanno già compreso come giri il mondo e quale sia il proprio ruolo. Non è quindi il trauma del battesimo del fuoco l'asse portante dell'opera, perché esso è già avvenuto per tutti i giovani protagonisti, che sono taglieggiatori, ladruncoli di lungo corso, c'è persino un assassino. A provocare lo shock è il contatto con le idee anti-deterministiche del nuovo professore, il quale prova a convincere i suoi studenti della menzogna che è stata raccontata loro fin da quel momento. La mafia non è buona, il crimine non è l'unica soluzione anche se nasci nei sobborghi, eccetera eccetera. Rispetto a Sciuscià, il film di Marco Risi si insinua nei drammi privati dei giovani carcerati e infila la propria sonda dritta dritta nel degrado. Non fa quindi un discorso universale, ma pone all'attenzione un problema reale e circostanziato. Il professor Terzi potrebbe apparire come un eroe decadente, come un idealista superato, come un illuso, come un moralista, come la voce di una coscienza dormiente: si potrebbe accusarlo di buonismo, per usare un termine tanto abusato quanto idiota (peraltro, mi chiedo perché si "accusi" qualcuno di buonismo e mai di cattivismo). Terzi, più semplicemente, offre uno sguardo verso l’esterno del guscio alla sua atipica scolaresca: non si propone di salvare le loro anime, ma si limita a mostrare delle prospettive alternative. Il personaggio, che in Marco Risi peraltro coincide in gran parte con l’attore stesso (gli interpreti erano per la più parte detenuti o in semilibertà), ha la concreta possibilità di guardare fuori dal proprio sé e dal proprio microcosmo. Una facoltà, questa, che ai ragazzini di Sciuscià era negata a priori: la loro gabbia era l’intero universo, la condizione stessa dell’uomo. Loro si illudevano che fosse sufficiente possedere un cavallo, e un amico…
Cesare deve morire (2011). Qui i protagonisti, anch’essi carcerati autentici come in Mery per sempre, sono dei vinti. Nei ragazzi del riformatorio di Risi bruciava ancora una vivezza, quantunque espressa mediante la violenza. Nel film dei Taviani, al contrario, la maturità ha portato barbe lunghe e tanta rassegnazione. Gli scontri interpersonali sono sublimati attraverso l’opera shakespeariana, si tira di fioretto al posto che di sciabola; e dall’opera discendono anche le riflessioni sulla propria vita e sui propri errori. I protagonisti di Cesare deve morire, in verità, non fanno altro che riflettere sul passato, senza avere una tensione verso il futuro. E’ vero, anche loro hanno a disposizione un’occhiata verso l’esterno: l’arte. L’arte, oppio inebriante, meraviglioso diversivo. Ma l’arte è volatile come il presente. A chi non ha futuro, porta solo ulteriore rimpianto. «Da quando ho conosciuto l’arte, ‘sta cella è diventata 'na prigione».
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