Il sesto giorno al Festival di Venezia è segnato dal ritorno in concorso di due autori in grado di abbagliare con la loro percezione di cinema: da un lato l’ungherese Nemes, fresco di Oscar, e dall’altro lato Schnabel, che torna alla regia a distanza di otto anni dalla sua ultima fatica (Miral). Il primo è chiamato a confermarsi. Il secondo a far rivivere i fasti delle sue prime opere.
Laszlo Nemes, dopo aver trionfato in tutto il mondo con il drammatico racconto di Il figlio di Saul, torna con Tramonto a interrogarsi sulla Storia dell’Europa continentale del XX secolo portandoci nell’Ungheria dei primi Anni Dieci. A Budapest, fa ritorno la giovanissima (e bellissima) Irisz Leiter, intenzionata a lavorare dopo moltissimi anni di studio all’estero (precisamente a Trieste) nella nota e prestigiosa cappelleria che ancora porta il suo cognome perché appartenuta un tempo ai suoi genitori. Sin dai primi minuti, apprendiamo che l’attività è stata rilevata da Oszkar Brill, ex collaboratore dei Leiter periti purtroppo in un tragico incendio. La ricomparsa di Irisz non viene considerata di buon auspicio da parte di nessuno: tutti intravedono in lei un diavolo tornato dall’oltretomba per riportare a galla vecchie ferite. A essere però tramortita è la stessa Irisz, che scopre di aver un fratello di cui ignorava l’esistenza, Kalman. Costui si è reso responsabile cinque anni prima dell’uccisione di un conte e, volendo ritrovarlo, Irisz decide di mettersi sulle sue tracce.
Lavorando come modellista alla Leiter, inizia a notare come la città che la circondi sia diversa da quella che, a dodici anni, ha lasciato. Intorno a lei sembrano muoversi mondi differenti che, complicati e stratificati, non le fanno comprendere quale realtà la circondi. Raccoglie pian piano indizi sul fratello, convincendosi che sia un anarchico rivoluzionario e arrivando a incontrarlo durante una drammatica sparatoria. Ma raccoglie anche pian piano indizi su Brill e sulla vera natura degli affari della cappelleria, troppo cara a Sua Altezza Reale. Pian piano, Irisz realizzerà che l’utopia in cui credeva si è sbriciolata e che il suo universo, come quello dell’Impero austro-ungarico, è giunto a quel tramonto annunciato dal titolo.
Il tema della ricerca, già presentato da Nemes nella sua opera precedente, ritorna prepotente in Tramonto. Le due opere possono essere considerate un unicum dato che per capire le derive del fiume nazista occorre risalire fino a inizio secolo quando gli equilibri dell’Europa dell’Est vengono alterati per dare origine a qualcosa di nuovo. La scelta di Nemes di raccontare il 1913 è significativa: siamo alla vigilia della Prima Guerra mondiale e quella parte d’Europa vive in bilico. Da un lato, il potere dell’aristocrazia e della nobiltà appare saldo e non mostra alcun segno di cedimento, anzi: si commettono orrori indicibili e brutture che vengono nascoste dalla bellezza dei palazzi, degli abiti alla moda e delle buone maniere. Dall’altro lato, tuttavia, i quartieri periferici e i locali più malfamati diventano la culla dei movimenti di chi desidera porre fine allo status quo per anelare alla libertà. Le due fazioni non hanno nulla in comune ma sono inevitabilmente attirate verso quel centro nevralgico rappresentato dalla cappelleria Leiter, simbolo della decadenza morale di chi con l’apparire cela l’essere. Irisz, la protagonista, diviene ago della bilancia e tramite inconsapevole tra i due mondi. In balia di forze a lei sconosciute, è confusa dai dati che raccoglie, non sa più quale sia la verità da seguire e rimane nella paura generale a cercare ragioni che la ragione stessa non conosce.
Come Saul era alla ricerca della propria dignità, Irisz è alla ricerca della propria identità. Entrambi sono mossi dal desiderio di ricongiungersi con qualcosa in cui credono: Saul con la religione dando sepoltura a quello che crede suo figlio, Irisz con la famiglia e le sue radici. Le radici di Irisz sono però paragonabili a quelle di un cancro: hanno trovato modo di espandersi in entrambe le direzioni, si sono dirette verso l’alto e verso il basso e stanno per presentare il (doloroso) conto finale. Al pari di Saul che è costretto a muoversi tra la moltitudine in un mondo che conosce, Irisz è in balia della città, degli individui che incontra, del caos delle strade e delle percezioni che recupera lungo il cammino. I sospetti, i dubbi e le remore, non l’aiutano a riprendersi il controllo di una situazione che continuamente la ingoia per poi risputarla. Irisz non trova appiglio in nessun aiutante: al pari del clima che si respira, ogni personaggio è ambiguo e nasconde qualcosa: chi sembra aiutarla è un suo nemico e viceversa. Il nome Leiter si disintegra e con lui anche le speranze di Irisz, chiamata dal precipitare degli eventi storici a dimenticare gli orrori della cappelleria per abbracciare quelli delle trincee.
Contrariamente a Il figlio di Saul in cui la scenografia era quasi assente, Tramonto è sontuoso nella sua ricostruzione storica. Costumi, ambienti, veicoli e pettinatura sono studiati in ogni loro dettaglio. Le scene di massa coinvolgono anche centinaia di comparse e restituiscono il caos, morale e metafisico, che si respirava nella città, rivale della capitale Vienna e in piena espansione. La camera non smette mai di seguire Irisz e la magnetica Juli Jakab che la interpreta: le cinge il volto con primi piani stretti per accompagnare le sue reazioni (sovente mute) o le si poggia sulla spalla portandone con sé battiti, trepidazioni, respiri e ansie. Volendo forzare la mano, Irisz potrebbe essere l’immagine di chiunque sia entrato in un campo di concentramento, di chi sia arrivato su un barcone della speranza in un mondo che non lo accetta, di chi non intuisce il perché non può decidere del proprio futuro, di chi non sa da che parte provenga il bene o il male, di tutti noi.
Girato in 35 millimetri, Tramonto ha il pregio di sembrare fuoriuscito da immagini d’epoca di un vecchio documentario ma anche il merito di aiutarci a capire quale clima sociopolitico avrebbe portato alla guerra. L’unico difetto che si può addossare al film è la troppa lunghezza, che porta più delle volte il contenuto a lasciarsi prevaricare dalla forma.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Questo film parla di una civiltà a un bivio. Nel cuore dell’Europa, all’apice del progresso e della tecnologia, anche se non scritta nelle pagine di storia, la vicenda personale di una giovane donna diventa il riflesso della nascita del Ventesimo secolo. Il film segue la protagonista, Irisz, da molto vicino consentendo un approccio intimo al dramma. Fin dal principio, avevo immaginato questo film come un modo per calare lo spettatore nel labirinto irto di ostacoli che la protagonista percorrerà, non solo alla ricerca del fratello ma anche del significato del mondo che intende scoprire».
Non si ha bisogno di aggiungere alcuna nota biografica alla figura di Vincent Van Gogh, genio dell’arte che già lo scorso anno è ritornato agli onori della cronaca cinematografica per via del progetto d’animazione Loving Vincent. Già autore di illustri biografie (Basquiat, Prima che sia notte, Lo scafandro e la farfalla), Julian Schnabel rende omaggio al più tormentato dei pittori, in At Eternity’s Gate, che sin dalla prima inquadratura mette in chiaro le carte: non si tratta di ripercorrerne tutta la vita ma solo un frangente, quegli ultimi due anni che lo portarono dritto alla morte. La vicenda ha inizio nel 1887 quando Van Gogh è costretto a ritirare i quadri dal restaurant de Châtelet a causa dell’assenza di visitatori. Si chiarisce così che si è di fronte davanti a un pittore che, rifiutando ogni tradizionalismo e discostandosi dagli impressionisti (che apprezza), non riesce a vivere della sua arte. Disposto per un po’ di tabacco e un bicchiere di vino a dare in cambio uno dei suoi schizzi, Van Gogh è un uomo solo che può contare sull’appoggio del fratello Theo, un venditore di quadri che non gli fa mai mancare denaro o cure, e sull’amicizia con Paul Gauguin, interessato però in quel frangente a scoprire nuovi mondi esotici.
Curioso di studiare la natura e le sue luci (è nella natura che si nasconde la bellezza), Van Gogh si sposta nelle campagne di Arles, dove riesce ad affittare con pochi soldi una stanza spartana. Nel giro di poco tempo, si lascia letteralmente conquistare dalla natura del posto, dagli spazi aperti e dai fiori. Interiorizza tutto ciò che la natura gli offre: colori, suoni, odori e persino gusti. Dipinge e realizza schizzi in continuazione, non lasciandosi avvincere dalla noia. Chi sembra invece non volerlo abbandonare è la solitudine: lo strano atteggiamento di Vincent, le sue visioni e i suoi comportamenti non sempre di facile comprensione, spingono la gente del posto a isolarlo e a considerarlo diverso, pazzo. Alla ricerca dell’eternità, fine ultimo delle sue pitture, Vincent finisce per essere accusato di molestie nei confronti di un bambino e per tale ragione, dopo un pestaggio, si ritrova ricoverato in un ospedale psichiatrico, ambiente da cui lo salva il fratello Theo.
Consapevole di essere affetto da momenti di buio e angoscia di cui non ricorda i dettagli, manifesta al fratello il desiderio di rivedere Gauguin, fatto rientrare in Francia con uno stratagemma dallo stesso Theo. Con l’amico, Van Gogh vive alcuni dei suoi più sereni giorni ma la convivenza, dapprima incentrata sulla loro diversa concezione di arte (“i tuoi quadri sono come ricoperti d’argilla… sono più sculture che pitture”), si rivela impossibile.
La ripartenza di Gauguin segna l’inizio della parabola discendente di Vincent. Il taglio dell’orecchio (da mandare come dono a Gauguin), il ricovero nella casa di cura di Saint-Rémy-de-Provence, la fuga dalla stessa e lo stupro di una giovane fattrice sulla strada per Arles, conducono il pittore dritto in manicomio, dove da uno scambio di batture con un prete si intuisce quanta lucida follia lo attraversi, quali battaglie interiori viva e quanta rabbia conservi. La natura è l’unico dono che Dio mi ha fatto. Dio può anche sbagliarsi con i tempi: mi fa dipingere per coloro che non sono ancora nati. Mi sento come un esule, un pellegrino sulla Terra, confessa al religioso che lo rimette in libertà.
Tornato libero, Van Gogh si ritrova a vivere ad Auvers-sur-Oise, dove stringe amicizie, sembra aver trovato i primi successi e torna a dipingere e a condividere la sua visione del mondo. Qui, trova però anche la morte in circostanze poco chiare il 27 luglio 1890, dopo aver dipinto in pochissimo tempo qualcosa come 80 quadri.
Basandosi più sul lavoro artistico di Van Gogh che su quello che raccontano pedissequamente le biografie, Schnabel mette in scena la sensibilità con cui l’artista si relazionava al mondo che cercava di capire attraverso le sue opere. Le sue rappresentazioni parlavano per lui ed esprimevano il suo punto di vista: era questo il fine ultimo del suo lavoro che, incompreso ai contemporanei, tramandava al futuro, senza interrogarsi mai su valori che non fossero prettamente artistici. Il punto di vista che sceglie il regista è quello del pittore: la telecamera diventano gli occhi di Van Gogh. Tramite essa, percepiamo come il pittore vedeva la vita, cosa si affacciava alla sua mente e quale spirito funesto lo inseguiva. I colori che avrebbe dipinto, le distese di girasoli secchi, i ritratti dei volti a lui più congeniali e gli umori più felici vengono restituiti in tutto il loro splendore mentre i momenti di tormento sono immersi in un alone giallo, le immagini diventano sporche e la stabilità traballa: tutto si confonde, non esistono linee e il mondo si capovolge.
Come Van Gogh, Schnabel si interroga sull’arte. Cos’è l’ispirazione e cosa la creazione artistica sono le tematiche con cui si confronta. Il compito dell’artista è quello di non inventare nulla ma di rielaborare semmai ciò che già esiste. Il colpo di genio consiste nell’agire d’impeto, d’impulso, senza studiare a tavolino il da farsi (come i pittori che Van Gogh ama, da Goya all’italiano Veronese). Senza schizzi preparatori o senza storyboard, come si addice più al mondo del cinema. La natura dunque come ispirazione e le proprie opere come famiglia. L’aspirazione all’eternità come fine ultimo dell’opera non è forse quella che tormenta chiunque si cimenti con l’arte?
Willem Dafoe nei panni del protagonista si rende perfetto Gesù pronto al martirio. L’immagine del Cristo è evocata sia visivamente sia verbalmente nel dialogo che Van Gogh ha con il prete in manicomio. Con i suoi occhi chiari e il suo volto anomalo, Dafoe approccia il personaggio in sottrazione e non eccede nella sregolatezza di cui spesso i libri parlano. Era facile farsi prendere la mano e scivolare nel patetico: Dafoe, da attore navigato, è cosciente del limite di sofferenza in scena che non va oltrepassato e non teme il confronto con il Kirk Douglas di Brama di vivere. Ha anche la fortuna di essere sempre al centro dell’inquadratura e di divenire egli stesso scultura vivente nelle mani del regista. Lo affiancano piacevolmente Oscar Isaac (un Gauguin che, seppur poco in scena, ascia il segno), Emmanuelle Seigner (è madame Ginoux) e Rupert Friend (è Theo). Diversi poi i camei d’eccezione, da Mathieu Amalric (è il dottor Gachet) a Mads Mikkelsen (è il prete del manicomio).
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LA PAROLA AL REGISTA
«Questa non è una biografia del pittore realizzata con precisione scientifica. È un film sul significato dell’essere artista. È finzione, e nell’atto di perseguire il nostro obiettivo, se tendiamo verso la luce divina, potremmo addirittura incappare nella verità. L’unico modo di descrivere un’opera d’arte è fare un’opera d’arte.
“Riuscire a creare qualcosa di imperfetto, di anomalo, qualcosa che alteri e ricrei la realtà in modo tale che ciò che ne risulta siano anche delle bugie, se si vuole, ma delle bugie più vere della verità letterale”».
Sull’arte e sulla commistione dei suoi generi sembra riflettere, anche se non toni che portano da tutt’altra parte, anche Dragged Across Concrete, opera terza di S. Craig Zahler. Scritto ancor prima di Cell Block 99 e subito dopo il buon riscontro di Bone Tomahawk, Dragged Across Concrete racconta la storia di due poliziotti che, sospesi dal servizio per i metodi usati, decidono di fare il grande salto e arricchirsi sfruttando un colpo messo a segno da un astuto criminale.
Il tutto ha inizio quando, nell’arrestare un narcotrafficante e la sua fidanzata, il navigato agente Brett Ridgerman e il più giovane collega Anthony Lusaretti (di chiare origini italiane) si fanno prendere un po’ troppo la mano. Le immagini, catturate da un vicino dell’arrestato, finiscono su tutti i telegiornali spingendo il loro superiore, Calvert, a sospenderli senza stipendio per quasi due mesi. Marito di una donna affetta da sclerosi multipla e padre di un’adolescente costantemente bersagliata da una gang di ragazzi di colore, Brett decide allora che è arrivato il momento di tentare un’altra strada: ricorrendo a una vecchia conoscenza che gli deve un favore, scopre che presto sarà messo a segno un colpo (non sa di che natura) da un losco criminale che ha affittato un appartamento per tutti inesistente. Nell’impresa, coinvolge anche Anthony, che in prossimità delle nozze con una giovane assistente sociale ha necessità di battere cassa.
Contemporaneamente, si assiste alla presentazione di Henry Johns, un giovane criminale che, uscendo dal carcere, fa ritorno in casa della madre (che per guadagnarsi da vivere si prostituisce) e del fratello minore Ethan (lasciato su una sedia a rotelle da un malvivente e amante dei videogiochi). Per ridare nuova speranza ai suoi cari, Henry accetta insieme all’amico Biscuit di far da autista ai criminali che rapineranno una banca. Il capo dei tre, che prenderà parte al colpo, è lo stesso Lorentz Vogelmann che Brett ed Anthony hanno puntato.
Le vicende di Brett, Anthony ed Henry si fondono nel momento in cui, messa a segno la rapina, si ritrovano in un vecchio deposito abbandonato per una resa dei conti dall’esito tutt’altro che scontato.
A Zahler piace di gran lunga stupire. Dragged Across Concrete è un’opera a tutto tondo, che difficilmente si riesce a catalogare in un genere predefinito. Chi si aspetta lo splatter, ad esempio, rimarrà deluso. Lo stesso valga per chi pensa a un film d’azione, a un heist movie in piena regola, a una commedia grottesca o a un dramma a sfondo sociale. Il film è tutto ciò dal momento che attinge a piene mani da modelli eccellenti: gli echi di Il principe della città, Nashville, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Piombo rovente, Hana Bi, Taxi Driver, Il mucchio selvaggio e persino Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante si sentono frame dopo frame. Sequenza dopo sequenza, quello del regista appare come un continuo gioco di rimandi e citazioni che trasforma il suo lavoro minuto dopo minuto. Non mancano le battute sagaci o le situazioni al limite dell’assurdo ma più che alla risata si punta al pastiche e al guilty pleasure. Il western sembra essere la linea di fondo seguita: rapina in banca nel selvaggio West di una grande metropoli, i banditi armati, i fuorilegge dal cuore d’oro, gli sceriffi corrotti e l’oro, tanto oro su cui mettere le mani. Non mancano nemmeno le tre sepolture, ad avvalorare la tesi. È possibile però anche pensare a un continuo rimando al mondo del videogioco ma si tratta di una sorta di illusione provocata proprio dalla presenza dei videogiochi nella sottotrama inerente al personaggio di Henry.
Ma cosa muove gli scalmanati protagonisti? La famiglia, come nella più tradizionale messa in scena scorsesiana. Brett desidera proteggere la sua dai nuovi nemici (i neri che popolano il suo quartiere) e garantire serenità alla moglie Melanie, malata gravemente. Anthony vuole sposarsi con la fidanzata e ripagare quell’anello che ha comprato. Henry anela a un futuro migliore per la madre prostituta ed eroinomane (l’amore per la figura materna si evince anche nell’ultima conversazione con l’amico Biscuit) e il fratello paralitico. Vecchi sentimenti dunque che si mescolano alle chimere dell’epoca moderna, in cui il ricatto e l’umiliazione passano per un video virale o in cui il nemico è l’altro: non basta la parola per fidarsi, occorrono i fatti. Le promesse non sono più tali e ogni prospettiva si rovescia: chi avrebbe dovuto difendere attacca e chi avrebbe dovuto attaccare difende. Diversi, poi, i riferimenti critici agli Stati Uniti dell’epoca Trump, le battute scorrette nei confronti degli immigrati (italiani compresi) e una sana e consapevole disillusione.
Grazie a protagonisti in parte (Dio salvi Mel Gibson) e a comprimari d’eccezione (da Udo Kier losco commerciante a Don Johnson tenente fino a Jennifer Carpenter impiegata di banca), Dragged Across Concrete si rivela un vero divertissement autoriale da non prendere sottogamba.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Volevo fare un poliziesco carico di suspense interpretato da un cast corale. Mel Gibson è Ridgeman, il poliziotto istintivo e amareggiato. Vince Vaughn è il magistrale antagonista. L’acuto e carismatico Tory Kittles e il poliedrico Michael Jai White vestono i panni delle controparti malavitose. La bravissima Jennifer Carpenter è un altra importante tessera del mosaico. La fiducia riposta dal cast nella mia sceneggiatura e regia, insieme all’affidabilità del direttore della fotografia Benji Bakshi, mi hanno aiutato a dirigere questa articolata produzione e a realizzare un film che sono entusiasta di mostrare in anteprima a Venezia».
6 - Continua
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