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Italiani a Berlino
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Il Festival di Berlino in partenza il 7 febbraio presenta una nutrita selezione di titoli italiani sparsi per le varie sezioni. I generi proposti variano tra loro, passando dal dramma al documentario. È difficile al momento stabilire quanti ne vedremo in sala, dal momento che alcuni sono ancora senza distribuzione italiana, nonostante abbiano alle spalle dei solidi rivenditori internazionali.

 

CONCORSO

LA PARANZA DEI BAMBINI

In concorso spicca La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi. Diretto da Giovannesi e sceneggiato dallo stesso con Maurizio Braucci e Roberto SavianoLa paranza dei bambini racconta la storia di un gruppo di adolescenti che a Napoli, nonostante la loro giovane età, si confrontano con la malavita. Nicola e i suoi amici hanno solo quindici anni eppure hanno fame di soldi, di vestiti alla moda e motorini nuovi di zecca. Maneggiando armi, tengono sotto scatto il rione della Sanità. Tra di loro, si amano come fratelli e non temono nulla, né la prigione né la morte. Sanno che la loro unica possibilità è quella di rischiare ogni cosa seppur con l'irresponsabilità dell'adolescenza.

Ha sottolineato Giovannesi: «La paranza dei bambini racconta la relazione tra l'adolescenza e lo stile di vita criminale.  Il film mostra come un quindicenne e i suoi amici coetanei perdano l’innocenza. La decisione di Nicola, il protagonista, di abbracciare la criminalità diventa lentamente irreversibile e onnicomprensiva, richiedendogli il sacrificio del suo primo amore e dell'amicizia. In tale contesto, diviene per lui impossibile vivere i sentimenti di base della stessa adolescenza. Anche se il percorso verso gli inferi non è un desiderio innato nei giovani ma è una conseguenza derivante da una diffusa illegalità, La paranza dei bambini non vuole rappresentare nessun punto di vista sociologico. Si è per tale ragione scelto il punto di vista dei giovani, senza giudicarli, e si mostrano i loro sentimenti adolescenziali in relazione allo stile di vita criminale e all'ambizione del potere: la narrazione dell'arco criminale è sempre in relazione con la storia delle loro emozioni, delle loro amicizie e dei loro amori, che sono destinati a fallire proprio a causa di come hanno deciso di vivere».

Nato a Roma nel 1978, Giovannesi ha lavorato sia nella fiction sia nel documentario. Con una laurea in Lettere moderne e un diploma in Regia conseguito al Centro sperimentale di cinematografia, ha mosso i primi passi collaborando dal 2001 al 2004 con la redazione di Blob, il programma satirico di Rai 3, e ha esordito come regista di un lungometraggio nel 2009 con La casa sulle nuvole, guadagnandosi il Premio Speciale della Giuria al Bruxelles Film Festival. Nel 2009 ha portato il documentario Fratelli d'Italia al Festival di Roma, dove nel 2012 ha presentato Alì ha gli occhi azzurri. Dopo il documentario Wolf, nel 2016 è stato selezionato dalla Quinzaine des Rèalisateurs con Fiore. Ha inoltre diretto uno dei frammenti di 9x10 Novanta e due episodi di Gomorra - La serie.

La paranza dei bambini uscirà nei nostri cinema il prossimo 13 febbraio grazie a Vision Distribution.

scena

La paranza dei bambini (2019): scena

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PANORAMA

DAFNE

Diretto da Federico Bondi e sceneggiato dallo stesso con Simona Baldanzi, Dafne  racconta la storia di Dafne, una trentenne portatrice di sindrome di Down, esuberante e trascinatrice, che sa organizzare da sola la sua vita ma vive ancora insieme ai genitori, Luigi e Maria. Quando Maria muore all’improvviso, gli equilibri familiari vanno in frantumi. Luigi sprofonda nella depressione, tormentato dall’ossessione di lasciare sola la figlia quando anche lui se ne andrà… Dafne, invece, grazie anche al lavoro e agli amici di una vita, affronta il lutto con l’incoscienza di una bambina e il coraggio di una giovane donna, e tenta invano di scuotere il padre. Finché un giorno accade qualcosa di inaspettato: insieme decidono di affrontare un trekking in montagna, diretti al paese natale di Maria. Lungo il cammino, scopriranno molte cose l’uno dell’altra e impareranno entrambi a superare i propri limiti.

Ha raccontato Bondi: «Un giorno, qualche anno fa, vidi alla fermata dell’autobus un padre anziano e una figlia con la sindrome di Down che si tenevano per mano. Fermi, in piedi, tra il via vai di macchine e passanti mi apparvero come degli eroi, due sopravvissuti. Dafne nasce da questa immagine-emozione, la scintilla che mi ha spinto ad approfondire. Sono entrato con curiosità in un mondo che non conoscevo, finché ho avuto la fortuna di incontrare Carolina Raspanti, l’attrice protagonista, con cui è nata un’amicizia fondamentale non solo per il film ma anche per la mia vita».

Nel ritratto di Federico Bondi di una famiglia che cerca di far fronte al lutto, i ruoli sembrano invertiti. Dafne diventa quasi la madre e Luigi il figlio. Né l’inesperienza del lutto né la mutazione genomica scalfiscono l’ottimismo della protagonista, che si preoccupa teneramente del padre. Essere adulti per Bondi non è una questione di età anagrafica e ciò che conta veramente in una famiglia è solo il supporto, non importa chi supporti chi. La cosa fondamentale è restare uniti.

Nato a Firenze nel 1975, Bondi ha studiato Cinema all’Università di Firenze, lavorando poi come documentarista e regista di pubblicità. Mar Nero, il suo primo lungometraggio di finzione, è stato presentato al Festival di Locarno, dove ha vinto il premio per la migliore attrice. Selezionato in vari festival del mondo, il film ha avuto diverse nomination ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento. Dafne arriverà in sala grazie all’Istituto Luce.

Carolina Raspanti

Dafne (2019): Carolina Raspanti

 

 

IL CORPO DELLA SPOSA

Diretto da Michela Occhipinti e sceneggiato dalla stessa con Simona Coppini, Il corpo della sposa racconta la storia di Verida, una ragazza moderna che in un’inedita Mauritania lavora in un salone di bellezza, frequenta i social network e si diverte con le amiche. Quando la famiglia sceglie per lei un futuro sposa, Verida – al pari di molte sue coetanee – si vede costretta a prendere peso affrontando il gavage, per raggiungere l’ideale di bellezza e lo status sociale che la tradizione del suo paese impone. Mentre il matrimonio si avvicina a grandi passi, pasto dopo pasto, Verida mette in discussione tutto ciò che ha sempre dato per scontato: i suoi cari, il suo modo di vivere e – non ultimo – il suo stesso corpo.

Ha dichiarato la regista: «Alcuni anni fa, mentre mi guardavo allo specchio, mi sono soffermata sul volto. Stavo invecchiando, i segni erano visibili, e provavo un senso di decadimento. La giovinezza apparteneva oramai al passato e non c’era molto che potessi fare per evitarlo. Da quel momento, ho iniziato a guardare le donne attorno a me e a realizzare che molte inseguono la giovinezza a tutti i costi, ossessionate dai folli modelli di bellezza che vengono imposti. Istintivamente è nato in me il desiderio di realizzare un film su tale paradosso del mondo in cui vivo. Poco tempo dopo, ho letto per caso un articolo sul gavage (una sorta di alimentazione forzata, ndr) in Mauritania, dove le donne devono ingrassare per essere considerate belle e accettate dal futuro marito.

Attraverso la storia di una donna che arriva persino a mettere a rischio la propria salute per soddisfare un canone estetico imposto da altri, Il corpo della sposa vuole raccontare la complessità del rapporto tra le donne e i loro corpi su una scala molto più ampia. Fino a che punto i modelli sociali, spesso costruiti per soddisfare i desideri maschili, influenzano e condizionano le donne nel mondo? La Mauritania nel film funziona come un “altrove”, in opposizione al mondo da cui provengo e vivo, e tuttavia, nella sua paradossale inversione di una serie di rapporti, si trasforma in uno specchio che mostra il modo distorto in cui il corpo delle donne viene sempre percepito».

Nata a Roma nel 1968, la Occhipinti ha trascorso parte della sua vita tra Roma, il Marocco, Hong Kong, il Congo e la Svizzera. Nel 1991 si è trasferita prima a Milano e poi a Londra, dove ha cominciato a lavorare nel mondo del documentario e della pubblicità. A Roma dal 1995, ha girato vari documentari (tra cui Viva la Pepa! In Argentina) e ha collaborato dal 2005 al 2007 con Rai 2 dirigendo vari approfondimenti sull’immigrazione. Nel 2008 ha realizzato Sei Uno Nero, un documentario no profit sull’apertura in Malawi di una stazione radio per la prevenzione dell’Aids e della malaria, e nel 2010 il multipremiato Lettere dal deserto. Il corpo della sposa è il suo primo lungometraggio di finzione, prossimamente distribuito in sala da Lucky Red.

Beitta Ahmed Deiche

Il corpo della sposa (2019): Beitta Ahmed Deiche

 

 

NORMAL

Diretto da Adele Tulli, Normal  si interroga su quali siano i rituali, i desideri, i comportamenti legati al genere e alla sessualità, prefigurandosi come un viaggio tra le dinamiche di genere nell’Italia di oggi, raccontate attraverso un mosaico di scene di vita quotidiana dal forte impatto visivo, dall’infanzia all’età adulta. Un caleidoscopio di situazioni di volta in volta curiose, tenere, grottesche, misteriose, legate dal racconto di quella che siamo soliti chiamare normalità, mostrata però da angoli e visuali spiazzanti. Con uno sguardo insieme intimo ed estraniante, il film esplora la messa in scena collettiva dell’universo maschile e femminile, proponendo una riflessione – lucida, e provvista di ironia – sull’impatto che ha sulle nostre vite la costruzione sociale dei generi. Per cercare un nuovo significato a quella che ogni giorno e spesso senza troppo pensiero (e cuore) definiamo normalità.

Ha evidenziato la regista: «Nel mondo in cui viviamo, la questione del genere è un campo di battaglia. Violenza, discriminazione e disuguaglianza sulla base del genere sono fattori comuni nelle statistiche di tutto il mondo. Nei miei film precedenti ho lavorato su temi relativi al genere e alla sessualità sempre scegliendo protagonisti che riflettessero il punto di vista di chi si colloca ai margini delle convenzioni sociali dominanti. In questo lavoro volevo sperimentare un cambio di prospettiva, concentrandomi proprio su ciò che viene considerato convenzionale, normativo, normale. L’idea è di creare degli accostamenti che riescano a provocare un senso di straniamento e di sorpresa davanti allo spettacolo della “normalissima” realtà di tutti i giorni. Normal intende suscitare una riflessione sulle complesse dinamiche sociali attraverso cui costruiamo e abitiamo le nostre identità di genere.

Con un uso molto soggettivo del montaggio, del suono e dell'inquadratura, Normal supera in modo esplicito i confini del testo al fine di reinterpretarne i significati, mirando a trasgredire risposte immediate e definizioni preconcette e a generazione un campo visivo in cui la realtà può essere interpretata, problematizzata e ripensata. Normal, in ultima analisi, si propone di ispirare una conversazione sulla natura performativa delle nostre identità sociali».

Adele Tulli è una regista e una studiosa interessata al linguaggio del documentario sperimentale, così come agli studi sul genere e all’antropologia visiva. Nel 2018 ha completato un dottorato di ricerca alla Roehampton University di Londra approfondendo l’estetica cinematografica all’interno di contesti queer e femministi. Ha già diretto film pluripremiati come 365 without 377, sulle lotte della comunità lgbt, e cortometraggi come Menopausa ribelle, sulla femminista Thérèse Clerc. Normal sarà distribuito dall’Istituto Luce.

scena

Normal (2019): scena

 

 

SELFIE

Diretto da Agostino Ferrente, Selfie mostra le vite di Alessandro e Pietro, due sedicenni che vivono a Napoli nel quartiere di Traiano, luogo in cui nell’estate del 2014 il coetaneo Davide Bifolco è stato ucciso da dei colpi sparati da un poliziotto che per sbaglio lo aveva scambiato per un fuggitivo. Alessandro e Pietro sono amici inseparabili: mentre Alessandro lavora cameriere in un bar, Pietro sogna di diventare parrucchiere. I due ragazzi hanno accettato la proposta del regista di essere ripresi dalla videocamera di un iPhone, mostrando le loro esperienze quotidiane, la loro profonda amicizia, il loro quartiere (semivuoto nel mezzo dell’estate) e la tragedia che ha posto fine alla vita di Davide.

Ha commentato il regista: «Gianni Bifolco, il padre di Davide, ha accettato di incontrarmi in un bar a Traiano. Gli ho chiesto di raccontarmi della tragica morte del figlio, un sedicenne innocente ucciso dalla polizia. Gli ho spiegato mentre desolato mi raccontava la vicenda che non ero interessato a condurre un’indagine su ciò che era successo ma che volevo invece raccontare il contesto in cui la tragedia si era verificata. Ciò che volevo era conoscere coetanei di Davide e, attraverso la sua storia come punto di partenza, capire e mostrare il loro mondo. Mentre parlavamo, Alessandro, il cameriere del bar, ci ha portato i caffè. Adolescente, andava di fretta perché doveva prepararsi per la festa della Madonna dell’Arco. Gli ho allora chiesto se fosse disponibile a riprendere la festa con lo smartphone che io stesso gli avrei dato e a essere sempre al centro della ripresa. Ha accettato e il risultato mi ha impressionato notevolmente: durante la processione, ha pianto ma non ha mai smesso di riprendersi, con la statua della Vergine dietro lui. Il giorno dopo, sempre nello stesso bar, un ragazzotto più in carne e con i baffi mi si è avvicinato e si è presentato come il miglior amico di Alessandro. Si trattava di Pietro e, anche se sembrava più grande, anch’egli aveva sedici anni. Ho allora proposta a entrambi di filmarsi con il mio iPhone.

Coinvolgendo anche altri loro amici, ho cercato di dare voce a chi normalmente quella voce non ce l’ha. Ho chiesto loro di trasformare lo smartphone in una loro protesi e di usarlo come specchio per riflettere non solo se stessi (come accade con i selfie che milioni di giovani di tutto il mondo postano sui social) ma anche la realtà che li circonda, il loro contesto sociale e umano, il loro mondo, le loro vite. Ne è venuto fuori il loro desiderio di una vita normale e, di conseguenza, il loro conflitto con l’universo in cui vivono, un universo in cui la maggior parte dei giovani finisce all’interno di bande criminali ed è considerato alla stregua di un disertore se tenta di uscirne».

Nato a Cerignola nel 1971, Ferrente prima di debuttare nel mondo delle produzioni cinematografiche ha lavorato come coordinatore editoriale di magazine e programmi di approfondimento giornalistico indirizzati agli Italiani che vivono all’estero. Laureato al DAMS di Bologna, ha frequentato la Ipotesi Cinema, la scuola di cinema del compianto Ermanno Olmi, e nel 1993 ha realizzato il suo primo cortometraggio. Sostenitore dello storico cinema Apollo di Roma, insieme a Mario Tronco (il leader del gruppo Avion Travel) ha creato l’Orchestra di Piazza Vittorio, a cui ha anche dedicato un documentario (L’orchestra di Piazza Vittorio) premiato in vari festival. Nel 2013 insieme a Giovanni Piperno ha diretto Le cose belle, presentato al Festival di Venezia. Selfie arriverà in sala grazie all’Istituto Luce.

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Selfie (2019): scena

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GENERATION K-PLUS

ANBESSA

Diretto da Mo Scarpelli, Anbessa è un racconto di formazione con al centro un bambino che vive la modernizzazione a modo proprio, manifestando una prospettiva unica e magica sul mito del “progresso”, che ci intrappola tutti. Asalif, un bambino di dieci anni, e sua madre sono stati spostati dalla loro fattoria alla periferia di Addis Abeba a causa della costruzione di un complesso edilizio. Mentre osservano gli edifici prendere forma, hanno modo di capire attraverso piccoli o grandi cose che il progresso non fa per loro. Per combattere contro chi gli dà la caccia e contro coloro che minano la sicurezza della madre, Asalif attinge alla sua fantasia per trasformarsi nel suo eroe preferito: il leone (anbessa in amarico). Grazie a tutta la sua immaginazione, può combattere contro forze che non dipendono dal suo controllo e dalla sua volontà. La fantasia lo porta in posti che non avrebbe mai immaginato fino a quando non capisce che la forza che ha trovato non deriva dal leone ma dal coraggio che ha nell’affrontare la marea del cambiamento e la violenza che stanno usurpando la sua comunità, il suo paese e la sua stessa identità.

Ha dichiarato la regista: «Nel 2015 ho iniziato a girare intorno alla costruzione di un complesso edilizio ad Addis Abeba. Ero incuriosita da come il progresso avesse avuto la meglio su una cultura storicamente restia alle influenze esterne. Ai margini del sito, ho poi incontrato un ragazzino con una propria visione del progresso: scacciato dalla sua casa di campagna, aveva trovato rifugio in un’abitazione di fortuna ai margini di quello che a tutti gli effetti era uno dei più grandi complessi condominiali nella storia dell’Africa orientale. Era come se vivesse sospeso tra due differenti realtà, una vecchia e una nuova, e cercasse una propria dimensione in un mondo che costantemente gli ricordava che le promesse della modernità non sono pensate per lui o per persone come lui. L’immaginazione e l’apertura mentale di Asalif, così chi chiama il bambino, mi hanno affascinata. Asalif credeva di poter affrontare il mondo canalizzando la forza del leone, il suo animale preferito. Sebbene la storia abbia luogo ad Addis Abeba, ciò di cui si racconta è universale. La gentrificazione, l’industrializzazione e il capitalismo annientano coloro che non sono pronti al cambiamento».

Nata nel Michigan nel 1986, Mo Scarpelli ha origini italiane. Documentarista e direttrice della fotografia, ha incentrato i suoi lavori sull’innata poesia dell’animo umano e sulla capacità dell’uomo di rielaborare la realtà ricorrendo al mito o a nuove versioni di storie già metabolizzate. Frame by Frame, il suo primo documentario, è stato presentato all’SXSW 2015 prima di fare il giro dei festival di mezzo mondo.

scena

Anbessa (2019): scena

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FORUM

GLI ULTIMI A VEDERLI VIVERE

Diretto e sceneggiato da Sara Summa, Gli ultimi a vederli vivere porta nel sud dell’Italia (il film è sostenuto dalla Lucana Film Commission) sul finire dell’estate. La famiglia Durati vive in una casa isolata in un mezzo a un arido paesaggio, dove la routine non è niente di particolarmente eccezionale. Protetti ma al contempo separati da tutto, i Durati sono collegati fisicamente con il resto del mondo da una sola strada che corre fino alla loro piantagione di ulivi. Un giorno, mentre si preparano a festeggiare l’imminente matrimonio della sorella maggiore, il tempo sembra volare via: ognuno si prepara a modo proprio alle nozze. I figli Dora e Matteo e i genitori Renzo e Alice non sanno che quello sarà il loro ultimo giorno di vita.

Il fatto che lo spettatore conosce la loro fine imminente cambia il modo in cui lo stesso vede e percepisce le loro piccole azioni quotidiane, piccole o grandi che siano. La vita appare improvvisamente fragile e sembra che tutto prenda un ritmo più lento. Ogni evento viene mostrato da prospettive differenti, scelta che conferisce loro maggiore importanza. Tutto, dal montaggio alla musica, provvede a scandire un inevitabile conto alla rovescia. Morte e omicidio sono temi cinematografici comuni ma la regista preferisce concentrarsi radicalmente sulla prima, raccontando la storia di un brutale crimine in una maniera del tutto inedita e unica.

Ha sottolineato la Summa: «Tutto è minimalista: una casa, un giorno, quattro personaggi. I componenti della famiglia si muovono intorno alla proprietà e li seguiamo senza un reale scopo. La storia non ha né un inizio né una fine: è semmai una trance di vita. A poco a poco si rivelano le regole e i meccanismi che governano le dinamiche della famiglia. I personaggi vengono definiti scena dopo scena, le loro relazioni si materializzano sullo schermo e si scopre la loro singolarità. I Donati si avvicinano all’appuntamento con la morte, qualcosa che rispecchia la fine di tutti noi, spesso inaspettata ma sempre certa. Rendendo lo spettatore testimone delle loro vite interrotte, il film getta una luce speciale sugli eventi del giorno e sulla dimensione distintiva del tempo.

Mi affascinava anche mettere in scena i componenti di una famiglia le cui scelte e azioni sono ancorate ai valori della religione e della tradizione. Il loro è un modo calmo ma angosciante di attraversare il mondo, un modo che dà molte certezze ma che non lascia molto spazio alla libertà individuale. I conflitti che i Donati affrontano rivelano sia le contraddizioni sia il potere ambiguo di un modello familiare conservatore, trasformando quello dei Donati in un ritratto universale.

Nonostante la rigidità del loro mondo voltato al passato, ciascuno dei quattro protagonisti si proietta verso il futuro fino a quando non interverrà la morte a interrompere tutto. E questo slancio interrotto è qualcosa che mi tocca particolarmente».

Nata in Francia nel 1988 da una famiglia italiana, Sara Summa è attiva nel mondo del cinema e del teatro sin dall’infanzia. Nel 2011 ha completato gli studi in Cinema portati avanti tra la Francia, l’Italia e gli Stati Uniti. Attiva come regista e sceneggiatrice dal 2008, ha diretto diversi corti prima di dedicarsi a Gli ultimi a vederli vivere, suo primo lungometraggio.

Pasquale Lioi, Barbara Verrastro, Donatella Viola, Canio Lancellotti

Gli ultimi a vederli vivere (2019): Pasquale Lioi, Barbara Verrastro, Donatella Viola, Canio Lancellotti

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