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La battaglia e il movimento
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Questo appuntamento con la scrittura mi obbliga a fermarmi. A fermare le mie visioni, a pensare a cosa ho visto, a cercare un disegno se non proprio un senso in ciò che guardo, o forse, in quel che resta dentro di me dopo tutte queste ore di film macinati. A volte è una singola scena, a volte un concetto, a volte una sensazione, che vanno lavorati, ampliati, cesellati. Questa volta no. Questa volta non devo fare niente, devo solo fermarmi in questo centro bianco e guardare ai quattro punti cardinali per scoprire di essere circondato. Da quattro fotogrammi. E altrettanti film.

Il primo fotogramma ha le tonalità del nord, il grigio, principalmente. Il grigio della Francia contemporanea, il colore della crisi che la avvolge. In questo scenario c'è Olivier, su cui si scaricano vari livelli di tensioni. Al lavoro la situazione non è buona, lavora in un'azienda che è sottoposta alle logiche della razionalizzazione, precarietà da un lato, tagli al personale dall'altro. Olivier è efficiente, Olivier è preciso, i tagli non riguardano lui ma i suoi compagni di squadra. Nella Francia attuale, quella dei gilet gialli, non è più possibile fare finta di niente, e Olivier difende la sua squadra assorbendo su di sè tutte le pressioni; non dice sempre tutto quel che sa, cerca di proteggere i più deboli, perché Olivier pensa di essere forte, pensa di avere le spalle larghe, Olivier pensa di avere le spalle larghe come le aveva il padre, uomo di sindacato, uomo di valore. L'equilibrio - artificioso come tutti gli equilibri - si rompe fragorosamente quando la moglie se ne va, di punto in bianco. E lo lascia con due figli da gestire. Olivier è buono, Olivier ci prova, Olivier ci può anche riuscire a gestire tutto, ma la fuga della moglie non è una semplice perdita, non è una morte da digerire lentamente, la fuga della moglie si trasfigura in un gesto di accusa nei suoi confronti. E l'accusa, e il giudizio in essa implicito, sanno fare solo una cosa molto bene: paralizzare. La sua battaglia sarà quella per rimettersi in movimento, abbandonare il Nord, con i figli, anzi grazie ai figli. E le sue battaglie diventano Le nostre battaglie, al cinema dal 7 febbraio.


Non che a Sud le cose vadano meglio. Perché il secondo fotogramma che vedo, con una rotazione di 180 gradi mi porta in Italia. Nell'Italia degli anni '50 - l'Italia de Il grido di Michelangelo Antonioni - non ci sono gilet gialli ma contadini che protestano. E in quell'Italia c'è Aldo con la sua bambina - un feticcio, un pacco senza vita né futuro - che gira a vuoto tra vari piccoli paesi del Po', tutti uguali e diversamente ostili. Forse esiste una città, da qualche parte, che potrebbe accoglierlo, forse esiste un paradiso più a Sud o a Ovest (il Venezuela?), ma in un incubo di nebbia e solitudine, Aldo pur cercando disperatamente il movimento non ha gli strumenti per dare una direzione al suo agire, non riesce ad uscire dal cul de sac che è l'Italia di quegli anni e in una coazione a ripetere può solo percorrere svariati chilometri a spirale, finendo dove tutto era cominciato: giù da una torre dello zuccherificio in cui lavorava all'inizio. La potenza è nulla senza il controllo, il movimento è inutile senza una direzione.


Ruoto lo sguardo di 90 gradi. Passo l'oceano e approdo negli Stati Uniti. Sono gli anni '70 e dentro a questo fotogramma c'è Alice che dopo essere rimasta vedova di un uomo che non amava insegue un sogno e una vita possibile, ovviamente con un figlio. In questo fotogramma Alice già non abita più lì perché gli Stati Uniti degli anni '70 non sono l'Italia degli anni '50. Ci hanno sempre detto che gli Stati Uniti sono la terra del possibile, anche se sei madre, vedova e predisposta alla disillusione. Alice sognava di cantare quando era piccola e viveva a Monterey, poi è finita in quel buco di Socorro, New Mexico, ma il destino le ha offerto un'altra possibilità e allora via, vende tutto, conserva solo quello che davvero serve o che nessuno ha voluto comprare, carica le sue tre valigie sul tetto della sua macchina e si mette in movimento verso ovest, esatto, quell'ovest. Nella terra delle possibilità se dici al gestore di un bar qualsiasi di saper cantare può capitare che ti metta alla prova e ti compri un pianoforte. Non importa se poi cerchi di rovinare tutto iniziando una storia con un uomo sposato e violento. Non importa se dovrai scappare in fretta e furia con tuo figlio e finirai per fare la cameriera in uno squallido fast food della provincia americana un po' più a ovest. Ci sarà ancora una possibilità per te, Alice, di avvicinarti a Monterey. E comunque quel cavallo pazzo e imprevedibile di tuo figlio farà amicizia con quella selvaggia di Jodie Foster e andranno a lezione di chitarra insieme.


Nell'ultimo fotogramma che completa il mio panorama fatto di genitori single e figli in movimento, Moses e Addie si sono appena lasciati ma lo sanno tutti e due che non possono più stare separati. Anche se la razionalità spinge per la soluzione meno rischiosa, come sempre. Anche se quell'adorabile bambina non è sua figlia - nel film perché invece nella realtà lo è eccome - anche se lui è uno spiantato dagli occhi azzurri e insieme hanno cercato di fregare un po' tutti, con una certa predilezione per dei brutti ceffi che se lo meritavano anche, di essere fregati. La soluzione migliore, quella morale, quella più ragionata, sarebbe proprio quella: ognuno per la sua strada. Invece no, la strada può essere solo una, la stessa. Quella che si distende davanti a loro in quell'ultima inquadratura, quella che attraversa l'America squassata dalla Grande Depressione, in cui per sopravvivere si deve cercare di (ri)vendere ai contrabbandieri il proprio alcol. La strada che fa prendere Peter Bogdanovich a Moses e Addie in Paper Moon è lunga, bianca e simbolicamente in discesa, almeno per un po'. Che si fotta, l'America. E che si fotta anche la Grande Depressione.
La battaglia è il movimento.

 

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