Il settimo giorno al Festival di Venezia è all’insegna dei nuovi autori, registi che con le loro opere seconde o terze devono confermarsi o cercano riscatto dopo lavori altalenanti. Le storie saltano dall’Argentina di oggi alla Germania nazista e offrono vite di altri alla ricerca di normalità o eccezionalità.
Alla sua opera seconda, l’argentino Gonzalo Tobal porta in concorso al Festival di Venezia il legal drama Acusada. La storia ruota intorno a Dolores, una giovanissima ragazza accusata di aver ucciso due anni e mezzo prima la sua miglior amica. Il processo che la vede alla sbarra è al primo grado e diversi sono gli indizi di colpevolezza della giovane, lasciata in libertà almeno fino al giorno della sentenza. La libertà di cui gode Dolores è relativa: si è rinchiusa in se stessa, non esce di casa se non sporadicamente, ha rapporti con le poche amiche che le sono rimaste e non ha accesso a internet. Chi la circonda costantemente è la famiglia, composta da una coppia di caparbi genitori e un fratello minore, e il team della difesa, che si avvale del miglior avvocato di Buenos Aires e di un’esperta di comunicazione e immagine.
Il caso di Dolores è al centro dell’attenzione dell’industria mediatica. Si sprecano i servizi al telegiornale e i resoconti dei programmi di approfondimento, in cui fa spesso la comparsa a suon di interviste esclusive la madre della vittima. Sull’eventuale innocenza di Dolores non può metterci la mano nemmeno lo spettatore, che viene lasciato privo di indizi: non ci sono tracce da seguire, prove da raccogliere o alibi da smontare. A Tobal interessa mettere in scena il dramma che si cela dietro le quinte di un processo. Non siamo in un giallo dove c’è l’assassino da scoprire: siamo, invece, catapultati nella testa di una ragazza che è accusata di aver ucciso colei che aveva provveduto a far diventare virale in video hot amatoriale destinato a rimanere segreto.
Mentre il processo va avanti, assistiamo a una sorta di silenziosa rielaborazione dei fatti, degli eventi che la stessa protagonista non ha sufficientemente metabolizzato. La vittima è stata uccisa la mattina in cui nella stanza accanto dormiva l’accusata dopo una festa free-range (senza connessioni telematiche esterne) a base di alcol e sostanze stupefacenti. Gli eccessi della sera prima hanno portato in tutte le ragazze partecipanti al party un annebbiamento totale: nessuno ricorda cosa è successo realmente e le ricostruzioni che pubblico ministero e televisioni provvedono a fare risultano verosimili. Plausibile è anche l’arma del delitto, che secondo un perito su sei sarebbe un paio di forbici instabili. È chiaro che, al di là delle probabilità, il ritrovamento di un paio di forbici nella stanza di Dolores scateni ancora più congetture nei suoi confronti, trasformando lo spettatore per un frangente in pubblico ministero.
Nel frastuono che vive, Dolores cambia pelle. Da ragazzina viziata che si lamenta di non far sesso da due anni e mezzo, si trasforma in donna sofferente, pronta con semplicità e schiettezza a gridare il suo dolore. La feriscono i sospetti della sua stessa famiglia, le nevrosi che i suoi sono chiamati a vivere, i sacrifici che la parcella di un oneroso legale comporta, la mancata prima comunione del fratello. La famiglia deve restare unita, le grida il padre dopo una violenta discussione: nessuno in casa le punta il dito contro, chi osa solo accennare all’ipotesi di colpevolezza viene colpito con uno schiaffo.
Di fronte alle accuse più incalzanti, Dolores si comporta come se andasse incontro a un destino giù segnato da altri. Rifiuta di difendersi in tribunale ed eviterebbe anche di apparire in televisione in un popolare programma di infotainment. La sua è oramai una faccia riconoscibile per il pubblico, che prende come oro colato ciò i mass media raccontano: se la tv dice che per la città gira un puma, la psicosi diventa collettiva con conseguenze reali. In sociologia, si parlerebbe di profezia che si autoavvera. La critica che Tobal fa al sistema è inquietante soprattutto per chi vive in un Paese che ha fatto delle storie di crimine uno spettacolo a puntate. Chi l’ha visto?, Quarto grado, La vita in diretta, Storie maledette, Un giorno in pretura, Quinto indizio, Pomeriggio Cinque, Porta a porta, Storie vere: l’elenco delle trasmissioni che in Italia raccontano di omicidi trasformandoli in fiction è lunga. L’omicidio spesso diviene un feuilleton da centellinare a puntate in grado di trasformare il pubblico in accusatore o difensore. Il caso di Dolores non è molto distante da quello di Sarah Scazzi, Roberta Ragusa o Elena Ceste, tanto per ricordare quelli che hanno inchiodato allo schermo il pubblico catodico. Siamo stati tra i primi ad assistere a una deriva dell’informazione giudiziaria in tv: plastici costruiti ad hoc, parenti delle vittime che si accusano a vicenda sotto l’immancabile scritta “Esclusiva” da una puntata all’altra, le faccette dei presentatori di turno (qui incarnati da un supponente Gael Garcia Bernal), i dispacci dei tribunali letti co voce lacrimevole dalla starlet di turno che si improvvisa giornalista o psicologa e gli inevitabili esperti di grafologia, criminologia, prossemica e psichiatria (che finalmente hanno dato senso alle loro lauree) ci accompagnano da anni. Inutile negare il fascino che esercitano: del resto, dall’arbori della narrativa, l’omicidio, il sangue e i complotti, hanno un loro pubblico di fedelissimi che li segue per sentirsi migliore o per riempire le proprie vuote giornate.
Un ulteriore spunto che andava analizzato ci pone di fronte alla deriva delle immagini amatoriali che provvediamo a realizzare oggi. Dolores avrebbe ucciso l’amica dopo che questa avrebbe diffuso un video hard in cui l’accusata era intenta a praticare una fellatio a un ragazzo. In Italia, un caso simile ha portato alla morte della protagonista della vicenda e sarebbe stato interessante approfondire quali meccanismi prima di esibizionismo e poi di protezione si mettono in atto in chi si ritiene ferito nella propria intimità quando questa intimità ha scelto di condividerla con una o due persone fidate.
Acusada è un ottimo secondo film che Tobal poggia tutto sulle spalle della protagonista Lali Esposito, formatasi nella grande scuola della telenovela argentina, che negli anni ha saputo regalarci attori come Ricardo Darin o Gerardo Romano (colui che nel film interpreta il pubblico ministero).
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LA PAROLA AL REGISTA
«Nel corso degli ultimi anni, mi ha sbalordito vedere con quanta fascinazione seguiamo i casi di cronaca nera proposti dai media. E sono doppiamente sbalordito considerando che, a dispetto della consapevolezza del fenomeno e della sua costruzione, non riesco a sottrarmi al suo effetto. Come spettatore, sono vittima di un senso di inquietudine costante: un interrogativo che riguarda la natura umana delle persone vere coinvolte in esperienze in cui il confine tra pubblico e privato è offuscato dalla violenza. Acusada è sia un giallo che un ritratto di tali questioni. Uno sguardo sul processo interno ed esterno che chiunque si ritrovi coinvolto in una situazione così complessa potrebbe vivere. Oltre agli aspetti strettamente connessi al crimine, le ripercussioni si allargano anche alla sfera familiare, sociale, politica e sessuale. Abbiamo accesso al crimine e alla sua storia sempre dall’interno, con un occhio puntato sulla sfera intima dei personaggi e dei loro conflitti. Lo spettatore diventa, per così dire, il pubblico ministero, plasmando la propria verità? sulla scorta delle informazioni fornite dalla sceneggiatura ma, soprattutto, sulla base dei gesti e del comportamento di una protagonista il cui mondo interiore ci e? precluso, il cui volto è opaco come il dubbio stesso. Il cinema è forse in grado di svelare una fragile verità che sfugge tanto alla logica della giustizia quanto a quella delle argomentazioni? Il film è il ritratto di una società? sopraffatta da nuove forme di comunicazione e di esposizione che si ripercuotono sulle relazioni sociali e interpersonali in un modo che non siamo ancora in grado di comprendere. Una società? nella quale i fatti vengono sempre più? diluiti nella battaglia delle opinioni e la verità, o quanto resta di essa, e? confusa dalle parole che hanno più? presa sullo spettatore».
Nonostante il suo primo film porti come anno di uscita il 2006 e risponda al titolo di Le vite degli altri, Florian Henckel von Donnersarck è con Opera senza autore al suo terzo film in 12 anni. Sono occorsi infatti ben 8 anni prima che il regista sia tornato a dare in pasto al pubblico una sua opera dopo i nefasti risultati di critica raccolti con The Tourist, in cui si metteva al servizio di due star egocentriche come Angelina Jolie e Johnny Depp. Il ritorno dietro la macchina da presa è stato favorito da una storia che gli ha permesso di raccontare ancora una volta le conseguenze derivanti dal passato della sua Germania e dalla biografia del pittore Gerhard Richter, che gli ha fornito elementi essenziali per un dramma che racconta di Olocausto e creazione ma anche di famiglia, paternità e maternità.
L’azione ha inizio a Dresda nel 1937 e vede in scena il piccolo Kurt, che in compagnia dell’amatissima (e bellissima) zia Elizabeth si reca in un museo e segue la presentazione della guida, attenta a marcare le differenze tra il concetto di arte che ha il regime nazista e quello che hanno gli artisti contemporanei, definiti degenerati. Qui, Kurt impara dalla zia cosa vuol dire realmente dipingere e cosa deve spingere a farlo. Il regime nazista conosce però presto la sua deriva più pericolosa e, da brava studentessa, Elizabeth è costretta a un incontro ravvicinato con Hitler che la spinge ad avere una forte crisi isterica. La famiglia a cui appartengono non sposa nessuno degli ideali nazionalsocialisti e l’ipocrisia formale che il regime impone mal si sposa con l’atteggiamento ribelle sia della giovane sia del padre di Kurt (costretto a indossare qualche scena dopo una spilla del Reich solo per assicurarsi un capitale in futuro). La crisi della ragazza è la molla per cui, dopo una visita medica, è internata in un ospedale psichiatrico.
Quella che dovrebbe essere una cura di due settimane per Elizabeth si trasforma in altro. Sono gli anni in cui il regime manda a morte o sterilizza gli imperfetti, in modo da non garantire loro una successione ed eliminare per sempre i geni non rispondenti ai canoni di perfezione della razza ariana. Il programma trova uno dei suoi massimi sostenitori in Karl Seeband, un ginecologo che non si fa scrupolo di sterilizzare le giovani donne per poi deciderne la morte qualche anno dopo nelle camere a gas. Dopo i bombardamenti del 1943, Elizabeth muore in una camera a gas: Seeband non paga mai per ciò che ha commesso neanche con l’arrivo dei russi e di un sergente che, caso vuole, gli sia riconoscente per quasi tutta la vita e lo protegga.
Lo scorrere del tempo porta rapidamente agli anni Cinquanta facendo incontrare in maniera beffarda il destino dei due uomini. Giovane studente di pittura all’Accademia, Kurt ha visto morire il padre suicida (la ricostruzione tedesca ha punito anche chi al nazismo aveva aderito anche solo per ragioni di convenienza negandogli ogni possibilità di reinserimento sociale) e si è fatto già le ossa lavorando nel mondo delle insegne e delle pubblicità quando conosce Ellie, abbreviazione di Elisabeth, studentessa di moda figlia di Kurt. In breve, i due si innamorano e vivono con uno stratagemma sotto il tetto di casa Seeband, che si trasforma quando la ragazza rimane incinta in clinica degli orrori.
La voglia di libertà, il matrimonio e il creare arte per se stesso e non su commissione (come sta facendo per il Museo di Storia) spingono Kurt ed Ellie a emigrare a Dusseldorf, dove il ragazzo (ormai trentenne) entra in contatto con un diversa percezione dell’essere artista. Mentre Karl, anch’egli trasferitosi qualche tempo prima, rientra prepotentemente nelle loro esistenze senza che il suo passato venga rivelato, Kurt si approccia all’arte concettuale, a quella materialistica e a quella performativa senza trovare mai una propria voce. La svolta arriverà nel momento in cui l’arresto dell’ex capo nazista del suocero, dopo decenni di latitanza, farà tornare alla sua mente le parole e la triste parabola della zia.
Costruito minuziosamente scena dopo scena e compostamente recitato, Opera senza autore si divide in due parti di egual durata dai sapori differenti. Mentre la prima parte è incentrata sul nazismo e sulle atroci verità che ancora oggi si porta dietro, la seconda parte va a indagare la concezione di ispirazione e di arte. La ricostruzione storica degli eventi precede in maniera cronologica, le varie date cruciali vengono sottolineate da una scritta in sovrimpressione e i personaggi appaiono per quasi tutta la vicenda immutabili.
Sono tutti in qualche modo vittime del potere di Karl Seeband, che mai dimentico dei tempi che furono esercita (in maniera subdola e prepotente) il suo comando su chi lo circonda. Inventa per esempio problemi ginecologici per la figlia, sottoponendola a un inutile aborto che le costerà (forse) la possibilità di divenire un giorno madre. Deride apertamente il genero sottolineando come, in un momento di sconforto per mancanza di ispirazione, il suo bianco su tela bianca sia innovativo. Tradisce la moglie e si mostra perfetto, inossidabile e attento alla morale. Nei suoi occhi non c’è mai un accenno di pentimento o di vergogna: sentimenti che lo assalgono in una sola occasione quando, rielaborando fotografie tratte da album privati, giornali o tessere, Kurt realizza le sue prime “opere senza autore” e mischia i volti di zia Elizabeth e del suocero. Seeband è metafora dell’Europa stessa: vecchia signora che, pur di fronte all’evidenza delle proprie colpe, non crolla e non confessa. Salvare una vita significa salvare il mondo stesso e Seeband crede di avere tale peso sulle spalle, è un prescelto che decide sul destino altrui ma, paradossalmente, non sul proprio.
La ricerca della propria ispirazione artistica in Kurt si tramuta in elaborazione del lutto. Riesce a trovare la sua strada quando, riappropriandosi dei ricordi della zia Elizabeth, ricorda che la bellezza risiede nel vero e che non bisogna mai abbassare lo sguardo. La coerente follia tedesca non si tramuta in sregolatezza, rischio che i ritratti sugli artisti corrono quasi sempre. Il genio di Kurt emerge in tutto il suo splendore dopo un lungo processo che lo porta esteticamente a contatto con più forme d’arte ma è soprattutto la figura del professore Verten a fargli capire che trovare appiglio nella sua esperienza e restituire la propria prospettiva sul mondo (ich, ich, ich). La riflessione di Donnersmarck sull’arte si può estendere su tutte le arti che conosciamo: cosa differenzia un autore da un altro se non la sua soggettività, il modo in cui guarda l’orizzonte e il peso delle esperienze che si porta dietro?
La zia Elizabeth per il piccolo Kurt è una sorta di figura materna da prendere come modello. È lei che lo inizia al mondo dell’arte ma è anche colei che pur facendo al piccolo da mamma non potrà mai biologicamente esserlo. Lo stesso destino sembra attanagliare anche Ellie Seeband, che a un secondo aborto spontaneo scopre quali danni abbia causato in lei quello che le ha praticato quasi in clandestinità il padre. Il tema della sterilità e della mancata procreazione diventa metafora della ricerca di originalità artistica da parte di Kurt (non a caso, le opere sono viste come figli) mentre diviene una sorta di persecuzione per Karl, che senza mai ammettere pubblicamente le sue colpe sente il cerchio intorno a lui stringersi ulteriormente.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Parlando di Tennessee Williams e Marlon Brando, il regista Elia Kazan disse che il talento dei geni è la crosta sulle ferite ricevute nella loro infanzia. Ciò significa che gli esseri umani hanno una capacità quasi alchemica di trasformare un trauma in qualcosa di glorioso. Opera senza autore è il tentativo di osservare questa alchimia, attraverso il prisma dei traumi storici del mio paese, la Germania».
Opera seconda è anche quella che realizza Brady Corbet che, dopo aver trionfato nella sezione Orizzonti qualche anno fa con L’infanzia di un capo, propone in concorso Vox Lux. Si tratta in poche parole del racconto dell’ascesa al successo di Celeste, una giovane che si ritrova quasi suo malgrado a divenire un’icona della pop music mondiale senza avere forse la lucidità per stare sul palco.
Vox Lux inizia nel 1986 con un video amatoriale e la voce narrante di Willem Dafoe che ci introducono alla vicenda. Al centro dell’intreccio, vi sono due sorelle che si ritrovano a condividere lo stesso talento per la medesima arte: il canto. Si tratta di Ellie, la maggiore, e di Celeste, quella forse meno dotato ma che la vita trasformerà in protagonista grazie a un episodio di triste cronaca nera. È infatti il 1999 quando Celeste viene colpita da un proiettile sparato da un suo compagno di scuola, entrato armato della sua classe e intenzionato a mettere in atto una strage. Celeste se la cava con un proiettile che le si incastra tra due vertebre costringendola per il resto dei suoi giorni a prendere antidolorifici. La sorella Ellie è sempre al suo fianco e con lei, tra una sessione di idrokinesiterapia e l’altra, trova il tempo di prendere parte a una cerimonia in onore delle vittime del massacro, scrivendo appositamente una canzone.
Il brano che Celeste canta, colpendo il cuore di una nazione addolorata da troppi episodi simili tra loro, si trasforma in una specie di inno nazionale e attira le attenzioni di un discografico, che avvicinando Celeste la spinge a divenire improvvisamente donna. Lavorare per Celeste vuol dire prendere le prime lezioni di danza, cimentarsi in coreografie, entrare in sala studio ma soprattutto divertirsi, soprattutto quando con la sorella parte alla volta di Stoccolma, dove un importante produttore lavorerà alla sua prima hit pop. Rubando quello che è il sogno della sorella Ellie, Celeste vive di un incubo ricorrente che racconta a un musicista con cui trascorre una notte di sesso (che la farà divenire madre). Ma ciò che si ruba ha sempre un prezzo da pagare e a tale legge morale non sfugge nemmeno Celeste che è si ritrova davanti alla relazione tra il suo manager e la sorella, un tradimento che vede come doppio e che non perdonerà mai.
Si vola direttamente nel 2017. Celeste è una cantante affermatissima, conosciuta in tutto il mondo, idolatrata dai fan e dal tormentato rapporto sia con la stampa sia con la famiglia. La sua dipendenza da alcol, droga e antidolorifici l’ha resa protagonista di alcuni spiacevoli episodi che gli sono costati anche molto in termini di milioni di dollari. Tornata a New York per una serie di concerti e il lancio di un nuovo disco, deve gestire una complicata giornata in cui si alterneranno conferenze stampa, interviste, diverbi con la sorella, un incontro problematico con la figlia Alby, l’ennesima bravata prima di salire sul palco e il ricordo di accordi con il demonio.
Diviso in Preludio, Primo Atto (Genesi), Secondo Atto (Rigenesi) e Finale (un’idea simile a quella di Suspiria di Luca Guadagnino), Vox Lux mostra quale sia il grande potere inseguito in epoca moderna, tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI secolo: la celebrità. Per divenire celebri, molto spesso basta rendersi protagonisti di qualcosa che va fuori dall’ordinario: lo aveva del resto ben mostrato Gus van Sant di Da morire, quando a una mefistofelica Nicole Kidman faceva fare di tutto pur di agguantare il successo. La celebrità, epitome della modernità che viviamo, rende in qualche modo vicino alle divinità: comporta infatti l’adorazione, un numero spropositato di seguaci, senso di onnipotenza, deliri onirici e maniacale senso di controllo delle vite altrui, decidendone vita o morte. Celeste non vuole essere celebre, lo diventa per riflesso delle azioni altrui quando sopravvivendo all’attentato nella sua classe scolastica diviene la voce dell’evento stesso.
Paradossalmente, la sua esistenza è segnata dal sangue e dagli attacchi terroristici: nel 1999 a scuola, nel 2001 alle Torri Gemelle (deve rientrare a New York per girare il suo primo video musicale quando ha luogo la tragedia del WTC) e nel 2007 in una spiaggia in Croazia. Durante l’ultimo di questi episodi, gli assassini indossano le maschere che la stessa indossava nel primo video girata e la stampa inizia a far speculazioni sulla coincidenza (attacco indiretto al mondo occidentale che Celeste rappresenta o coinvolgimento a qualche titolo nella vicenda?, minaccia velata o complicità?). Alterata, a una domanda in conferenza stampa, fa un ardito paragone in cui evidenzia come i terroristi altro non siano che gente alla ricerca di attenzione mediatica asserendo che smetteranno di esistere quando i giornalisti, razza per lei crudele, smetteranno di occuparsene e non ne parleranno più. Quindi, per Corbet il terrorismo, vera piaga del XXI secolo, altro non ho che una ricerca spasmodica di attenzione per ideali che altrimenti non troverebbero pubblico e presenta profondi legami con la musica pop.
La figura femminile di Celeste è segnata dai vari passaggi che vive. Figlia, sorella, madre, donna e diva, presenta fragilità interiori e rapporti irrisolti che emergono solo fuori dalle scene. Gli eccessi, i pianti e gli atteggiamenti isterici non vedono mai coinvolto il pubblico che paga per assistere ai suoi concerti (nel suo patto con il diavolo, qualora fosse vero, i soldi vengono al primo posto) ma restano limitati a chi la circonda o a chi casualmente la avvicina mentre beve del vino. Tenta pur senza successo di preservare l’immagine pubblica e di proteggere la figlia, che le ha cresciuto la sorella. I dubbi e i timori li placa con gli eccessi, che come per magia spariscono quando inizieranno le sue performance.
È interessante la scelta di Corbet di sporcare i 35 millimetri della pellicola con filmati amatoriali, sequenze al rallenty o in fast motion in grado di amalgamarsi con il racconto e divenirne appendici. Intelligente è poi la seconda di presentare i titoli di coda come titoli di testa. Ridondante ed eccessivo è invece il lungo finale, studiato a tavolino per sottolinearci la bravura della protagonista Natalie Portman e propinarci un paio di canzoni di Sia, artista che da fa produttrice esecutiva al film. La storia dell’artista che dal nulla diviene star è purtroppo usurata per conquistare del tutto così come l’allegoria della vendita dell’anima al diavolo. Stucchevole è la suddivisione netta e quasi cronometrata dei due atti e superflui sono i discorsi sui cambiamenti dell’industria discografica e dello star system in generale. Suona purtroppo tutto visto o sentito, come una canzone che ha oramai fatto il suo tempo e cerca disperatamente di aggrapparsi alla memoria con un nuovo remix. Il pastone (nonché predicozzo) socio-politico è inflazionato e non bastano gli echi (a caso) di Che fine ha fatto Baby Jane? o la bravura della protagonista (aiutata da un Law in parte mentre è meglio sorvolare sull’ennesima prova deludente della Martin) per rendere Vox Lux un film totalmente riuscito.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Il mio film precedente, L'infanzia di un capo, è ambientato in Europa all’inizio del Ventesimo secolo e prende in esame eventi che hanno, spesso inavvertitamente, definito quell’era. Testimone delle atrocità di un’epoca, il giovane protagonista del film è causa di altrettante atrocità perpetrate nell’epoca seguente. Il film è ispirato alle storie revisioniste di Robert Musil e W.G. Sebald, costrutti labirintici che concepiscono personaggi di fantasia nei panni di testimoni oculari di svolte storiche cruciali, o personaggi della vita reale calati in ambientazioni storiche alterate. Dal mio punto di vista, queste storie testimoniano un contratto con il lettore più trasparente rispetto alla tradizionale biografia storica: infatti, consentono di accedere al passato senza mettere in dubbio come l’autore possa fornire un resoconto dettagliato di un evento a cui non ha assistito personalmente. E poi, se fosse stato presente, come nel caso di un’autobiografia, non c’e? da chiedersi se il ricordo delle esperienze passate non possa essere stato ingannevole? Vox Lux è la continuazione di quel tema ma sull’altro versante del secolo: un melodramma storico ambientato in America tra il 1999 e il 2017, che narra eventi cruciali e modelli culturali che ad oggi hanno plasmato la prima parte del XXI secolo, visti attraverso gli occhi della protagonista, una popstar di nome Celeste».
7 - Continua
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