Ci sono autori che hanno uno stile riconoscibile sin dalla prima inquadratura. Quando ci si appresta a vedere una loro opera, si è consapevoli di avere davanti delle firme, che univoche esprimono – nel bene o nel male – la loro concezione di cinema. Oggi, al Festival di Venezia, si è preso visione di tre film che, ovviamente tra loro diversi, potrebbero essere descritti a scatola chiusa a partire dal nome dei registi: Reygadas, Greengrass e Bruni Tedeschi, in Concorso i primi due e Fuori Concorso la terza.
Al suo sesto lungometraggio da regista (non contiamo quelli come produttore e/o cosceneggiatore), Carlos Reygadas si cimenta con Nuestro Tiempo in una lunga riflessione sull’esclusività dell’amore. La storia, ambientata ai giorni nostri, ha luogo in uno sperduto ranch messicano, dove Juan, poeta di seconda professione, vive con la moglie Esther allevando tori da combattimento. Genitori di tre figli, Juan ed Esther all’apparenza sono una coppia borghese come tante altre, forse solo un po’ più fortunata dato che non devono fare i conti con la realtà economica (depressa) del loro paese, con i problemi dell’immigrazione e con la situazione politica nazionale. Vivono sospesi come in una bolla tra le campagne e le colline a ridosso di Città del Messico, hanno compiti lavorativi ben definiti e crescono quei tori che un giorno finiranno a scontrarsi l’uno con l’altro in un giro di scommesse, clandestino o legale che sia.
La loro quiete è rotta il giorno in cui in zona arriva Phil, un gringo statunitense che addestra cavalli. È stato assunto da un ranch vicino e la sua presenza genera parecchi timori in Juan, che lo intravede sin da subito come una minaccia alla sua vita matrimoniale. La minaccia si rivela concreta quando scopre che Esther lo tradisce. Il problema di Juan, però, non è il tradimento ma la scelta della moglie di non rivelarlo. Lo spettatore, dapprima basito, scopre in tal modo che Juan ed Esther sono quello che un termine del nostro tempo definisce “coppia aperta”, una decisione che hanno preso anni prima quando il marito ha avuto una relazione al di fuori del matrimonio che tanta sofferenza ha generato nella moglie. Da coppia aperta, hanno confessato ogni tradimento fisico, ci hanno scherzato sopra e sono ritornati alla loro esistenza quotidiana senza traumi, considerando l’atto in sé lontano dal vero amore.
La tresca di Esther con Phil ha però un sapore molto diverso. Juan se ne accorge dai continui sotterfugi, dal telefono cellulare divenuto parte integrante della mano della moglie e dalla sua continua sofferenza, un malessere psicologico che intacca anche la loro sfera intima. Capendo quanto Esther possa rimanere affondata dalla fine della tresca, Juan spinge Phil a rendere felice sua moglie, recitando una parte su copione. I giochi, si sa, sono belli quando durano poco: quando la verità verrà alla luce, Juan capirà come in amore niente possa essere orchestrato a tavolino o come non sia una poesia di cui trovar le parole giuste.
Usando l’escamotage di Juan poeta (premiato tra l’altro con una medaglia per la sua opera), Reygadas approfitta del personaggio per regalarci una visione dell’amore lontana dai canoni che la letteratura romantica impone. Le profonde riflessioni che entrano in gioco, ora solleticate dai dialoghi ora affidate alla voce fuori campo della più piccola dei figli, aprono una breccia non solo filosofica ma anche psicologica sul tema. Esther e Juan accettano l’idea di relatività dell’amore per superare il primo tradimento dell’uomo: l’alibi, del resto, è ciò che Juan andava cercando per placare il dolore di chi lo amava con il cuore e con il corpo. Per tale ragione, il poeta arriva anche a ipotizzare che la moglie possa aver instaurato una relazione parallela con Phil per vendetta.
Lungi dal soffermarsi su quale sia la visione morale corretta (chi è senza peccato scagli la prima pietra), Nuestro Tiempo ci interessa per le sue qualità intrinseche e per il passo in avanti nella filmografia del regista. Noto per le sue opere provocatorie, metafisiche e bestiali, Reygadas si spoglia di ogni orpello e non cerca il colpo a effetto. Sembra quasi che voglia rimanere un passo indietro per lasciare alla sceneggiatura, alla fotografia e alla presa sulla realtà il compito di farci intendere la sua verità. Le immagini, ora traballanti ora perfettamente nitide, sono spesso riempite dei colori aridi di una zona messicana alquanto sconosciuta al cinema, che contrasta con i tanti sentimenti dell’anima dei protagonisti: fango secco, acque sporche e tramonti quasi marroni hanno il sopravvento in scena, fino a quando con il tradimento arrivano incessantemente le piogge, che aspirano a lavar via la sofferenza. Il voice over con le sue riflessioni spesso si sposa con la maestria delle immagini ricavate dalle fotocamere situate in posti impensabili, dal motore di una macchina agli ammortizzatori di una ruota: magistrale è la sequenza aerea che riprende Città del Messico e culmina con l’atterraggio all’aeroporto della capitale messicana con tanto di apertura di carrello e successiva frenata sulla pista o quella che sotto la pioggia battente mostra Esther fa ritorno al ranch in macchina e Juan accompagnarla a cavallo di corsa.
La spensieratezza delle sequenze di apertura che mostrano ragazzi e bambini intenti a giocare nelle basse rive, nel fango e ad amoreggiare, lascia spazio all’amarezza degli adulti, una generazione cresciuta troppo in fretta per inseguire i valori tradizionali. I nuovi media, dai computer ai telefoni cellulari, assumono il ruolo di aiutanti o oppositori, a seconda dell’uso che ne viene fatto. Il divario tra uomo e donna diviene ancora una volta insormontabile e capire le reciproche esigenze non sempre coincide con l’happy end.
Il sesso che per Reygadas ha giocato grande ruolo nelle opere precedenti si rivela in Nuestro Tiempo suo nemico. Rade le scene di amplessi, tutte di poca durata e mai oltre il lecito. Il sesso, seguendo le linee di sceneggiatura, diviene elemento di rottura e di allontanamento, sia esso consumato in un momento di smarrimento sia esso mancato o desiderato. Il mondo dei tori, facile allegoria che Reygadas usa per lo scontro tra i due maschi, non prevede due capibranco: i combattimenti terminano solo con la morte del rivale, voluta o casuale. E Juan come Reygadas lo sanno molto bene.
Unica pecca dell’opera è l’eccessiva lunghezza: con il senno di chi guarda, alcune sequenze soprattutto centrali appaiono superflue e ridondanti. Una, in particolar modo, non farà felice gli animalisti (un mulo viene letteralmente sviscerato dalle corna di un toro infuriato).
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LA PAROLA AL REGISTA
«Quando amiamo qualcuno, quello che vogliamo più di tutto è veramente la sua felicità? Oppure solo nella misura in cui questo implicito atto di generosità non richieda troppo da parte nostra? In altre parole: l’amore è una questione relativa?».
Regista di action drama, Paul Greengrass (a eccezione dei capitoli della saga dedicata a Jason Bourne e dell’esordio con La teoria del volo), ha sempre diretto opere tratte da fatti realmente accaduti (del resto, si è formato nel mondo del documentario) e, in particolar modo, attentati terroristici. Ha quasi una specializzazione in materia: si è occupato di Irlanda in Bloody Sunday, dell’attentato di uno dei voli dirottati durante l’11 settembre in United 93, della storia in Iraq dell’ufficiale Roy Miller in Green Zone e del sequestro in acque somale di un cargo danese in Captain Phillips. Lo ha fatto interrogandosi sempre sulle ragioni e sulle conseguenze della violenza messa in scena. Seguendo tale macabra strada, in 22 Luglio ha scelto di mostrare cosa è accaduto solo qualche anno fa, nel 2011, in Norvegia quando Anders Breivik, a sua detta un cavalier templare chiamato a difendere la purezza dell’Europa, ha organizzato due differenti attentati che sono costati la vittima a 77 persone.
Greengrass pesca dalle pagine dei giornali e da un libro pubblicato da Åsne Seierstad (con il titolo Uno di noi) per imbastire tre differenti linee narrative, che ci forniscono altrettanti punti di vista sulla vicenda.
La prima si sofferma sulla figura di Breivik e sul processo che si terrà a Oslo, in grado di calamitare l’attenzione pubblica nazionale e non solo. L’operato di Breivik è mosso innanzitutto da convinzioni sociali e politiche di estrema destra e ha come scopo ultimo quello di negoziare con il Primo Ministro le leggi inerenti a un ipotetico blocco dell’immigrazione e del multiculturalismo. Da templare formatosi online con il mondo dei videogiochi, Breivik conduce la sua personalissima crociata avallata da una dichiarazione di indipendenza scritta di suo pugno. L’esplosione al quartiere governativo della città prima e l’eccidio sull’isola di Utoya dopo occorrevano nella sua logica per eliminare la classe dirigente e coloro che sarebbero divenuti i futuri governatori. Per farsi difendere e rigettare l’accusa di incapacità di intendere e volere, chiama alla difesa l’avvocato Geir Lippestad, che volente o nolente deve far rispettare il codice penale del suo Paese e garantire all’assistito ogni diritto in fase processuale.
La seconda linea narrativa ha al centro il Primo Ministro Jens Stoltenberg, sfuggito illeso dalla prima esplosione. Subito attivo nel prendere controllo della situazione, Stoltenberg si ritrova a dover gestire da un lato i rapporti con il Paese, profondamente scosso e prossimo alle elezioni, e dall’altro lato un’indagine di una apposita commissione su ciò che il suo governo ha sbagliato nel prevenire gli attentati. Messo sotto accusa per la mancanza di fondi da destinare alla sicurezza e per aver preso sotto gamba una segnalazione sullo stesso Breivik, riceve il supporto dei parenti delle vittime che non hanno nulla da rimproverargli.
L’ultima linea ha al centro i sopravvissuti del massacro a Utoya, in particolar modo i fratelli Viljar e Torje, due adolescenti che come tanti coetanei avevano preso parte al campus estivo organizzato dalla Lega dei Giovani Lavoratori (AUF). Mentre Torje, il minore dei due, non ha riportato alcuna ferita da arma da fuoco, Viljar è stato colpito per ben cinque volte da Breivik, presentando una situazione clinica alquanto complessa. Alcune schegge della pallottola che gli è esplosa in testa si sono conficcate vicino al tronco cerebrale e non possono essere rimosse: in termini pratici, se si spostassero, potrebbe morire da un giorno all’altro. Dimesso, Viljar affronta una lunga e difficile riabilitazione, sostenuto dai genitori (in particolar modo dalla madre, il sindaco di un piccolo centro a 2 mila chilometri dalla capitale), dal fratello e da un’altra sopravvissuta.
Le tre sequenze appaiono tra loro però in disequilibrio. Guardando l’opera di Greengrass si ha l’impressione che il regista abbia voluto giocare con i generi, lasciandosi prendere la mano da alcuni e trascurandone altri. La macrosequenza inerente a Breivik, cominciata nel segno dell’adrenalina e della paura come in action tratto da un videogame, lascia presto spazio al dialogo tra l’arrestato e il suo difensore per il più classici dei legal drama. Mettendo sul tavolo le conclusioni psichiatriche a cui sono giunti gli esperti, Breivik appare come vittima di se stesso e di una costante solitudine che lo accompagna dal giorno che, da piccolo, è stato abbandonato dal padre. L’approfondimento psicologico è lasciato al non detto e sarebbe stato interessante vedere meglio la dinamica tra il mostro e colui che, per difendere il mostro, mette a repentaglio la sua stessa famiglia. Così come sarebbe stato interessante capire a fondo le ragioni politiche del suo gesto: superficialmente, durante il processo si dà parola al leader di un movimento estremista online ma non si va alla radice dell’odio. Si paventano minacce future e scenari di guerra contro i nuovi saraceni ma non si va al di là dei dialoghi da trasmissioni populiste. Greengrass poteva farne un film politico ma si ha quasi la sensazione che non abbia voluto prendere posizione, che sia rimasto in una sorta di limbo. Prova ne è anche il trattamento che riserva alla linea narrativa con il Primo Ministro protagonista: accennata, raffazzonata e superficiale. Non sappiamo nulla della Norvegia: necessitiamo di informazioni extra per capire in che contesto operi o quale sia la sua agenda di governo. Si tralascia la figura dei reali (forse perché ancora sul trono?) e non si accenna a come influiscano sulla vita politica.
Contrariamente alla prima, la terza macrosequenza inerente a Viljar prende il sopravvento. 22 Luglio si trasforma così in uno dei tanti, troppi, film visti sul protagonista che sopravvive alla tragedia rinascendo. La riabilitazione di Viljar coincide con un cambio repentino di atmosfere: le sequenze che potrebbero essere quelle di un medical drama, con tanto di camera che mostra dettagli tecnici e carni aperte dal bisturi, lasciano spazio al survival drama, con tanto di protagonista impegnato a superare le sue paure, i suoi incubi, i suoi timori e i suoi nuovi handycap puntando su ciò in cui crede di più: famiglia, amicizia, sogni, speranze e futuro. Quasi marginale è il travaglio interiore del fratello minore Torje così come figure di contorno sono i genitori, anche se si tenta un paragone su ciò che deve essere una mamma mostrando spesso le differenze tra la madre dei due fratelli e quella di Breivik.
Film poco riuscito quindi? No, dannatamente no. Greengrass sa come modellare le storie reali per incantare il pubblico e tenerlo inchiodato.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Il cinema include forme e soggetti diversi, ma ha sempre per tema la nostra umanità. Può mostrarci amore e meraviglia, trovare verità e bellezza nei momenti privati più minuti o intrattenerci con lo spettacolo magnifico di mondi immaginari. Qualche volta, però, il cinema deve guardare con coraggio e risolutezza il mondo così com’è, come si muove, dove va e come possiamo affrontarlo. Sono partito da questa idea per raccontare la storia della reazione norvegese all’attacco terrorista di destra del 22 luglio 2011».
Il cinema di Valeria Bruni Tedeschi è tutta autobiografia romanzata. La regista e attrice italiana infila le mani nel sacco dei suoi ricordi di vita, li afferra e li plasma trasformandoli in racconti. A questa regola non sfugge nemmeno I villeggianti, nato dalle sensazioni generate in lei dalla visione di un filmato in Super8 di una vecchia vacanza famigliare.
Come nelle immagini, tutto ha luogo in una splendida villa sulla Riviera francese in cui ogni estate si riunisce la famiglia di Anna, una regista e attrice che poco prima della partenza riceve dall’amato Luca, un collega più giovane di lei, la notizia della presenza di una terza persona nel loro legame. Per tale ragione, Luca decide di non partire all’ultima momento e lascia che Anna si presenti da sola dai suoi cari con la promessa di raggiungerla prima o poi. Tale promessa per la nevrotica Anna si trasforma presto in ossessione: tempesterà Luca di chiamate e messaggi in segreteria, cambiando in base allo scorrere degli eventi tono e contenuto.
A destinazione, Anna ritrova la figlioletta adottiva Célia, una bambina nera testimone e spettatrice dell’opera cechoviana messa in scena dai parenti. In loco, Anna è chiamata a relazionarsi con la madre Louisa, con la sorella Elena e con il ricordo ingombrante del fratello Marcello, morto da qualche tempo a causa dell’Aids. A completare il gruppo concorrono poi Jean, il compagno di Elena, e il suo assistente Stanislav, un’anziana parente e la sua badante, e Bruno, il vedovo di un’amica di Louisa di cui si devono spargere le ceneri. Tutti i componenti della famiglia si relazionano inoltre con i domestici della villa, desiderosi di discutere dei tempi liberi, e con i cinghiali che senza barriere arrivano fin sotto le porte di casa.
Anna, partita dopo che un suo progetto è stato rispedito al mittente per rimettere mano alla sceneggiatura, attende oltre a quello di Luca gli arrivi della cosceneggiatrice Nathalie e dell’attore protagonista del film che, inevitabilmente, si farà, dal momento che sono state fissate già alcune date. Ciò che i suoi famigliari non sanno è che il lungometraggio parlerà del fratello Marcello, cosa a cui Elena è fermamente contraria.
Giocando con la sua vita di donna, madre, attrice e regista, Valeria Bruni Tedeschi con I villeggianti riflette sul tema della solitudine, silente compagnia dei componenti della sua famiglia. Lo evidenzia sin da subito quando Bruno, per far ridere la piccola Célia, le fa notare come nessuno si accorge degli altri: tutti sono presi dal proprio ego e dai propri segreti per capire che l’universo accanto al loro va avanti. Vivono tutti nel ricordo di qualcosa che è stato e che con lo scorrere del tempo è diventato marcio o è svanito. Hanno deciso che al di là della villa non c’è nient’altro e nemmeno la morte li spaventa. Lasciare durante un pranzo di famiglia riemergere vecchi segreti sempre taciuti, stupri silenziati e aborti mai confessati, fa capire come il non detto prevalga tra le mura di una casa che, nel nome delle apparenze o del buon gusto, ha sacrificato sentimenti, legami e sogni. Anna, vittima di tale sistema, è diventata fin troppo sincera nei confronti di tutti: tratta in maniera critica la sorella, va oltre il desiderio del fratello (che in sogno la invita a non andare avanti con il film) e sottovaluta come il fossato della solitudine abbia bisogno di riempirsi di qualcun altro che non è Luca.
Quella che porta sullo schermo è una rivisitazione che non sembra avere rispetto di niente e nessuno, nemmeno delle persone più car. La sua concezione di cinema è piuttosto pratica: attinge ispirazione da ciò che ha realmente vissuto e che conosce bene. Chi conosce la biografia della sua famiglia, è consapevole del rischio personale che corre a ogni opera. Fortunatamente, riesce a declinare ancora una volta con delicatezza le sue tematiche e a regalare attimi di tragica comicità à la Charlie Chaplin. Non può infine mancare un accenno alla realtà in cui da donna è immersa: la mancata maternità, gli scontri di classe con una servitù che ha quasi preso il potere sui datori di lavoro, la difficoltà di reperire mezzi per realizzare un’opera che esuli dalla commedia da botteghino e il bisogno di trovare ispirazione. La capacità poi di prendersi in giro della Bruni Tedeschi trova in questo caso l’appoggio dell’ormai immancabile mamma, Marisa Borini, e di due attrici più in forma che mai: una sofferente Valeria Golino e una fin troppo silenziosa Noémie Lvovsky, nei panni rispettivamente di Elena e Nathalie, due donne speculari che tutto ciò di cui necessitano è l’amore di qualcuno per superare il freddo che fa.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Da quando sono nata, ho sempre trascorso le vacanze in una grande e bella casa sulla Costa Azzurra. È un posto senza tempo e lontano dal resto del mondo. Con questo film, racconto la storia di un gruppo di persone in questa casa: la famiglia dei proprietari, gli amici e i dipendenti. Descrivo la solitudine di ognuno di essi, nonostante si trovino insieme, le dispotiche dinamiche nei rapporti, le paure, la vergogna, la rivolta, i desideri e gli amori. La mia intenzione è di raccontare come ogni persona scelga deliberatamente di ignorare il frastuono del mondo esterno, il tempo che passa, la morte in agguato; come ognuno sia solo di fronte al mistero della propria esistenza».
8 - Continua
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