Lunedì sera scorso ci hanno provato di nuovo. E la rete - sinonimo di opinione pubblica - è divisa: parte dei commentatori sciorinano le cifre. Il 27.5% con punte del 30%: quasi 8 milioni di spettatori. Un successone! Prevedibile: prendete un bestseller di tutti i tempi, che ha per di più avuto una gloriosa trasposizione sul grande schermo, aggiungete un budget sontuoso di 26 milioni di euro, con coproduzione internazionale e cast mica male. Sbattetelo in prima serata sul primo canale nazionale nella giornata - il lunedì - in cui mediamente gli italiani stanno a casa. Potreste fallire, ma è dura.
Eppure parte dei commentatori lo dicono: Il nome della rosa in versione serie tv fa abbastanza schifo. E io sono d’accordo.
Ma non ho interesse a confrontare la serie con il libro, né tanto meno a confrontarla con il film. Nè discutere se Turturro possa essere all’altezza di Connery. Non mi attira nemmeno qui il discorso storico, i paragoni possibili con l’attualità (c’è chi filosofeggiando ci prova). E se devo circoscrivere i motivi di quella che mi sembra una disfatta faccio anche un po’ fatica. Didascalica, noiosa, a tratti ridicola, scopiazzata: sono gli aggettivi che mi vengono in mente per una produzione che guarda oltreoceano (è già venduta in 130 Paesi, sarà trasmessa nel Regno Unito dalla BBC e in negli USA da Sundance Tv) e che insegue tutti gli stilemi della serialità americana.
L’avessero affidata a Matteo Garrone, magari, ne sarebbe venuto qualcosa di buono. Lui che - innamorato del Trono di Spade - ha poi girato il Racconto dei racconti pensando anche alla possibilità di farne una serie. Ma che mai e poi mai si è sognato di trasporre l’epica ridondante e fantasy della super serie americana, ispirandosi invece alle italiche tradizioni e a Calvino. E rispettando la luce della nostre fiabe e delle nostre terre.
Invece no: come già fu per I Medici, come secondo me è stato anche in parte con L’amica geniale, quando in Italia si prova a fare una serie si cade nel cliche. Mi tengo Suburra piuttosto, grazie, che almeno “copia bene”. O The Young Pope, con tutte le sue difficoltà, che invece cerca di parlare un suo linguaggio e ci riesce a tratti.
Poi hanno ragione i detrattori, quelli che non hanno mai visto una Serie vera e con la maiuscola: hanno ragione a chiamarle sceneggiati televisivi, o addirittura telefilm. Anche se ci sono 26 milioni di euro, le movenze sono quelle.
Sto guardando in questi giorni un prodotto abbastanza anomalo: è una serie israeliana, girata nel mondo della comunità Haredi, gli ebrei ultra-ortodossi. Si chiama Shtisel (scusate, la scheda sul sito sarà pronta la settimana prossima): è una storia piccola, domestica, sorprendente nella sua semplicità. La trovate su Netflix e guardandola potreste ammirarne la freschezza, gli sprazzi di poesia, i piccoli sipari metafisici che si infilano nella normalità di un quartiere povero di Gerusalemme, il vissuto degli individui a volte schiacciati dalle regole che abbracciano, a volte nobilitati dalle loro scelte, la descrizione di una condizione femminile opprimente, come in ogni comunità così legata alla tradizione.
Ovvio, non c’entra niente con il polpettone storico-thrilling, ma dimostra come si possa pensare alla serialità senza guardare necessariamente a ciò che hanno fatto gli altri e provando a usare la dimensione dilatata del racconto per fare comunque cinema autentico. Lunedì prossimo state certi che saprò cosa guardare. E la mia scommessa è che gli ascolti “sontuosi” del Nome della Rosa televisivo caleranno. Che dite?
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