Il cinema di Theo Anghelopoulos ha sempre aderito molto alla tradizione culturale della Grecia, non tanto riproponendone i miti o magnificandone i padri letterari, ma dando al respiro epico della storia una precisa connotazione cinematografica. Soprattutto i film degli anni 70 (“Ricostruzione di un delitto”, “I giorni del 36”, “La recita”, “I cacciatori”, “Alessandro il Grande”) hanno raccontato la storia della Grecia e dell’Europa donandogli una solennità visiva del tutto particolare. Lunghi piani sequenza, campi totali maestosi e sinuosi movimenti di macchina, hanno rappresentato i cardini di una cifra stilistica subito riconoscibile, culminata con l’elevata dignità conferita alla lentezza cinematografica. Poi il suo cinema è andato un po’ calando, con film dove una certa verbosità stilistica ha finito per togliere fluidità alla narrazione. Fino al suo ultimo grande film, “Lo sguardo di Ulisse”, dove la narrazione d’impronta storiografica si mescola sapientemente con i simboli che stanno a certificare la fine della storia. A mio avviso, se c’è una sequenza cinematografica che da sola può valere la visione di un film, questa è quella che ritrae una chiatta che attraversa lentamente un fiume mentre trasporta i pezzi di una maestosa statua di Lenin. Siamo dentro i Balcani martoriati da una crudele guerra fratricida e al cospetto delle ultime vestigia di un mito andato in disgrazia. Il passato sta smobilitando, il presente con concede speranze e il futuro ha la faccia in certa di una profonda crisi valoriale.
È in questa crisi che ha trovato la sua linfa vitale il “nuovo” cinema greco, che se non è avvicinabile a quello del maestro per il respiro stilistico conferito alla messinscena, lo è certamente per l’attitudine quasi naturale di dare uno stile riconoscibile all’analisi per immagini del divenire storico. Il cinema greco dei giorni nostri conserva una sua innata classicità, facendo dei suoi personaggi delle maschere archetipe che sulle loro spalle sembrano voler reggere tutto il peso di una profonda dismissione dei valori. Senza far ricorso ad una messinscena elegiaca o al fragoroso esplodere della tragedia, ma attraverso la gravità di volti inespressivi che è come se fossero immobilizzati in un presente senza fine, alla ricerca infruttuosa di una moderna Itaca.
Se c’è un filo conduttore che accomuna il variegato gruppo di autori greci, questo è il carattere volutamente straniante e anti spettacolare che attraversa la quasi totalità dei loro film che, in concreto si traduce in una sorta di “nonsense” che trova la sua ragion d’essere nell’indefinibile complessità del mondo contemporaneo. Perché quello greco è soprattutto un cinema che riflette sulla coeva crisi della “modernità” e che proprio il popolo greco ha vissuto come una sorta di vittima sacrificale.
La crisi economica spiegata a chi non la conosce”. Potrebbe essere questo il titolo ipotetico di un convegno dedicato al cinema greco contemporaneo, a tanti di quei film che in questi ultimi anni stanno ragionando sulle ferite aperte del loro paese. Con l’importante precisazione di farlo portando la macchina cinema al limite delle proprie potenzialità stilistiche, preferendo l’astrazione ellittica al piglio più strettamente militante. Detto altrimenti, piuttosto che fare delle descrizioni “veriste” (cosa di cui è più incline il "nuovo" cinema rumeno ad esempio) su delle vite messe sul lastrico dalla crisi incipiente, di ragionare sul rapporto di causa effetto tra ciò che si decide altrove in un tempo dilazionato e quello che succede in concreto qui e ora (alla Ken Loach, per intenderci), si preferisce procedere per ellissi narrative che evocano sotto testi da interpretare, di ragionare sulla destrutturazione del linguaggio e sull’immaginario che cambia sempre pelle e padrone. Quasi sempre caratterizzando la regia con uno stile asciutto, asettico, freddo, privato di calore e colore, addirittura anti narrativo. Così facendo, la crisi economica si lega più propriamente ad una crisi etica della società più in generale e i valori che la reggono si ribaltano in disvalori che servono allo scopo di riempire vuoti esistenziali, deficienze sentimentali e derive anaffettive.
Non solo Yorgos Lanthimos (ormai star internazionale riconosciuta), che prima delle produzioni oltre confine ha fatto tre film fondamentali (“Kinetta”,“Kynodontas” e “Alps”) che possono essere considerati come dei modelli poetici di riferimento per il nuovo cinema greco. Ma anche Babis Makridis ("L","Pity"), Athina Rachel Tsangari ("Attenberg","Capsule","Chevalier"), Ektoras Lygizos ("Boy Eating the Bird’s Food”), Alexandros Avranas ("Miss Violence"), Yannis Eeconomides ("Stratos","Knifer"), Argyris Papadimitropoulos ("Suntan"), Syllas Tzoumerkas ("A Blast"), Michalis Konstantatos ("Luton"), Christine Koutsospyrou e Aran Hughes ("Sto Liko".) Tutti autori che riflettono sulla difficoltà dell'uomo moderno di trovare una sua precisa identità e sull’impossibilità dei sentimenti umani di svilupparsi secondo natura ; tutti film popolati da corpi che sembrano muoversi a comando, da relazioni umane divorate dall'anaffettività, da parole destituite di senso, dal sesso fatto meccanicamente, da emozioni che non emozionano e da carezze che non producono affetto.
Qualche volta sono tragedie moderne venate di surrealismo futurista ("Kynodontas", "Alps", "L", "The Capsule") o drammi esistenziali che si vestono di tragedia (“"Pity", "Luton", "Boy Eating the Bird's Food"). Altre volte sono delle finte commedie divorate dalle ossessioni (“"Chevalier", "Attenberg", "Suntan") o dei veri noir senza dei criminali accertati ("Kinetta", "Miss Violence", "Stratos", "Knifer","A Blast").
Quasi sempre si tratta di film di ottimo valore (con qualcuno che rasenta il capolavoro, come “Kynodontas” e “Boy Eating the Bird’s Food”) i quali, prima di essere giudicati seguendo dei canoni estetici, andrebbero valutati in ragione di quanto e come sanno porsi come fonte di analisi attendibile ed originale insieme del postmoderno.
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