Dopo dieci giorni di programmazione, il Festival di Venezia giunge a conclusione. Tra poche ore sapremo chi sarà il vincitore del Leone d’Oro di questa settantacinquesima edizione. Difficile è fare delle previsioni, da Roma a Suspiria, passando per Capri Revolution e Opera senza autore, tanti sono i lungometraggi che potrebbero aspirare al massimo riconoscimento. L’edizione che si sta per chiudere sarà ricordata come una delle migliori: la media del concorso, seppur con le dovute eccezioni, è stata ottima e non hanno sfigurato nemmeno le sezioni collaterali, da Orizzonti in giù. Spetterà a Guillermo del Toro, presidente di Giuria, sorprenderci.
L’ultimo film in concorso, Killing, batte bandiera giapponese. A tre anni di distanza da Fires on the Plain, Shinya Tsukamoto si ripresenta al Lido con la storia di un ronin costretto a fare i conti con ciò che significa per un essere umano uccidere. Protagonista della vicenda è Mokunoshin Tsuzuki, giovane che a metà dell’Ottocento vive nelle campagne di un Giappone sempre più povero. Esperto di spada, per via dell’assenza di guerre da quasi due secoli e mezzo lavora nelle campagne fuori Edo proteggendo la famiglia di un anziano contadino, di cui fanno parte il poco più che adolescente Ichisuke e la bella sorella Yu. Per non perdere dimestichezza con l’arma, Tsuzuki si allena quotidianamente con Ichisuke e gli trasmette la passione per il duello e per il combattimento in genere. Ichisuke se la cava egregiamente, anche se soccombe sempre al suo maestro, che nel frattempo ha preso una sbandata sentimentale per Yu.
Nuovi venti di guerra soffiano all’orizzonte e Tsuzuki accarezza l’idea di poter prestare servizio a Edo e contribuire alla difesa della nazione quando casualmente incontra Jirozaemon Sawamura, abile e gentile ronin che, vagando tra le campagne, è alla ricerca di abili combattenti con cui formare una squadra di valorosi guerrieri. Tanto più il guerriero si dimostra coraggioso, tanto maggiore sarà il prestigio che Sawamura ne riceverà, avanzando nel suo proposito di combattere nello shogunato. Riconoscendo il valore di Tsuzuki manifesta interesse nei suoi confronti e in quelle di Ichisuke, che potrebbe unirsi al gruppo qualora non si trovino altri guerrieri in giro. Sebbene la famiglia del giovane non sia d’accordo e stigmatizza il suo entusiasmo, Ichisuke è pronto alla partenza quando un evento imprevisto sconvolge ogni piano. L’arrivo poi nella zona di un gruppo di ronin fuorilegge farà precipitare del tutto la situazione, cambiando il corso del destino dei protagonisti.
Tsukamoto torna a occuparsi nuovamente di guerra ma sceglie un punto di vista differente rispetto a quello usato per Fires on the Plain. Mentre nel precedente film gli omicidi, gli assassinii e le esplosioni erano date per scontato da parte del protagonista, in Killing devono essere metabolizzati da Tsuzuki che, al di là della passione per la spada, non ha mai ucciso nessuno in vita sua. Gli ideali di cui è portatore sono pressoché pacifici: allo scontro preferisce la parola e alla violenza antepone il sorriso. Lo si nota sin da quando, incontrando i fuorilegge, tende loro la mano mettendo da parte gli atteggiamenti ostili che avevano caratterizzato la gente del posto al loro arrivo. Sebbene vi sia un particolare rapporto di amicizia tra Ichisuke e Tsuzuki, è evidente che tra intercorrano molte differenze. Il giovane figlio di contadini è infatti impulsivo e tiene particolarmente al concetto di onore, al punto da scontrarsi con i fuorilegge e avere la peggio quando questi lo umiliano e lo mandano a casa sanguinante. La sua morte dovrebbe spingere l’amico alla vendetta, così come richiesto sia da Yu sia da Sawamura, che avrebbe finalmente l’occasione di testare l’abilità dell’aspirante guerriero sul campo, di fronte al nemico.
Quella che dovrebbe essere un’imboscata per vendicarsi diviene ulteriore tragedia. Nemmeno di fronte allo stupro di Yu e a una paventata propria morte, Tsuzuki riesce a rispondere con violenza. Reprime la rabbia stringendo tra i denti una spada ma non è capace di uccidere anima viva. Sorta di obiettore di coscienza ante litteram, non piò però permettersi il lusso di rifiutare di andare in guerra. Non esistevano ai tempi opzioni diverse da valutare: servire la patria era l’unica via di uscita e nel finale è costretto a capirlo e comprenderlo. Uccidere la prima volta non è facile ma come Sawamura gli dimostrerà la spada non serve ad altro fine.
Limitando la violenza e il sangue in scena, Tsukamoto spoglia il suo racconto di tutti gli orpelli e riduce all’osso. Più che il contesto storico sembrano interessargli le psicologie dei personaggi e i loro rapporti. Senza risultare melodrammatico, coniuga temi come l’amicizia, l’amore, la pace, la natura, la guerra, il coraggio e l’onore, in maniera universale. Al di là del contesto storico specifico, rende omaggio alla figura dei samurai in maniera atipica sottolineando quali grossi sacrifici morali abbiano affrontato per mantenere alto l’onore della casta a cui appartenevano. Il rosso del sangue che inevitabilmente scorre si scontra con il verde della campagna e si sposa con quello di una coccinella, animale dalle ali come origami scelto a simbolo dell’aspirazione all’alto: così come esistono samurai rari e valorosi, esistono coccinelle rarissime con soli sette o due punti neri sulle ali. Scovarle sta alla sensibilità di chi le osserva. Perché, in fondo, Killing è un inno pacifista che rompe ogni tradizione cinematografica sul tema dei samurai.
Le scene di combattimento e di duello sono orchestrate come coreografie, danze in cui a ogni movimento ne corrisponde un altro. Salti e giravolte non mancano e il commento musicale, in sincronia con i movimenti, contribuisce alla sensazione di trovarsi di fronte a un ballo piuttosto che a uno spargimento di sangue. Nei momenti più concitati del racconto, le immagini della telecamera a mano diventano mosse e sporche, infondono ansia, vertigine e persino nausea. Si ha l’impressione che Tsukamoto voglia richiamare tutti i sensi dello spettatore che, travolto da colori, movimenti e suoni, finisce per entrare nel racconto e divenirne parte, testimone silenzioso. Non mancano poi momenti di liricità: le carezze tra Tsuzuki e Yu tra le canne di una baracca sono insolite, tanto sensuali quanto tenere. Difficile infine non notare la relazione tra guerra e sesso: non solo nello stupro che Yu subisce ma anche nelle due differenti scene in cui Tsuzuki si masturba, allegoriche dei sentimenti o dei tormenti che vive.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Un giovane ronin che fissa con ardore la propria spada.
Era questo il germe di un’idea che mi era venuta anni fa.
Come ucciderò un’altra persona con questa spada? Come posso farlo?
Qualche samurai deve averlo pensato.
Anche se me lo ordina il mio padrone, come posso arrivare a tanto?
Non lo avrà forse pensato qualcuno di loro?
In Nobi avevo esplorato l’orrore assoluto della guerra, pertanto questa volta volevo che il mio film affrontasse un tema completamente diverso. Quindi, quel verso che rimuginavo in testa è diventato il nucleo del film. Man mano che cresceva dentro di me l’inquietudine per la situazione del mondo, sentivo l’urgenza di esprimerla come fosse un urlo. Quel singolo verso è cresciuto fino a diventare una storia con un incredibile cast di interpreti e una troupe fidata. Viaggiare indietro nel tempo, rispetto agli anni Quaranta in cui è ambientato Nobi, e condensare tutte le armi da fuoco in una sola spada mi ha riavvicinato all’essenza dell’uomo».
A fine Settecento, invece, porta Un peuple et son roi di Pierre Schoeller, presentato fuori concorso. Ricostruzione storica magistrale a cui il cineasta ha lavorato per ben sette anni, Un peuple et son roi racconta i difficili quattro anni che hanno portato dalla presa della Bastiglia nel luglio del 1789 alla decapitazione di Luigi XVI nel gennaio del 1793. La storia parte proprio all’indomani dello scoppio della Rivoluzione quando nuovi venti di libertà attraversano le strade della capitale e, in particolar modo, i quartieri più popolari. I cittadini soffrono la fame per vie delle scellerate politiche di Versailles, il re e la regina non godono più del supporto popolare e il profumo di un nuovo futuro si diffonde grazie alla formazione della Prima Assemblea Nazionale, alla cui nascita hanno contribuito anche i movimenti popolari femminili. Con la ferma convinzione che un re non deve mai stare lontano dal suo popolo, la Parigi degli affamati provvede alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, storico documento che porrà le basi per ogni società civile odierna.
Nel tumulto di visi che si susseguono, si distinguono oltre ai volti noti dei rivoluzionari, da Marat a Robespierre, le facce di Françoise, una giovane lavandaia che ha perso la figlia da poco messa al mondo, e Basile, un ladro di polli senza famiglia e cognome che viene graziato e rimesso in libertà. I destini dei due, provenienti una dalla capitale e uno da Varennes, si incontrano con l’arresto del sovrano, dopo un maldestro tentativo di fuga. Mentre l’assemblea riunita al Maneggio reale si confronta su temi come il voto universale, la cittadinanza attiva e la forma di governa giusta da attuare, Françoise e Basile realizzano di condividere lo stesso sogno di emancipazione e si lasciano andare all’amore, divenendo forse la coppia simbolo della successiva insurrezione, arrivata dopo l’increscioso massacro del campo di Marte.
Lungi dall’essere un film sulla Rivoluzione francese, che da un punto di vista politico e sociale è molto complessa da raccontare con le sue infinite sfumature, Un peuple et son roi è come suggerisce il titolo un’opera incentrata sul rapporto che Luigi XVI ha con il suo popolo e sul destino del sovrano, ultimo discendente di una stirpe di intransigenti regnanti (simbolica è la sequenza in cui il re, in preda ai timori sul da farsi, sogna i suoi avi Luigi XIV, Enrico IV e Luigi XI, pronti a incitarlo a non demordere). Si tratta di una relazione che assume contorni differenti a seconda dell’evolversi dei moti di libertà, suddivisi dal registi in quattro capitoli differenti: il primo è ambientato nel 1789 quando il re è ancora considerato il padre della nazione, un prescelto che per diritto divino siede sul trono; il secondo si svolge nel giugno 1791 quando, dopo aver tentato la fuga e tradito la sua gente, viene catturato prima di essere messo a capo nel successivo settembre della monarchia costituzionale che nasce; il terzo ha luogo tra l’estate e l’inverno del 1792 quando viene prelevato dal suo ufficio e imprigionato prima che abbia inizio il processo che ne decide la sorte; l’ultimo, infine, sposta l’epilogo al 21 gennaio 1793, il giorno in cui nel Campo di Marte, nello stesso terreno che il re ha provveduto a macchiare di sangue di centinaia di civili nel luglio del 1791, viene ghigliottinato dopo essersi chiesto che fine abbia fatto quel popolo che un tempo l’acclamava.
Il pregio dell’opera di Schoeller consiste nel modo in cui traccia, a grandi linee, psicologie ed eventi senza mai cadere nella retorica. Il suo obiettivo è mostrare la presa di consapevolezza della gente comune e il suo progressivo allontanarsi dalla monarchia, elaborando quei concetti di libertà, fraternità e uguaglianza, imprescindibili per ogni essere umano. L’energia che si respira tra uomini, donne e persino bambini, è palpabile sia nelle sequenze di massa (suggestiva è la scena in cui una bambina balla tra le piume dei cuscini distrutti al Palazzo Reale) sia nelle sequenze politiche (la passione di Marat e l’eloquenza di Robespierre ne sono il massimo esempio). Non da meno si evince passione dalle sequenze in cui la gente comune combatte, canta e balla in nome della nazione: formando un coro greco sui generis, la collettività – mossa da altruismo e solidarietà tipici di quelle che in sociologia definiamo comunità - dimostra come, nonostante la morte incomba per tutti quanti, la libertà sia più importante della vita stessa.
Va inoltre riconosciuto al regista un particolare merito: è riuscito a evitare la retorica che poteva trasbordare soprattutto dalle scene prettamente politiche, in cui uno dietro l’altro fa sfilare tutti i nomi e i pensieri di coloro che, esprimendo il loro voto in maniera pubblica, decidono le sorti del sovrano. Per una volta tanto, poi, la cattiva Maria Antonietta rimane sullo sfondo della vicenda, ribaltando quasi la condivisa opinione secondo cui il consorte fosse un semplice burattino nelle sue mani. Ingenua, se vogliamo, è però la metafora finale, che affida al frutto dell’amore tra Françoise e Basile, interpretati da Adele Haenel e Gaspard Ulliel, il titolo di figlia della Rivoluzione.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Volevo filmare un popolo attivo. Un popolo che inventa un destino, discute, spera, si mobilita. Questo popolo ha costruito la propria sovranità, ha stabilito nuove relazioni di uguaglianza, decretato nuovi diritti. Ha fondato una repubblica. Non è un’invenzione dei nostri tempi: queste persone sono esistite. Questo popolo, nato nel 1789, nell’estate di quell’anno ha iniziato una rivoluzione. Ascoltiamolo. Ha qualcosa da dirci».
Altro tipo di vicenda è infine quella portata sempre fuori concorso da Roberto Andò che, in Una storia senza nome, prende spunto da una vicenda realmente accaduta a Palermo. È la notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969 quando dall’oratorio di San Lorenzo in via dell’Immacolatella scomparve per sempre un’opera dall’inestimabile valore (si dice che possa oggi valere qualcosa come 150 milioni di euro): la Natività del Caravaggio. Olio su tela dalle dimensioni che occupano quasi un’intera cappella (298x197 cm), il quadro era stato realizzato nel 1609 e nessuno avrebbe mai potuto prevederne il furto, di cui negli anni si è ritenuta responsabile la mafia. La dinamica di quella notte è rimasta nei decenni incerta, pochi gli indizi raccolti e poche le testimonianze in merito. Il primo a parlare del colpo fu dalle colonne del mitico quotidiano l’Ora il giornalista Mauro De Mauro, scomparso l’anno dopo. Per molti anni del quadro non si parlò nemmeno più fino a quando non rispuntò fuori dalle dichiarazioni rilasciate dal pentito Francesco Marino Mannoia al giudice Giovanni Falcone. Successivamente ne riparlarono anche Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza, Gaetano Grado e Francesco Di Carlo, ma ognuno di loro ha fornito resoconti divergenti. C’è chi sostiene che l’opera sia finita in pasto ai maiali (metaforicamente, non sarebbe una novità in Italia) e chi invece giura che sia stato conservato o per far un giorno cassa o per venire a patti con lo Stato (si ipotizzò anche un tentativo di scambio durante la famosa trattativa Stato-mafia). Un’ipotesi ancora più suggestiva sia quella che vuole la tela girare di casa in casa dei boss al comando di turno, come prestigioso trofeo da esibire in segno del proprio potere. Stando a questa formulazione, l’opera – il cui ultimo resoconto di avvistamento risale al 1981 – potrebbe essere nelle mani di quello che è l’ultimo boss dei boss ancora latitante: Matteo Messina Denaro.
La premessa storica è utile per capire cosa ci sia di vero e cosa sia invece inventata nel lavoro di Andò che, palermitano d’origine, sposa diverse ipotesi intrecciandole come in una sorta di giallo comico o di commedia degli equivoci a sfondo criminale. La Natività e la sua scomparsa entrano nella fattispecie a gamba tesa nella quotidianità di Alessandro Pes, famoso sceneggiatore alla ricerca di un nuovo soggetto. Pes però non ha mai scritto nulla in vita sua e dietro ogni suo film di successo si cela Valeria, la segretaria della casa di produzione con cui in passato ha anche avuto una storia. Scrittrice in anonimo, Valeria è una goffa quarantenne che vive nello stesso pianerottolo della madre Amalia, non ha mai conosciuto il padre e si accontenta delle briciole di attenzione che Pes le riserva. Un giorno, mentre cerca ispirazione per il soggetto da rivendere a Pes, viene contattata da un certo Alberto Rak, un anziano signore dall’aria distinta che ha una storia da raccontarle. La storia che le rivela ha al centro un critico d’arte inglese, ucciso dopo aver constatato l’originalità dell’opera del Caravaggio data per spacciata per sempre.
Valeria inizia a scrivere della storia, al progetto si interessa un famoso regista internazionale, un coproduttore di origine siciliana e persino i cinesi. Ciò che Valeria e Alessandro ignorano è che finiranno presto con il loro copione al centro di un intrigo di doppiogiochisti, politici corrotti, criminali informatici, ladri su una motocicletta Ape e persino latitanti che hanno trovato nuove soluzioni chirurgiche per non farsi riconoscere.
Con paradossale ironia, Roberto Andò riflette su cosa sia veramente il cinema facendo il punto su come questo trascenda la realtà per crearne una nuova e affibbiarle nuovo senso. Con l’occhio di conosce bene i meccanismi della scrittura, costruisce un’opera metafilmica in cui mostra come nasce un film inserendo l’argomento come parte centrale del racconto. Amalgamando generi (parafrasando il titolo, la sua è una storia senza genere) e mescolando in continuazione le carte, fa in modo che non si sappia chi siano i cattivi e chi invece i buoni. Gioca sapientemente con le ambiguità del noir e affida a Valeria il compito di farsi deus ex machina, di cambiare le sorti degli eventi che si susseguono con le parole che imprime tra le righe della sua sceneggiatura. Sequenze in bianco e nero del nuovo film girato si sposano con la ricerca della verità sul quadro e con il crescente tragicomico pericolo a cui la protagonista va incontro prima di una serie di inattese rivelazioni finali che, al pari di una matrioska, passano da questioni di importanza nazionale a segreti della sua vita privata.
Ciò che indovina la sceneggiatura di Andò sono soprattutto le caratteristiche dei personaggi. Naif, distratta e brutto anatroccolo è la Valeria di Micaela Ramazzotti, pronta a risplendere nel continuo campo e controcampo finale (in un interessante confronto tra la fiction reale e la fiction fittizia); seduttore e mascalzone latino è l’Alessandro di Alessandro Gassman; accattivante, ambivalente e, perché no, tenero è lo 007 Alberto di Renato Carpentieri (che attore!); ironica e lucida è la Amalia di Laura Morante, custode di un antico segreta e maestra di parole. Su tutti, però, meritano una menzione particolare il maestro polacco Jerzy Skolimowski, che con sapiente autoironia regala il personaggio di un regista che ricorda tanti altri del nostro cinema, e Gaetano Bruno nei panni del produttore siculo Diego, losco figuro in grado di relazionarsi con loro, quelli le cui ambizioni arrivano fin dentro alle stanze di Palazzo Chigi.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Questo è un film sul cinema, un atto di fede ironico e paradossale sulle sue capacità di investigare la realtà e di trascenderla. Si è sempre sostenuto che l’immaginazione, anche la più potente e visionaria, paghi il prezzo di una impotenza a priori: l’impossibilità di provocare effetti reali. Il mio film, in modo giocoso, e mi auguro divertente, mostra il contrario.
Con Angelo Pasquini e Giacomo Bendotti abbiamo scelto una vicenda leggendaria degli annali criminali italiani, il furto della Natività di Caravaggio, avvenuto a Palermo nel 1969. La nostra storia civile è disseminata di crimini impuniti, frammenti lacunosi a cui solo un atto fantastico potrebbe restituire un senso compiuto. Questo film è, appunto, un atto fantastico».
10 - Fine.
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