Prima di parlare del nono giorno al Festival di Venezia, occorre soffermarsi su un episodio increscioso accaduto subito dopo la proiezione dell’unico film diretto da una regista donna, The Nightingale. Una volta cominciati i titoli di coda, un accreditato di sesso maschile ha urlato forte della protezione del buio della sala “Vergognati, puttana, fai schifo!” L’epiteto era diretto alla regista Jennifer Kent, forse a dire dello stupido provocatore fuori contesto nel concorso. L’utilizzo del termine “puttana”, tra l’altro stigmatizzato dal lungometraggio stesso, fa impallidire tutti quanti: davvero l’Italia è così barbarizzata da permettere a un ragazzino qualunque di offendere nella maniera più sessista e indecente che esista? I mass media internazionali che si occupano di spettacolo si sono indignati, com’è giusto che sia. E noi con loro. Non riportiamo il nome dell’autore per non dargli fin troppa importanza: si è scusato sui social network ma non basta. Vergognoso lui, vergognosi i like ricevuti. Non se ne può più di critiche dettate dalla simpatia, di offese gratuite ad autori solo perché non di moda, di discussioni sboccate tra amici al bar: il cinema non è questo. La critica non è questo. Il giornalista non è questo. Se si è accreditati come stampa a un festival, si ha il dovere di rispondere a regole deontologiche. La diffamazione è un reato punito dalla legge e occorre capire quando fermarsi. L’accreditato ha il diritto semmai di trasformarsi nell’occhio del cinefilo che verrà, di proporgli una chiave di lettura per l’opera, di suggerirgli un percorso e di mostrargli pregi e difetti. Non deve rispondere a simpatie del momento o a mostrarsi spavaldo per catturare le attenzioni del gruppo dei pari che lo circonda: le chiacchiere da bar, se di un determinato tenore, fanno paura. Se dovesse essere questa la figura dell’esperto cinematografico del domani, meglio lasciare che ai festival partecipi solamente il pubblico. Il pubblico non dorme come ho visto fare a certe firme, illustri o no: 45 minuti di sonno e recensione (quasi sempre negativa) assicurata. Il pubblico non si atteggia da detentore assoluto della verità. Il pubblico ama l'arte e la rispetta.
Alla sua opera seconda dopo il successo dell’horror Babadook, l’australiana Jennifer Kent cambia registro e propone con The Nightingale un dramma (con qualche accenno splatter) ambientato nella selvaggia Tasmania dell’Ottocento. Siamo nel 1825 nella Terra di Van Diemen, colonia britannica usata per ospitare deportati e militari. I deportati, provenienti dal Regno Unito, sono per la maggior parte maschi e i registri dell’epoca evidenziano come la proporzione tra maschi e donne detenute sia di otto a uno. Le prigioniere arrivavano oltre oceano con l’intento di farle sposare con i detenuti maschi e, scontata la pena, le autorità locali offrivano loro una spinta per un nuovo inizio insieme. La ventunenne Clare è arrivata dall’Irlanda, ha sposato il detenuto Aidan (che ha ricominciato a lavorare come fabbro o maniscalco, non è chiaro) e insieme hanno avuto una bambina. L’armonia è però devastata dalla presenza del giovane e ambizioso tenente Hawkins che, contribuendo alla nascita della famigliola, ha preso il sopravvento su Clare, esercitando su di lei violenze di ogni tipo, psicologiche e fisiche. Clare è di sua proprietà e il tentativo di Aidan di difendere l’amata termina in tragedia alla vigilia di un’importante promozione (a rischio) del tenente.
Mentre Hawkins è costretto a farsi accompagnare dai fedeli sottoposti Ruse e Jago (con lui complici del massacro in casa di Clare), da due vecchi ubriaconi, da un bambino detenuto e da una guida aborigena verso la città di Launcheston per prendere posizione in un nuovo avamposto, Clare si risveglia dalla terribile notte subita, affida la sepoltura dei suoi cari a un’amica e parte per portare a termine il suo proposito di vendetta. A farle da guida in mezzo alla natura ostile della Tasmania è Billy, un servo aborigeno che in cambio di denaro accetta di portarla a destinazione. Clare mente sulla natura del suo viaggio ma lungo il percorso emergono inevitabilmente le sue ragioni. Scopre anche cosa è capace di fare l’uomo bianco nei confronti di chi quelle terre le ha sempre abitate, di quegli aborigeni neri a cui ha dichiarato una silenziosa ma sanguinosa guerra condivisa dalle autorità e dal mondo civilizzato. Tra incubi, apparizioni e spargimenti di sangue anche truculenti, Clare capirà cosa sia veramente la vendetta e ritroverà quella speranza che aveva creduto oramai perduta per sempre.
Jennifer Kent gioca con gli stilemi e i cliché del revenge movie. La protagonista desidera vendicarsi di chi l’ha ripetutamente stuprata, umiliata, derisa, offesa e calpestata nell’animo. La sua forza nasce dal desiderio di porre fine con un gesto netto al suo passato e ricominciare a vivere legata all’unico ricordo del suo passato, una cavalla appartenuta al marito. Clare è pronta a tutto: a guadare un fiume in piena, a superare impassibile i cadaveri degli aborigeni che penzolano sugli alberi, a sparare, a rubare e a non fermarsi di fronte al sangue che le lava via le lacrime. Forza e determinazione vanno però scemando man mano che si avvicina al suo obiettivo per lasciare posto a una nuova concezione della vendetta, forse meno truce ma più consapevole. Nel ponderare la crudeltà degli inglesi (da cui si dissocia sottolineando di essere irlandese), Clare ha bisogno di essere diversa da loro e di ritrovare prima di tutto se stessa, lavando via l’inferno di cui è stata testimone. La voce flebile dell’attrice Aisling Franciosa si trasforma pian piano in potente e stordente e prepara alla resa dei conti. Il please, please, please che Hawkins tanto odia lascia il posto alla fermezza di chi, ribaltando a suo favore la situazione, non ha più nulla da perdere o temere. Femminista ante litteram, Clare diviene un simbolo per tutte le donne di oggi che, fin troppo spesso in condizioni subalterne rispetto agli uomini, devono imparare a urlare e non a tacere le violenze subite: la vergogna non è di chi ha patito ma di chi ha inflitto il peggio di cui è capace l’uomo, portatore sano di supremazia.
Non passa di certo in secondo piano la questione aborigena o la cosiddetta Guerra Nera. Conquistadores fuori tempo massimo, in Oceani i militari inglesi hanno sterminato quasi tutti i popoli aborigeni. In nome di Sua Maestà e di un Dio cieco (ammesso che esista), non hanno esitato a mettere in atto un genocidio vero e proprio per far valere la loro presenza, per conquistare territori non loro ed estirpare popoli di cacciatori e agricoltori trasformati da loro in guerrieri. Non si sono fatti mancare nulla: la crudeltà è stato il loro segno distintivo, rivalendosi sulla gente comune della frustrazione che la loro professione regalava. Tale importante genocidio storico, dimenticato dai libri di storia dell’Occidente, ha ripercussioni ancora oggi con movimenti nati per rivendicare un’indipendenza mai riconosciuta. L’aborigeno nero per Jennifer Kent diventa servo dell’uomo bianco, che lo vuole complice quando ne ha bisogno e capro espiatorio quando non sa con chi prendersela. Senza addentrarsi troppo nella dietrologia di chi quegli eventi li ha veramente vissuti, la regista ci propone – come racconto popolare vuole – personaggi che rimangono immutabili nel corso della vicenda: i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi. Ne fa, per ragioni di simbolismo, una questione di colore di pelle ma non dimentica di mostrare le eccezioni (l’anziano che prima dell’epilogo aiuta Clare e Billy) tra le diverse fila di oppositori. La figura del capitano Hawkins è tratteggiata in maniera netta: cattivo, crudele, dispotico, prepotente e ambizioso. Con il volto di Sam Claflin, è il simbolo di ciò che le leggende e i racconti della tradizione orale tramandano: è il demonio in persona. Dall’altro lato, Billy, colui che fa da guida a Clare, è il salvatore, colui che fluttuando tra gli alberi plana per mostrare alla sua “datrice di lavoro” quale altra strada perseguire nella vita. Ogni destinazione può essere raggiunta in due modi differenti: o seguendo la strada già mille volta percorsa dagli altri o tentare un cammino nuovo. La strada e il percorso diventano allegoria per la fine. C’è chi arriva in un punto limite oltre il quale non può più andare e c’è chi sceglie di fare il percorso inverso e risalire il fiume fino all’origine, per vedere un mondo nuovo (per un’alba che ricorda molto quella di Sweet Country).
Potremmo definire The Nightingale un film mitico, nel vero senso della parola: non presenta una realtà che non esiste o immaginaria, tratta semmai di temi universali e comuni a qualsiasi latitudine. Come si affronta la repressione? Come si risponde alla violenza gratuita? Dove trovare la forza per sopravvivere alla perdita di ogni appiglio? Cosa deve fare una donna in un contesto di totale depravazione? Dove ci si sente veramente a casa? Si può ritornare umani dopo essere stati deumanizzati dalla vita?
Le risposte arrivano con la scelta della regista di ricorrere alla cosiddetta Academy ratio (1.375:1), usata soprattutto tra gli anni Trenta e i Cinquanta. Ciò le permette di avere, anche nella vastità della natura, il volto degli attori al centro dell’inquadratura e di coglierne ogni reazione.
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LA PAROLA ALLA REGISTA
Volevo raccontare una storia di violenza. In particolare, le conseguenze della violenza da una prospettiva femminile. A questo fine, ho ripercorso la storia del mio paese. La colonizzazione dell’Australia è stata un’epoca contrassegnata dalla violenza: nei confronti degli aborigeni, delle donne e del paese stesso, strappato ai suoi primi abitanti. Per sua natura, la colonizzazione è un atto brutale. E l’arroganza che l’ha contraddistinta persiste nei tempi moderni. Per questo motivo, ritengo che questa storia sia attuale a dispetto della sua ambientazione nel passato. Sulla questione della violenza, non ho tutte le risposte. Ma ritengo che si trovino nell’umanità, nell’empatia che dimostriamo a noi stessi e al nostro prossimo.
Mario Martone fa il suo ritorno in concorso al Festival di Venezia a quattro anni di distanza da Il giovane favoloso, biografia di Giacomo Leopardi. In Capri Revolution, esplosione di colori, nudi, luce e vivacità giovanile quasi in opposizione al lavoro precedente, Martone poggia la sua concentrazione su una storia che mischia spunti reali a elementi di finzione narrativa per raccontarsi dell’isola di Capri in tempi lontani e di come questa abbia fatto da culla con la sua dolomitica bellezza ad artisti, scienziati, rivoluzionari, idealisti e giovani desiderosi di libertà. Al centro della vicenda vi è la ventenne Lucia, la figlia più piccola di una modestissima famiglia di pastori di capre. Con il padre malato, la madre remissiva e dedita alle faccende casalinghe e i due fratelli assurti al ruolo di capofamiglia, Lucia si occupa della gestione del gregge, portando a pascolare gli animali tra impervi sentieri e natura incontaminata.
Non esistono ancora i turisti e l’isola nel 1914, alla vigilia della Prima guerra mondiale, è incontaminata. La sua bellezza non è stata ancora stravolta e la sua verginità attira gente da tutto il mondo. In una delle sue escursioni lavorative, Lucia si imbatte casualmente in quelli che la gente del posto definisce “demoni”, ovvero i componenti di una comune di artisti che ha il suo leader nel messianico Seybu. Barbo e capello lungo che fanno di lui ora un novello Cristo ora un guru new age, Seybu è un pittore che, arrivato da un Paese del nord Europa, ha trovato nell’isola il centro ideale per far crescere la sua colonia di artisti concettuali.
L’aggravarsi delle condizioni del padre porta Lucia a chiedere la visita del nuovo medico, il giovane dottor Carlo che, armato di ideali e propositi è appena arrivato dalla grande Napoli. Mentre il nucleo familiare di Lucia si appresta a vivere la tragedia che romperà per sempre lo status quo, Lucia – che non sa leggere, scrivere e parlare in italiano – subisce il fascino di Seybu, spiandone di notte movimenti e riti baccanali. Le fughe notturne e il rifiuto di sposare un attempato bottegaio la portano a decidere di abbandonare casa per trovare rifugio nella mistica comune. Lo scoppio della guerra, però, rimetterà in discussione la sua decisione.
Nel tratteggiare la sceneggiatura di Capri Revolution Mario Martone parte da alcuni elementi concreti. Sull’isola di Capri, nei primi anni del XX secolo, il pittore spiritualista Karl Diefenbach fondò una comune artistica il cui obiettivo primario era quello di praticare l’arte all’interno di una rivoluzione umana che metteva la natura al centro di ogni cosa. L’operato di Diefenbach si colloca nello stesso periodo, tra il 1900 e il 1913, in cui in Svizzera, nei pressi di Ascona, nasceva la comune di Monte Verità, destinata a divenire la culla della danza moderna. Martone sceglie di spostare l’azione qualche anno in avanti e di traslare la figura di Diefenbach, preso solo come spunto e non come modello biografico, in quella di Seybu, un artista performativo che, in nome dello spiritualismo e del veganismo, fa suoi concetti che decenni dopo svilupperà in realtà il pittore, scultore e performer Joseph Beuys: il progresso e il rapporto dell’uomo con la natura saranno fondamentali negli anni a venire per tutti coloro che si interrogheranno su spirito e materia e su ciò poggeranno le basi della loro arte. Seybu diviene nelle mani di Martone un modello da seguire: agli occhi di Lucia rappresenta il nuovo mondo, quello che rompe con la tradizione che la vorrebbe sottomessa, taciturna e destinata a un matrimonio di convenienza. Nei riti del suo maestro impara a essere leggera, a fluttuare nell’aria e ad avere una nuova percezione, fisica e metafisica, del suo corpo: da supporto a ciò, Martone inserisce una sequenza onirica che, sospesa tra sogno e realtà, restituisce la levità che la giovane capraia scopre grazie all’arte. Tra adepti, sessioni di sesso di gruppo, sperimentazioni artistiche e formazione (nel senso più letterale del termine, dal momento che impara a leggere e parlare in inglese), Lucia rinasce e impara ad avere percezione del suo corpo, del suo essere donna e della sua libertà, valore fondamentale a cui non può rinunciare.
Ogni nuova corrente di pensiero trova lungo il cammino chi è pronto a osteggiarla. Vale anche per Seybu e della sua voglia di supremazia della Natura sull’Uomo: in primis, la povera gente che, lasciata ai margini della società, non è aperta al nuovo e la maldicenza colpisce Lucia, vista da tutti come la vergogna dell’intera isola, come colei che si è lasciata contaminare dall’arrivo dello straniero e da chi ha rotto i rigidi confini del pudore; poi Carlo, il medico arrivato come l’elettricità nel momento giusto, è il simbolo forse più evidente del materialismo e della razionalità ma, a differenza dei componenti della comune, sa prendere posizione e si dimostra coerente con i suoi pensieri nel momento in cui c’è da partire per la Grande Guerra, da lui inneggiata durante il banchetto di accordo prematrimoniale di Lucia. Per Carlo, è l’Uomo ad avere il controllo sulla Natura. La figura di Carlo, medico generico, è in contrasto con quella di Herbert, una sorta di Freud in miniatura che lavora all’interno della comune e raccoglie le confessioni delle anime tribolate, come quella di Lilian. Herbert rappresenta la parte più irrazionale della filosofia rifugiandosi nell’ancestrale tradizione della mitologia greca, in cui l’uomo necessita di un’intercessione divina (Artemide, in questo caso) per avvicinarsi alla Natura.
Lucia sta a guardare fino a quando sceglie di essere finalmente libera dopo il susseguirsi di diverse circostanze: lo scoppio della guerra impone ai fratelli, che l’hanno ripudiata, di partire per il fronte; il precetto volontario del medico; e la visita alla madre che le confessa di condividere la sua ribellione e la sua voglia di liberarsi dal giogo maschile. La guerra, in particolar modo, la spinge a credere che la notte porterà qualcosa di nuovo, spingendola verso quel mondo nuovo a cui ha sempre aspirato.
Capri Revolution è un film che chiede uno sforzo allo spettatore per essere capito, non lo compiace e lo solletica a riflettere. Non propone un percorso da seguire, rimane equidistante e si affida a un trio di attori che hanno compreso a pieno le ambivalenze dei loro personaggi: Marianna Fontana, Reinout Scholten van Aschat e Antonio Folletto, in grado di restituire con il giusto pathos i vertici di un silenzioso triangolo amoroso che avrà forse il suo lieto fine non qui e non oggi. Un merito particolare va poi a Donatella Finocchiaro che, nella parte della madre di Lucia, torna a essere quell’attrice che da troppo tempo mancava al cinema italiano, e a Ludovico Girardello, il ragazzo invisibile di Salvatores che, nei panni di Citrus, è finalmente libero dalla leziosità a cui lo aveva costretto il ruolo precedente.
La protagonista assoluta rimane però l’isola di Capri con le sue vedute mozzafiato, le sue grotte sul mare e la vegetazione fitta, come quella di un Eden sulla Terra, pronto ad accogliere una rivoluzione che arriverà fino ai giorni nostri. La sua conformazione ribelle, il suo guardare da lontano le stanze del potere, i suoi confini acquatici illimitati e l’assenza di movimenti tellurici rappresentavano l’utopia di un’umanità finalmente pronta a rifondarsi nel segno della libertà. Non a caso, quasi en passant, il regista si ricorda di piazzare una scena con al centro alcuni rivoluzionari russi, che programmano ciò che avverrà dopo qualche anno nella loro nazione. Del resto, è un’isola di contraddizioni e di follia, di soggettività e di tradizioni, di mistero e di misticità, che nessuno riuscirà mai a imbavagliare, come ricordano le parole di Fabrizia Ramondino all’inizio del film:
“Quest’isola compare e scompare continuamente alla vista
e sempre diverso è il profilo che ciascuno ne coglie.
In questo mondo troppo conosciuto è l’unico luogo ancora vergine
e che ci attende sempre, ma solo per sfuggirci di nuovo”.
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LA PAROLA AL REGISTA
Il film prende spunto dalla comune che il pittore Karl Diefenbach creò a Capri all’inizio del Novecento. Nel film tutto viene rielaborato con la più totale libertà: l’azione si sposta più avanti, alla vigilia della prima guerra mondiale, e il protagonista lascia la vecchia pelle del pittore spiritualista Diefenbach per tramutarsi in un giovane artista performativo, la cui filosofia deriva dai concetti che verranno elaborati molti decenni più avanti da Joseph Beuys. Di Diefenbach era interessante soprattutto la scelta di praticare l’arte dentro una radicale rivoluzione umana, in cui il rapporto con la natura diventa centrale. Le scelte compiute in anni lontanissimi dalla comune di Capri, come da quella di Monte Verità in Svizzera, parlano direttamente al nostro tempo, in cui la questione di che senso dare al progresso e al rapporto tra uomo e natura è centrale per la sopravvivenza stessa degli esseri umani.
Le donne, raccontate dalla Kent e da Martone, sono le protagoniste assolute anche del cortometraggio Si sospetta il movente passionale per futili motivi, evento speciale della Settimana della Critica. Dietro a un titolo che sembra uscito dalla filmografia di Lina Wertmüller si cela il nome di Cosimo Alemà, colui che nei soli anni Duemila ha diretto qualcosa come 600 videoclip musicali per artisti del calibro di Ligabue, Gianna Nannini e Tiziano Ferro. La sua padronanza del mezzo lo ha portato a cimentarsi anche con lungometraggi che, al di là del contenuto, hanno puntato molto sul potere comunicativo dell’inquadratura, mai banale o posticcia.
Nel corto, Alemà mette in scena la storia di quattro donne che si ritrovano alle 17 di un pomeriggio nella villa dell’uomo che ha mandato a tutte lo stesso messaggio. Non ci vuole molto a capire che le quattro altro non sono che la moglie e le tra amanti di Lucio, quattro donne tra loro molto diverse, rappresentati ognuna di una identità femminile lontana da quella dell’altra. Il momento di imbarazzo iniziale cede presto il posto alla paura e al mistero quando una di loro rinviene un cadavere a testa in giù nelle acque della piscina. Si convincono tutte che si tratti di Lucio e decidono di andare via dalla scena del delitto per evitare di finire accusate dalla polizia. La loro fuga però rimane solo un pensiero dal momento che si palesa una guardia, che le costringe a rivedere il loro piano.
Il cortometraggio, prologo di una futura commedia noir che verrà, si fa notare per almeno due ragioni.
La prima ha a che fare con la scelta di girare il tutto con un unico lungo piano sequenza. Si tratta di un espediente che abbiamo già visto in passato ma applicato a opere drammatiche o da camera. Alemà per la prima volta applica la soluzione ai toni della commedia e spinge le quattro attrici protagoniste a stare al passo con la vicenda. In pochi istanti, sono chiamate ad arricchire l’intrigo di un continuo cambio di espressioni in relazione ai toni assunti dalla trama, ora tesa ora comica. Si dirà che ciò rende il ritmo spezzettato: in realtà, lo agevola con la sua sinusoide di emozioni e sentimenti. Irene Ferri, Anna Ferraioli Ravel, Pilar Fogliatti e Nina Fotaras, quattro nomi poco sfruttati dal nostro cinema, sono l’esempio di ciò che molte altre attrici più blasonate non sono: creta che il regista plasma a suo piacimento. In particolar modo, piace costatare come Irene Ferri sia a suo agio con la commedia grottesca o surreale e come i suoi tempi di reazione siano praticamente perfetti (del resto, sin da giovanissima aveva stupito per verve comica nella sfortunata serie di Rete 4 Questa casa non è un albergo).
La seconda ragione ha a che fare con la tematica trattata. Finalmente vediamo in scena quattro donne che non si fanno abbattere dal contesto ma che diventano padrone della situazione. Quando sono chiamate a fare una scelta, non hanno dubbi. Sono come i moschettieri: tutte per una, una per tutte. Da novelle sorelle March, optano per il sostegno reciproco e non per la guerra, come tradizione femminile vorrebbe. Il crimine, casuale o voluto, le trasforma da rivali in fedeli compagne e quando si tratta di scegliere tra passato e futuro non hanno dubbi: il futuro le aspetta. Ci auguriamo, tutte insieme nel film che verrà.
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LA PAROLA AL REGISTA
Il cortometraggio vuole essere un racconto grottesco, reale e metaforico al tempo stesso, un piccolo film in grado di parlare del rapporto tra individuo e identità di gruppo, in una società maschio-centrica che sempre più tende a creare confusione e crisi identitaria, soprattutto quando si parla di giovani donne. Il film è dichiaratamente una storia di finzione ma calata indissolubilmente nel reale, perché solo con esso è possibile scoprire la dimensione intima e profondamente umana delle quattro protagoniste.
9 - Continua
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