Come ogni anno, puntuale arriva la pioggia sul Festival di Venezia. E sceglie di arrivare nel fine settimana, quando per ragioni organizzative si fissano le proiezioni delle opere più impegnative della Mostra. È la pioggia che fa da sottofondo nella fattispecie alla prima proiezione stampa di Peterloo di Mike Leigh, un’opera sontuosa e pregna di significati e rimandi storici che sin da subito si fissa nella memoria di chi guarda al pari dei grandi kolossal dei tempi che furono. La storia ha inizio nel 1819 quando, finita la battaglia di Waterloo, le truppe inglesi fanno il loro rientro a casa. Tra i militari, Leigh scegli di seguire le due diverse strade del generale sir John Byng, un veterano delle campagne di Wellington, e del soldato semplice Joseph. Mentre Byng viene assegnato alle regioni del nord, dove secondo il primo ministro si sta diffondendo una grave malattia tra il popolo chiamata democrazia, Joseph fa rientro a casa dalla sua famiglia, che vive a Manchester, città lontana da quella che conosciamo oggi.
La Manchester del 1819 è fortemente caratterizzata dalle divisioni tra classi aristocratiche, clero e classe operaia. Un confine netto attraversa i tre scompartimenti ma, mentre aristocratici e religiosi sono in combutta con la complicità dei magistrati, il popolo è lasciato a marcire nella sua povertà. Disoccupazione, industrializzazione e crisi finanziaria hanno portato la popolazione della città al collasso e tra i ranghi più riformisti cresce lentamente il malcontento, alimentato dagli oratori locali che, emuli del più noto Henry Hunt, provano a solleticare la voglia di libertà della gente avanzando prima di tutto la possibilità di poter avere un rappresentate locale al Parlamento (Manchester era ai tempi una delle città che non aveva nemmeno diritto di voto, stando alle leggi inglesi). Con le sue rapide folate, il vento del cambiamento si diffonde tra i vicoli e le locande ma le riunioni clandestine non lasciano indifferenti le autorità locali che, non considerando i pericoli, allertano le istituzioni nazionali e persino il re nella figura del Principe Reggente, ovvero l’inetto figlio di re Giorgio III. Suffragette, tessitori, proprietari terrieri, giovani pieni di belle speranze e giornalisti locali si prodigano per riuscire a portare in città l’irraggiungibile Hunt per un raduno in grado di richiamare migliaia di persone, provenienti dalla città ma anche da molto più lontano.
Nelle stanze del potere si decide però di mandare a reprimere il tutto la Guardia Nazionale, alla cui guida vi è quel sir Byng appena ritornato dalla guerra. Non volendosi sporcare le mani in maniera diretta, Byng fa in modo di non essere presente lasciando il comando al suo vice: ne conseguirà una carneficina che i futuri fondatori del quotidiano The Guardian chiameranno tristemente Peterloo.
Che Mike Leigh sia un maestro è un dato di fatto. Il cinema inglese sa di avere nell’autore uno dei suoi massimi rappresentanti e Leigh non delude le aspettative di chi è abituato al suo modus operandi composto e rigoroso. Pardo d’Oro a Locarno nel 1972, Palma d’Oro a Cannes nel 1996 e Leone d’Oro a Venezia nel 2004, Leigh sa come costruire un intreccio e ne dà prova nella prima ora e mezza di Peterloo, quando con calma, solerzia e attenzione, presenta i personaggi che compongono la vicenda, senza lasciare nulla al caso e senza sposare alcun punto di vista in particolare. La sua attenzione è rivolta al fine ultimo: mostrare quanto pericolosa, in un verso o nell’altro, possa essere la parola umana, in grado di illudere e di uccidere.
La situazione storica del periodo viene mostrata attraverso ogni singolo personaggi che appare sulla scena: un cartello illustrativo avrebbe potuto in pochissimi minuti adempiere il compito tediando. Leigh, invece, sceglie di dilungarsi rapendo letteralmente chi guarda. Maniacalmente quasi, ci restituisce le figure di potere, interessate a preservare lo status quo per non perdere i loro privilegi: magistrati che mettono in pratica la loro personalissima visione della legge, regnanti interessati ai lussi della loro condizione e un Parlamento talmente conservatore da far impallidire le destre più estremiste. Temono gli effetti della Rivoluzione Francese e desiderano sedare alla nascita ogni possibile insurrezione: colpire Manchester equivale nella loro logica a far sì che la malattia si blocchi e non si diffonda. Dall’altro lato, Leigh mostra come le conseguenze delle decisioni di pochi si riversino sulla moltitudine. Le classi più povere, le donne, i reduci di guerra, i contadini e i proprietari terrieri, già all’angolo per le varie congiunture, sono oramai stremati e credono nelle parole di chi, novello Messia, porta loro il nuovo Verbo. Libertà o morte sarà il credo finale, quello a cui si atterranno anche nel peggiore dei momenti. L’arte oratoria, il potere speciale di muovere qualcuno con l’uso delle parole, ne esce con le ossa rotte.
Seppur ambientato nel 1819, Peterloo è attento al presente: le riflessioni che porta con sé sono universali e applicabili a ciò che ancora oggi viviamo nel mondo. Basta guardare la nostra classe politica per renderci conto che ciò che interessa non è lontano da ciò che interessava i governanti di allora. Basta guardare la nostra gente in grado di farsi ammaliare dalle parole, traditrici e beffarde, per intuire che Leigh ha colto nel segno. Per tale ragione, è un film politico, di interesse collettivo. Ma gli amanti della storia dell'arte non possono che intravedervi anche un quadro in continuo movimento, che raggiunge l'apice nel portare in vita La zattera della Medusa di Géricault (dipinto non a caso nel 1819).
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LA PAROLA AL REGISTA
«Le forze e le debolezze dell’umanità. L’eterna battaglia di amore, dedizione, integrità e impegno contro potere, corruzione, avidità e cinismo. Se forse le lotte di due secoli fa in favore della democrazia si perdono in un lontano passato, il massacro di Manchester, evento fondamentale nella storia della libertà universale, ancora risuona per infinite ragioni nel nostro caotico mondo del XXI secolo. Peterloo è una celebrazione del potere della speranza, e un lamento contro l’inesauribile capacita? di distruzione dell’uomo».
L’opera più attesa della giornata era però senza dubbio Suspiria di Luca Guadagnino. Cosa abbia spinto il nostro regista più americano a prendere in mano uno dei capisaldi della filmografia di Dario Argento è presto detto dalle note di regia: da bambino era rimasto colpito dal manifesto prima e dal fatto di non aver potuto vedere il finale in televisione qualche anno dopo perché i suoi genitori lo mandarono a letto presto. Chiarisce anche che il suo lavoro non è un remake ma una cover: chi è avvezzo di musica sa che una cover non presenta gli stessi arrangiamenti dell’originale ma propone qualcosa di nuovo che, a grandi linee, omaggia la base di partenza. Per dirla in maniera più facile, anche le cover che mettiamo ai nostri cellulari non sono delle copie della custodia originale. Sarebbero del resto, inutili.
Guadagnino, quindi, prende la sceneggiatura di Dario Argento e Daria Nicolodi e la modifica a suo gusto, proponendo una sua versione di Suspiria che, mischiando le carte sul tavolo, si spoglia della sua dimensione prettamente horror per assumere contorni differenti. È straniante vedere la storia sullo schermo modificarsi pian piano e divenire qualcosa di totalmente inedito, a partire dall’ambientazione. Guadagnino colloca la sua storia nel 1977, anno in cui il primo Suspiria uscì nelle sale italiane. La scelta non è casuale: ha voluto a suo modo sottolineare quale fosse il clima sociopolitico di quel periodo. I personaggi poi si muovono a Berlino e devono fare i conti con le conseguenze del terrorismo generato dalla banda Baader Meinhof: la Storia riempie gli angoli dell’opera di Guadagnino costantemente, sia attraverso i dialoghi sia attraverso le immagini mostrate alla televisione o i resoconti dei radiogiornali. Addirittura, fa in modo che rientri all’interno della sua sceneggiatura dalla porta principale: Patricia, una delle ragazze accolta nella prestigiosa accademia di danza di Helena Markos, è sospettata di far parte della Raf nel momento in cui scompare misteriosamente senza lasciar traccia.
Patricia era in cura presso uno psichiatra, l’anziano dottor Josef Kamperer che, seppur quasi sordo fisicamente, riesce a sentire i rumori che vengono dall’anima tormentata della giovane. Ciò lo spinge, tra un ricordo della moglie deportata e l’altro, a interessarsi dell’accademia, dove è da poco giunta dagli Stati Uniti la promettente Susie. La scomparsa di Patricia e l’arrivo di Susie avvengono in contemporanea e non passa molto tempo prima che la seconda prenda il posto della prima nel cuore dell’istitutrice, madame Blanc (ballerina e coreografa, celebre per aver creato un difficile numero chiamato Volk), e poi in quello delle streghe che governano il posto, che vedono in lei la perfetta candidata al rituale, qualcosa di cui tutte le amministratrici e governanti del posto sembrano essere a conoscenza. Pian piano, gli inganni, gli intrighi e le macchinazioni in gioco prendono forma e danno vita a un puzzle in cui entrano in gioco tre figure quasi ancestrali (Mater Tenebrarium, Mater Lacrimarium e Mater Suspirorium) la cui soluzione arriva inaspettata nel finale, lontanissimo anni luce da quello argentiano.
Suddiviso in sei capitoli e un prologo (più una scena che arriva dopo i titoli di coda), Suspiria è in primo luogo un film di inquadrature, movimenti di macchina e musica. Esemplari a tal proposito appaiono un paio di scene, a cominciare da quelle in parallelo in cui si mostra da un lato le capacità di Susie e dall’altro quello che accade a Olga, una delle ragazze che “lasciano” la compagnia, o da quella in cui, per un esercizio, madame Blanc copre gli specchi muovendosi come la locomotiva di un treno pronto a distruggere tutto ciò che trova al suo passaggio. I movimenti di macchina sono sempre fluidi e non si lasciano prendere né dalla concitazione delle scene né dalla voglia di strafare (un unico difetto, se vogliamo, si trova solo nel finale quando il troppo rosso in scena rischia di rendere opache le fredde e fassbinderiane immagini). La musica di Thom Yorke, leader dei Radiohead, puntella ogni momento saliente e avvolge con la sua malinconica e onirica armonizzazione, rotta solo dalle due grandi coreografie che nel segno del sangue, figurato o reale, segnano la vicenda.
Ogni capitolo, denominato atto, è caratterizzato da un titolo differente (1977, Palazzo di lacrime, Prendere in prestito, Prendere, Nella casa della madre e Suspirorium, più l’epilogo Una pera a fette) e da un crescendo delle prove attoriali: Tilda Swinton, attrice feticcio del regista, è sempre all’altezza delle aspettative mentre la vera sorpresa è Dakota Johnson. Celebre la trilogia delle Sfumature, la Johnson trova finalmente un ruolo che le permette di mostrare la sua tempra e le sue capacità: impegnandosi in prima persona nelle coreografie, è un mix di Natalie Portman in Cigno nero e, curiosamente, di Jennifer Lawrence in Madre!. Il secondo riferimento, tra l’altro, viene spontaneo per via di un’infelice battuta della sceneggiatura.
A differenza del Suspiria di Argento, ci troviamo di fronte a una protagonista consapevole del suo ruolo all’interno dell’accademia (Io sono chi sono, dirà durante uno dei tanti incubi notturni infusi da madame Blanc), sempre padrona dei propri passi e mai remissiva o accondiscendente. “Il confine tra amore e manipolazione è labile”, sentenzia il dottor Klemperer ma è difficile stabilire nel film di Guadagnino chi manipola chi per via di un eccezionale ribaltamento del gioco delle parti. Che l’accademia sia un nido di streghe poi è chiaro sin dall’inizio e fortunatamente il regista evita ogni spiegazione. A far i conti con il senso di Colpa e di Vergogna sarà la Mater Sospirorium nel tempo (e nel sequel?) che verrà e non il regista, riuscito nell’intento di trasmettere la sua passione.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Ogni film che realizzo è come un esordio per me: un nuovo inizio che parte dalle memorie che hanno costruito il mio immaginario. A dieci anni, a Cesenatico, ebbi l’epifania di Suspiria: un poster in un cinema chiuso. Trentasette anni dopo debutto al cinema (dell’orrore) grazie al potere evocativo di Dario Argento, capace di scatenare gli immaginari. Suspiria nasce nel 1976 ed esce nel 1977. Il nostro Suspiria è ambientato nel 1977, un anno fecondo per le rivoluzioni femminili-femministe».
Dalle ambientazioni rigide dell’opera di Guadagnino si è passati alla periferia parigina presentata da Close Enemies di David Oelhoffen. La storia ha il suo sfondo nel mondo del traffico di stupefacenti, gestito nel XXI secolo dagli immigrati marocchini di prima, seconda e forse terza generazione. Tra uno spaccio e l’altro di cocaina, si muovono Manuel, francese, e Imrane, di origine marocchina, mentre sul loro operato indaga Driss, agente della Narcotici i cui tratti somatici rivelano sin da subito la sua origine nordafricana.
Divenuto poliziotto per affrancarsi dall’universo in cui è nato e cresciuto, Driss ha convinto Imrane a fare da informatore e tramite per l’arresto di un grosso spacciatore, Reyes, ma finisce vittima della sua stessa voglia di libertà. La mattina della consegna, mentre è in macchina con Manuel e un altro amico, rimane vittima di un agguato da cui si salva unicamente il francese. Ciò scatena ovviamente sospetti e intrighi che portano la malavita a ritenere Manuel autore del delitto. Soltanto l’aiuto di Driss gli permetterà di risalire al bandolo della matassa.
Nel segno dell’adrenalina, Oelhoffen mette in scena quello che può essere definito un thriller sociologico. Il cinema francese degli ultimi anni ci ha mostrato come Oltralpe si sia a proprio agio con i polizieschi e i thriller, spesso a carattere psicologico. Oelhoffen fa fare al genere un passo in avanti e lo trasforma in indagine sociale, soffermandosi sul significato di identità e appartenenza a un gruppo. La sociologia insegna che nella formazione di un individuo fondamentale appare la sua relazione con il gruppo dei pari, grazie al quale si connota e assume comportamenti atti a farne parte.
Driss e Manuel hanno però ognuno a proprio modo problemi di identità: Driss ha voluto in qualche modo allontanarsi dal casermone in cui è cresciuto, dagli amici che non hanno trovato altro sbocco se non il mercato della micro e macro criminalità e dalla famiglia che non ha compreso le sue scelte. Per di più, ha dato il meglio di se stesso per ribaltare la situazione e trasformare una situazione di svantaggio (le sue origini marocchine) in qualcosa di vantaggioso: grazie alle sue conoscenze, è stato promosso alla Narcotici e può muoversi con sicurezza in un ambiente che conosce a menadito, avvicinando criminali e proponendo loro accordi. In qualche modo, lancia ancore di salvezza a cui qualcuno si aggrappa cercando di non annegare nel fango. Manuel invece non si riconosce in coloro che fino a qualche giorno prima erano la sua famiglia: trovare chi ha ucciso Imrane per lui diventa una missione utile in primo luogo a capire chi è egli stesso e che fine ha fatto. Realizzare di essere diventato senza colpa il nemico destabilizza le sue convinzioni e ingigantisce la sua solitudine, tanto più dopo che l’unico di cui può fidarsi è Driss, quello sbirro un tempo suo amico che è passato dall’altro lato della barricata. Accettare il “tradimento” di Driss non significa nella sua logica accettare il tradimento “di sangue” di cui è vittima.
Onesto, frenetico e fortemente legato a valori tradizionali come la famiglia (e il finale ne è la testimonianza concreta), Close Enemies vive di immagini sporche come sporco è l’inganno che porta via Manuel, fino alla fine fedele a un mondo che non esiste più e che non ha nella fiducia il suo imperativo massimo. Non manca poi di offrire, anche in maniera ironica, qualche spunto di riflessione su quello che è lo status degli immigrati in Francia, non certo un paradiso a cui approdare. Più che azzeccati i due interpreti principali, Reda Kateb e un sempre più interessante Matthias Schoenaerts.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Come nei miei film precedenti, uno dei temi che mi piace indagare è quello sulla ricerca dell'identità. In Nos retrouvailles, il mio primo film, raccontavo di un giovane uomo in opposizione al padre. In Loin des hommes, i due protagonisti devono resistere al confinamento a cui li hanno costretti. In Close Enemies, invece, devono combattere contro il gruppo che dovrebbe definirli e donare loro un'identità specifica. Mi piace trattare della tensione che si viene a creare tra la libertà individuale e le cerchie a cui apparteniamo. Un territorio geografico disfunzionale come la città può essere al tempo stesso una protezione e una reclusione, un rifugio e una prigione».
Dalla Francia ci si sposta nella Germania del 1989 grazie ad Adam & Evelyn del regista, sceneggiatore e compositore Andreas Goldstein. Tratto dal romanzo omonimo di Ingo Schultze, pubblicato anche in Italia, Adam & Evelyn racconta la storia di due giovani fidanzati che qualche mese prima della caduta del muro di Berlino si ritrovano a vivere i giorni che cambieranno per sempre non solo le loro vite ma anche quella di tutti coloro che vivono nell’Europa dell’Est. I venti di cambiamento e di libertà hanno cominciato a soffiare e la caduta dei confini spinge molta gente a lasciare la Germania dell’Est per chiedere rifugio in Ungheria.
Adam fa il sarto e ha una certa propensione a cadere in tentazione (sembra solo platonica) con le donne che indossano i suoi abiti. Evelyn, che lavora come cameriera, un pomeriggio lo becca con un’attempata cliente e lo lascia ancor prima di partire per una vacanza. Complici una serie di circostanze, i due si ritrovano sul lago Balaton in compagnia di persone diverse: Evelyn è stata portata lì dall’amica Simone e da Michael, il cugino di lei; Adam, invece, ha portato con sé Katja, un’autostoppista senza documenti rimediata lungo la strada. La libertà e la voglia di avere una rivalsa spingono presto Evelyn tra le lenzuola di Michael ma per riconquistarla Adam è pronto anche a far scomparire i documenti di tutti. Superate le divergenze, Adam ed Evelyn capiscono di non poter fare a meno l’uno dell’altra e insieme si dirigono verso l’Austria, dove un nuovo futuro li attenderà.
Cercare di capire Adam & Evelyn significa soprattutto fare un grosso sforzo e immergersi in una realtà che, ahimè, è lontana dalla nostra. Sapere cosa significasse vivere in un mondo chiuso come quello della Germania dell’Est non è semplice come non è facile comprendere cosa significasse la libertà per i giovani che come tartarughe (animale che il regista come lo scrittore usano come metafora) non potevano facilmente superare i confini del loro guscio nazionale. L’apertura dei confini per i protagonisti rappresenta un’opportunità che chi spera in un mondo migliore non può cogliere: essere liberi concede nuove alternative, nuove prospettive e nuove vite. Vite che si affacciano anche al mondo per la prima volta: Evelyn scopre prima del finale di essere incinta ma, beffardamente, non sa di chi. Notevole, come suggerisce il titolo stesso, il parallelismo che si crea con la Genesi e la Bibbia: Adam e Evelyn sono come il primo uomo e la prima donna sulla Terra, chiamati a pagare le conseguenze per aver lasciato l’Eden. Non è un caso se le loro abitazioni in città o al lago sono costellate di giardini e alberi. Non è un caso che un errore di Evelyn modifichi il corso della vita di Adam, che resiliente accetta un destino diverso da quello che aveva sempre immaginato mentre la sua amata diventa mamma e frequenta l’università, come aveva sempre sognato. Il film, purtroppo, non riesca ad avere la stessa profondità del romanzo e soffre di una certa freddezza del regista nel mettere in scena le situazioni, per nulla aiutato dalla prova continuamente in sottrazione degli attori.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Nel discorso odierno sulla Germania dell’Est e il comunismo, i conflitti vengono ridotti alla dicotomia fra desiderio individuale di libertà e costrizioni dello stato. Questo omette un punto importante: l’obbiettivo del movimento popolare del 1989 non era la società in cui viviamo oggi. Alla fine del film, Evelyn esprime un desiderio molto comune a quei tempi: “Nessuno deve aver più paura della guerra. Adesso possiamo usare tutto il denaro per cose utili, non solo qua, ma in tutto il mondo"».
Non convince a pieno nemmeno l’esordio alla regia di Margherita Ferri, che grazie al Biennale College Cinema ha portato a termine il dramma adolescenziale Zen sul ghiaccio sottile. Protagonista della storia è Maia, un’adolescente che tutti chiamano Zen (le prime tre lettere del suo cognome) e che in una non meglio specificata località sull’Appennino emiliano frequenta le superiori, gioca a hockey su ghiaccio in mezzo a tanti ragazzi e che è vittima di atti di bullismo per essere da tutti considerata lesbica. Isolata da tutti e con la sola complicità silente della mamma e del suo allenatore, Maia viene salvata dall’ennesima prevaricazione da Vanessa, una compagna di classe che in cambio le chiede un favore: le chiavi del suo rifugio di montagna per trascorrervi la notte con il fidanzatino e avere la sua prima volta. Maia accetta ma l’insoddisfazione sessuale generata dall’incontro porterà a conseguenze che nemmeno lei sarebbe mai stata in grado di prevedere.
Sfruttando il tema dell’identità come tematica di fondo, la Ferri si lascia sopraffare dal suo stesso film finendone inconsapevolmente vittima. Non perché non sia un’opera riuscita, intendiamoci: ha una freschezza di sguardo che la maggior parte degli esordienti italiani appena sfiora. Il problema, superato l’abbagliamento dei paesaggi poco rappresentati al cinema, è nella sceneggiatura: tante tematiche vengono lanciate senza essere mai approfondite, diversi snodi trovano risoluzioni semplicistiche e lo snodo stesso della vicenda ha qualcosa di prestabilito a tavolino. Il canovaccio è semplice: status quo, rottura e riconferma dell’eroe.
Prove d’iniziazione e analisi alla spicciola, ci dicono che Maia è solo un maschiaccio, che se vuole andare avanti nella vita deve imparare a reprimere gli istinti, che spesso è meglio ingoiare piuttosto che urlare la propria rabbia e che occorre sempre diffidare da coloro che da un giorno all’altro si professano amici. Per certi versi, invece, Maia rimane vittima della sessualità: non della sua ma quella dell’amica, che sembra essere uscita direttamente da I’m – Infinita come lo spazio (stesso colore di capelli, stessa attitudine al disegno: casualità?). Ma anche del complesso di Elettra: seppur inconsciamente, anela a diventare il padre morto e a sostituirsi a lui. Approfondire quest’aspetto sarebbe stato alquanto interessante: non mostrare le conseguenze di un video virale su YouTube quando si parla di sequestro di persona, invece, è infantile.
Vivendo dell’interpretazioni di giovani alle loro prime esperienze, Zen sul ghiaccio sottile è fin troppo chiaro e non avrebbe avuto bisogno di mostrare letteralmente il ghiaccio che a poco a poco si rompe sequenza dopo sequenza: le allegorie non vanno mai sottolineate altrimenti si corre il rischio di ritenere stupido lo spettatore. Urge però concedere presto alla Ferri una nuova opportunità: i movimenti di macchina, lo sguardo sul panorama e la delicatezza della regista meritano una storia diversa, sicuri che sentiremo molto parlare di lei in futuro.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Come regista, mi è sempre interessato dare vita e centralità a personaggi come Maia, che vivono ai margini delle proprie comunità. Zen sul ghiaccio sottile parla proprio del fragile confine tra il voler appartenere a un gruppo e l’essere sé stessi senza condizionamenti. Il film, infatti, racconta il disagio e le lotte che deve affrontare chi non si conforma ai ruoli di genere e all’eteronormatività imposta dalla nostra società. Ho cercato di raccontare la storia di Maia giustapponendo le sue emozioni al paesaggio dell’Appennino Emiliano, bellissimo e dimenticato. Ho voluto esplorare la relazione tra la produzione del paesaggio e l’identità di chi vive quei territori, lavorando sull’idea di paesaggio emotivo: uno strumento per stimolare lo spettatore visivamente e accompagnarlo nella dimensione più profonda dei personaggi. Volevo fare un film radicato nella comunità LGBT+ e nei nostri territori, ma con l’obiettivo di condurre il pubblico in quel cammino universale che porta alla scoperta di sé stessi, negli anni inquieti dell’adolescenza».
Riflessione veloce e divertente sul tema dell’amore eterno è infine SugarLove di Laura Luchetti. Piccolo corto animato, SugarLove mette in scena la storia di Gemma e Marcello, due statuine su una torta nuziale che sono arrivati alla vigilia del grande giorno. Chi li ha scelti, il giorno dopo, dovrebbe sposarsi e la cerimonia per Gemma e Marcello rappresenta il coronamento del sogno di una vita: niente più separazioni o lontananze all’orizzonte ma solo felicità, amore e allegria. Purtroppo, però, qualcosa va storto e i due si ritroveranno a vivere il loro dolce amore di zucchero tra i rifiuti di un cestino.
Fabula dedicata a chi ancora crede nel sentimento per eccellenza, SugarLove inquadra costantemente il tavolo su cui poggia la torta. Tutto è statico, si muovono solo le due statuine e gli unici volti e corpi sono i loro, a testimonianza di qualcosa che sa essere esclusivo e, nelle speranze, eterno. Gli altri personaggi appaiono fuori campo tramite ombre e voci, tutte appartenenti ad attori affermati. La delicatezza del soggetto invita a far scoprire il più possibile lo sguardo di un’autrice che con il suo nuovo lungometraggio, Fiore gemello, ha sfondato i confini nazionali, trovando accoglienza al Festival di Toronto.
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LA PAROLA AL REGISTA
«Un giorno mi sono ritrovata a guardare due statuine in cima ad una torta nuziale e ho pensato che spesso quelle statuine hanno una vita assai più lunga del matrimonio che rappresentano... Pensando a quanto brevi siano alcuni matrimoni e a quanto lunga sia la vita delle statuine di zucchero che decorano le torte nuziali, ho avuto la sensazione che "l'amore eterno" non sia per forza una prerogativa tutta umana».
4- Continua
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