Una sera come tante, nel commissariato di Copenaghen, il poliziotto Asger si prodiga ad ascoltare le chiamate di aiuto presso il pronto intervento presso cui egli lavora: un'attività che lo vede impegnato in prima persona, ma solo a livello telefonico: in diretta con l'epicentro del problema o l'urgenza cruciale da risolvere, ma schermato da un cavo che ne impedisce la percezione tattile, a volte determinante per consentire di risolvere l'emergenza.
Una chiamata come tante, riesce a trasformarsi in un vero e proprio rompicapo che metterà a dura prova il peraltro già ampiamente collaudato sistema nervoso e l'abilità intuitiva dello zelante poliziotto.
The Guilty, opera prima di natali danesi, ad opera di un giovane e brillante regista e sceneggiatore trentenne svedese di nome Gustav Moller, conserva con fierezza quella unità di luogo e d'azione a cui solo una calibrata tensione, calcolata nei minimi particolari, riesce a garantire il mantenimento di una tensione che diviene il perno centrale di tutta l'impalcatura narrativa.
VOTO ***
l film è un vero e proprio vortice narrativo girato con una quasi maniacale calligrafica precisione di riferimenti scenografici, da rendersi prodotto adatto e consigliato alle folle - nonostante le oltre tre ore di durata complessiva che possono costituire di fatto minaccia non indifferente per la massa.
E procede, intrigante, frullando ogni storia e risvolto familiare, spesso contingente con lo spinoso panorama geopolitico circostante, fino al suo epilogo quando le forze della ragione sembrano tornare ad illuminare il raziocinio perso in due epoche di guerre, sul campo e fredde che siano state.
Se dal punto di vista narrativo il film scivola spesso in trabocchetti sensazionalistici tipici dell'intrigo sentimentale edulcorato come in una telenovela di lusso pur saldamente ancorata a basi storiche più che solide, se un merito si può davvero riconoscere all'epopea burrascosa e melodrammatica lunga come un fiume che si dipana nel corso di un trentennio focale della tormentata ed insanguinata storia tedesca, è senz'altro quello di averci restituito davvero un istruttivo scorcio pregno di ribaltamenti storico politici come meglio non avremmo potuto sperare di leggerlo nella più completa e sunteggiata delle enciclopedie.
VOTO **1/2
UN AFFARE DI FAMIGLIA - Giappone
La famiglia, i bambini, i vecchi, le generazioni differenti che si tramandano la staffetta di una vita sempre più in salita: il cinema e, più in generale, la poetica di Kore-eda sono quasi sempre incentrate su queste tematiche primarie inerenti la nostra organizzazione sociale. Questa volta lo sguardo discreto, ma finemente indagatore del grande cineasta, si volge verso lo strato sociale più povero, quello della gente che rasenta l'indigenza.
Kore-eda si prende i suoi tempi, che gli richiedono le solite due ore abbondanti, appena sufficienti tuttavia per sviscerare i fatti, e tutto ciò che di molto umano dietro di essi si cela. Un cinema in grado di farci riflettere e di provocare emozioni, restando schietto nella narrazione, senza fronzoli melodrammatici ruffiani ed evitando qualsiasi inutile melancolica strumentalizzazione delle circostanze: cosa per nulla scontata, almeno se si dimentica per un attimo la levatura del magnifico regista che ci troviamo di fronte.
VOTO ****
Dal regista di Tulpan, Sergey Dvortsevoy, in film duro e freddo come la vita aspra in una società spietata ove la povertà del e anche fare i conti con un clima ostile che può portare già di per sé stesso ad una fine prematura. Su Ayka si condensano tutte le tragedie immaginabili nel contesto di un susseguirsi nefasto di eventi che trascinano la povera donna verso una strada senza ritorno. Personaggio potente che non cede a sentimentalismo distorto e funzionale altrove a rendercela più simpatica, Ayka è invece tutto il contrario, dimostrandosi il film potente e spietato, forte di una serietà di intenti e documentazione non frequente. Certo le tematiche ci sono. Manca forse un po' un accenno stilistico, a mio avviso completamente assente.
VOTO ***
Zaid ha dodici anni e vive nel centro storico e più povero di Beirut, assieme ai molti figli che la sua povera famiglia ha a disposizione come unica risorsa piovuta dal cielo. Una vera e propria risorsa se i due genitori si vedono costretti a dare in sposa, letteralmente vendendola, la figlia ancora bambina nel momento in cui, tecnicamente, dimostra di essere divenuta donna.
Zaid giura a se stesso di andare a riprendersela, e nel suo viaggio, solo ed affamato, giunge nella antica località ora turistica della Galilea affacciata sul Lago di Tiberiade, conosciuta, anche grazie ai testi Sacri, col nome di Cafarnao.
Bisogna dare atto, alla affascinante regista, sceneggiatrice ed attrice libanese Nadine Labaki, di saper scegliere molto bene i suoi interpreti: facce giuste, come quelle straordinarie dei due bambini, il giovane Zaid, ma pure il neonato figlio della clandestina, espressivo oltre ogni umana possibilità, del quale la macchina riesce a catturare espressioni e gesta davvero sensazionali. Volti sensazionali per espressività e resa scenica: su questo non si può avere nessuna riserva o remora.
Il problema non da poco della pellicola però, è che la Labaki, spesso protagonista dei suoi lavori, ma che qui si ritaglia solo un ruolo di contorno di una avvocatessa protesa alla difesa del minore, non riesce a strutturare lucidamente una vicenda che, pur drammatica ed indubbiamente coinvolgente, sfrutta tendenziosamente le qualità espressive delle sue piccole star, divenendone schiava o presa in ostaggio.
Pertanto assistiamo a scene madri insostenibili, come quella ambientata in tribunale, col protagonista che accusa i genitori di insensibilità e mancanza di senso di responsabilità, in un crescendo drammatico che diviene completamente insopportabile, ricattatorio, portavoce di un sentimentalismo che cavalca lo sdegno epidermico, ma che proprio per questo diviene strumentale ad un calcolo commerciale sapientemente calcolato, e proprio per questo fin subdolo.
VOTO **
Nella capitale messicana degli anni '70, un cortile di una abitazione borghese insozzato di merde del festoso e ben stazzato cane della famiglia che lo abita, e ripulito di malavoglia e distrattamente dalle due domestiche di casa, fa da sfondo alle vicissitudini di una comunità travagliata da avvenimenti intimi e socio politici che segneranno ognuno dei membri (padre medici, madre biochimica, quattro figli bambini e una nonna).
Tutto sotto lo sguardo delle due domestiche, messicane pure loro ma di etnia e lingua madre differenti, di cui in particolare conosceremo Cleo, giovane amata dai bambini e considerata da costoro quasi una sorella maggiore.
Nel cortile delle merde di cane e degli scorci poetici riflessi attraverso l'acqua del risciacquo, si consuma il disgregarsi della famiglia tradizionale, e il consolidarsi di quella degli affetti genuini. Il felice ed ispirato ritorno in patria di un grande autore.
VOTO ****1/2
È una meraviglia, soprattutto per gli occhi, affrontare da spettatore una storia d'amore drammatica che sorvola gli anni e i luoghi della cortina spuonistuca e della guerra fredda che, proprio in quei "caldi" anni, definisce un nuovo tormentato volto ad una Europa comunque perennemente divisa tra Occidente ed Oriente secondo un equilibrio sempre e solo precario sormontato da due estreme superpotenze.
La fotografia meravigliosa in bianco e nero ha molti meriti, così come le scenografie studiatissime e perfette. Gran regista, grande cast che trova nella coppia Zula/Viktor, una amalgama erotica perfetta, come a riunire nei migliori anni della reciproca bellezza una esplosiva Brigitte Bardot col migliore Rupert Everett. Nei rispettivi ruoli, Joanna Kulig e Tomasz Kot sono perfetti, e la musica che li circonda e segue l'evolversi del tempo, è la colonna sonora migliore per celebrare la perfetta alchimia.
VOTO ****
Quando il giovane fattorino con aspirazioni a diventare scrittore, Jongsu, viene avvicinato dalla bella Haemi, che gli rivela di essere stata una sua più giovane compagna di istituto (alla quale peraltro egli aveva solo dedicato qualche parola piuttosto grossolana, i due iniziano a frequentarsi fino a piacersi fisicamente, consumando qualche rapporto nel piccolissimo appartamento di lei.
Chang-dong ci trasporta in un intrigo in cui tutto è supposizione, e le idee o manie di persecuzione del nostro un po' ingenui, un po' sfortunato protagonista, sono gli stessi scarni indizi di cui disponiamo. L'incasso si prende tempi sin troppo dilatati, ma il mistero è giocato ecscandito piuttosto bene, salvo poi farci rimanere radicalmente aggrappati a più dubbi che soluzioni, sino al momento del confronto risolutivo finale, quello della spogliazione (in senso anche letterale), che in qualche modo rende concreto il vuoto di cui si circonda il nostro ragazzo, ormai solo al mondo col suo furgoncino scassato e lurido. Non siamo certo ai livelli delle precedenti due eccezionali opere del gran regista sudcoreano, ma Burning possiede e coltiva dentro il suo lento ed ineluttabile misterioso svolgimento, le incognite giuste per destabilizzarci e inquietarci quanto basta.
VOTO ****
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