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Venezia 2018: Giorno 1
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L’atmosfera al Festival di Venezia quest’anno è parecchio paradossale. Alla stampa e a chi prende parte alle proiezioni anticipate è stato chiesto di rispettare un anacronistico embargo. Secondo le direttive della Biennale, non si può parlare dei film prima che questi vengano presentati al pubblico. In un momento in cui usare Twitter, Facebook o Instagram, sta rivoluzionando la comunicazione (nel bene e nel male), appare fuori luogo dover aspettare per poter parlare di qualcosa che qualche ora dopo apparterrà già al passato. In maniera concreta, poi, sembra di vivere ulteriormente fuori dal mondo: chi ha visionato in una sola giornata sei titoli, dovrà attenersi solo alla descrizione o alla recensione di due per non surriscaldare gli animi di chi ha deciso che il web è ancora oggi un demone da combattere e non un angelo custode da cui farsi accompagnare. Uno solo è l’effetto positivo di tale embargo: come i vini, i film decantano e mutano forma. Quelli che apparivano come opere esili prendono corposità e quelli che sembravano capolavori, opere maestre, diventano compitini per casa fatti da bambini annoiati. È il caso dei due film di cui è possibile parlare oggi: Il primo uomo di Damien Chazelle e Sulla mia pelle di Alessio Cremonini. Per ragioni di vicinanza (e per rompere ogni protocollo, dal momento che tutti preferiranno disquisire sull’utilità di Chazelle ancora una volta in concorso o sulla presunzione di un’opera che sembra uscita dal peggior Cianfrance) alla storia raccontata, parto con l’opera di Cremonini.

 

Alla sua opera seconda da regista, Alessio Cremonini affonda il coltello tra le piaghe della cronaca italiana e propone un asciutto resoconto dell’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi. Per chi non ricordasse la vicenda occorsa nel non lontano 2009, Cucchi è morto dopo un paio di giorni in carcere in circostanze non ancora chiarite dalla Magistratura. Arrestato per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti (20 grammi di hashish, 2 grammi di cocaina e qualche pasticca che si rivelerà essere solo Rivotril, farmaco antidepressivo utile a combattere l’epilessia di cui il giovane soffriva), il trentunenne Cucchi venne portato in caserma a Tor Pignattara, luogo in cui subisce un pestaggio da parte di tre carabinieri.

Nel ripercorrere la storia, Cremonini parte dal giorno della morte di Cucchi, dal momento in cui due inservienti dell’ospedale carcerario Sandro Pertini lo trovano senza vita nella camera in cui era ricoverato. Attestata la morte del Cucchi Stefano, Cremonini ci riporta con un breve salto a qualche giorno prima, a una normale serata dell’autunno romano quando Stefano, come tanti suoi coetanei, sta trascorrendo una serata con un amico dopo essere stato al lavoro come geometra, essere passato a casa dei genitori e avere incontrato la sorella Ilaria. Scendendo dalla sua stessa automobile in sosta, è sottoposto a una perquisizione da due carabinieri in uniforme a cui presto se ne aggiungono altrettanti che hanno da poco terminato il loro turno. Poiché nei jeans del Cucchi vengono ritrovate sostanze stupefacenti, viene condotto in caserma e sottoposto a visite e interrogatori di routine fino a quando, poco prima della fantomatica foto segnaletica, viene pestato. Da lì, ha inizio il calvario che, di cella in cella e di agente in agente, lo porterà fino all’obitorio.

Lontano dal voler realizzare un j’accuse senza contraddittorio, Cremonini sceglie di sposare il punto di vista dello spettatore e di estraniarsi dalla vicenda, mostrando solo ciò che si sa, ovvero quello che gli atti giudiziari hanno testimoniato fino a oggi. Non si lavora di fantasia per ricreare salti di sceneggiatura da fiction all’italiana e, soprattutto, non si introducono giudizi di condanna nei confronti di nessuno. A differenza di Diaz di Daniele Vicari o di ACAB di Stefano Sollima, non mette in scena la violenza a cui Cucchi è sottoposto. Nessuno di noi sa cosa sia realmente successo in quella stanza o conosce chi abbia fatto cosa. Facendo fede alle testimonianze raccolte da anni di indagine, affida alle parole della vittima (poi raccontate da chi le ha udite) il compito di far luce sul dramma vissuto e sul dolore, che appare (come preannunciato da un detenuto albanese) traditore e in grado di manifestarsi con tempi che esulano dalla percezione sensoriale stessa.

Cremonini si trasforma quasi in giornalista e, come nessuno ha mai realmente fatto, ricostruisce dettagliatamente i resoconti di genitori, detenuti, medici, giudici e secondini mettendo in ordine gli eventi, le parole e lo scaricamento di responsabilità da parte di chi dovrebbe essere responsabile della nostra sicurezza, fisica o figurata. Se da un lato nessuna autorità giudiziaria si sofferma a capire cosa è successo prima al ragazzo (limitandosi a un infantile “sei arrivato ora da me” e “cosa è successo prima non lo so”), nessun medico o paramedico si preoccupa di curare il ragazzo come si deve. Assistiamo impotenti al comportamento di una giudice per le indagini preliminari che non si preoccupa delle ragioni per cui un imputato si presenta alla sbarra con il volto tumefatto ma anche a quello di una dottoressa che non mostra alcun interesse nei confronti di un paziente ricoverato con due vertebre rotte, disidratato e con evidenti problemi agli organi interni (che ne direbbe Ippocrate di chi giura in suo nome e si comporta in tale maniera? È forse il rifiuto del paziente di sottoporsi a un esame motivo sufficiente per non praticare l’esame stesso?). In un Paese civile, tutto ciò non dovrebbe mai accadere: in Italia però la magistratura è troppo impegnata a occuparsi di chi va a letto con chi o di chi si comporta da buffone per una copertina di rivista patinata per chiedersi del perché di una faccia piena di lividi… in Italia, il trattamento sanitario obbligatorio è qualcosa che andrebbe necessariamente rivisto: non va applicato esclusivamente a chi si ritiene insano di mente…

 Non ne esce bene nemmeno la figura degli avvocati di ufficio, omuncoli spesso operativi in nome dello stipendio e non della legge (dis)uguale per tutti. Così come non si capisce perché il sistema delle regole che tanto vale per i detenuti e i loro parenti non debba valere per commissari, carabinieri e agenti vari. Dovrebbe anche essere rivisto quella convinzione tutta nostrana secondo cui la parola di un pubblico ufficiale vale più di quella di un semplice cittadino: non è forse un pubblico ufficiale un uomo come tanti altri con vizi, difetti e deviazioni? O la devianza è un’esclusiva di chi non indossa una divisa?

Con Sulla mia pelle, Cremonini lascia spazio in scena a un magistrale Alessandro Borghi: l’attore ne sposa atteggiamenti, dizione e fisicità. Dimagrito, sofferente, emaciato e persino da cadavere, Borghi si spoglia della propria pelle per entrare in quella di Cucchi, ne diviene una sorta di fotocopia che lascia stupiti chi guarda. Seguendo l’antica tradizione della somiglianza (e non quella sempre più usurata della verosimiglianza), Borghi si dimostra di sapere reggere sulle sue spalle quasi ogni minuto della pellicola, senza timore di risultare pedante o morbosamente sacrilego. La sceneggiatura prevede che agli altri attori principali rimanga poco spazio a disposizione e, francamente, ciò dispiace: Max Tortora e Milvia Marigliano, nei panni dei genitori di Cucchi, avrebbero meritato ulteriore approfondimento ma è soprattutto l’intensa Jasmine Trinca nei panni dell’ormai iconica Ilaria Cucchi a suscitare in più occasioni un muto applauso. Del resto, se è stata premiata come miglior attrice in un festival esigente come quello di Cannes, una ragione ci sarà.

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LA PAROLA AL REGISTA

Di tutta la vicenda, le polemiche, i processi, è l’ovvia ma allo stesso tempo penosa impossibilità di difendersi, di spiegarsi, da parte della vittima ad avermi toccato profondamente: tutti possono parlare di lui, tranne lui. Ecco, Sulla mia pelle nasce dal desiderio di strappare Stefano alla drammatica fissità delle terribili foto che tutti noi conosciamo, quelle che lo ritraggono morto sul lettino autoptico, e ridargli vita. Movimento. Parola. Sulla mia pelle, tra le varie cose, è modo di battere, di opporsi alla più grande delle ingiustizie: il silenzio. Di tutte le parole che negli anni sono state spese sul suo caso queste sono, per me, le più illuminanti: «Non è accettabile, da un punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia non per cause naturali mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello stato» (Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma).

Alessandro Borghi

Sulla mia pelle (2018): Alessandro Borghi

 

Un tutto nella storia se lo concede anche Chazelle con Il primo uomo, in cui ripercorre i passi che hanno portato Neil Armstrong nel 1969 sulla Luna. Ciò che accadde nel luglio del 1969 è qualcosa che fa parte della Storia e che, come Armstrong stesso ebbe a dire, rappresentò un grande passo per l’umanità intera. Era il 1961 quando il presidente John F. Kennedy annunciava agli Stati Uniti che, entro la fine del decennio, l’uomo avrebbe messo il primo piede sul satellite naturale terrestre. A prima vista si trattava di un annuncio fuorviante: la Nasa non aveva ancora messo in piedi nessun programma e necessitava, sopra ogni cosa, di trovare gli uomini giusti per l’impresa, titanica in termini di costi e sacrifici. A uno dei reclutamenti, si presentò Neil Armstrong, un giovane ingegnere desideroso di mostrare il proprio talento ma anche bisognoso di superare la perdita della figlioletta Karen, una bambina di pochi anni uccisa da un cancro incurabile.

Da questa premessa parte Il primo uomo che Chazelle costruisce come la storia di formazione di un uomo chiamato ad elaborare il lutto per la perdita subita e a riappropriarsi della sua esistenza tramite la più ardua delle missioni: andare in un altro mondo, in quell’altrove tante volte indicato all’amata figlia durante le loro sessioni di gioco. Scandendo le varie missioni Gemini fallite ma anche soffermandosi sui contrasti familiari che inconsapevolmente sorgono, Chazelle propone un racconto fatto di grandi salti: riassumere otto anni di vittime, esperimenti falliti, piloti morti e dollari sprecati, non è facile. Così come non è facile per gli sceneggiatori restituire il clima innescato dalla Guerra Fredda e dalla lotta per la conquista dello spazio. Come se si potesse ovviare a ciò, si preferisce accennare agli Sputnik e a Gagarin rinunciando a tutte le complicazioni politiche e globali della lotta di potere: conquistare lo spazio per primi significava imporre la propria supremazia sugli altri. Ma, come va di moda oggi, la storia può essere rivista a uso e consumo dei propri vantaggi personali. Ogni tanto si affaccia timidamente un minimo di accenno a ciò che invece andrebbe approfondito: è curioso notare come le lotte contro la discriminazione razziale diventino una parentesi musical-comica o come il ’68 e la presidenza LBJ siano per Chazelle & Co. solo un contorno o uno sfondo.

Dopo la morte della piccola Karen, l’affettuoso Neil compie emotivamente dei passi indietro: si rinchiude nel suo dolore, non accenna con moglie e colleghi alla perdita, non manifesta affetto a chi lo circonda e sembra entrare in una dimensione apatica a cui ha accesso solo il suo lavoro. Le sue energie si concentrano sulle missioni Gemini, su come rimediare agli errori commessi o su come studiare soluzioni alternative. Nemmeno la morte di amici e colleghi sembra smuoverlo dal suo torpore. Raggiungere la Luna è il suo unico obiettivo: agguantarla, significherebbe costruire un ipotetico ponte con la sua piccolina e solo riuscendoci troverà pace. A nulla servono gli sforzi della moglie, figura solida e rocciosa come la Luna che con la sua presenza cerca di non far affondare la barca famigliare riuscendoci poco prima dell’allunaggio, quando costringe il marito a fare i conti con i due piccoli figli maschi.

Senza necessariamente voler puntare il dito, il problema di Il primo uomo sta nella sceneggiatura e non nella messa in scena. Chazelle mischia prepotentemente immagini nitide a fotogrammi nevrotici, attribuendo ai movimenti di camera il compito di contrastare ciò che viene raccontato. La colonna sonora è, com’è prevedibile, fondamentale: suoni, rumori e musiche, sono parte dell’intreccio, ricordando alla lontana il lavoro che spesso fanno i nostri due cineasti D’Anolfi e Parenti. La retorica, invece, è ciò che poteva esserci risparmiata: l’eroe che, separato dal suo oggetto, cerca in tutti i modi di riconquistarlo non è niente di nuovo al cinema. E non basta una messa in scena faraonica a renderlo innovativo.  A pagarne le conseguenze sono soprattutto gli attori, dal sopravvalutato Gosling alla sprecata Claire Foy.

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LA PAROLA AL REGISTA

«Prima di iniziare a lavorare a Il primo uomo, conoscevo la storia della missione sulla Luna, la storia di successo di una conquista leggendaria... ma nulla di più. Dopo avere iniziato a esplorare il tema in profondità, sono rimasto sbalordito di fronte alla follia e al pericolo dell’impresa: il numero di volte in cui è stata sull’orlo del fallimento così come il pesante tributo costato a tutte le persone coinvolte. Volevo capire cosa potesse avere spinto quegli uomini a intraprendere un viaggio nella vastità infinita dello spazio, e quale sia stata l’esperienza vissuta, momento dopo momento, passo dopo passo. E per poter capire dovevo necessariamente addentrarmi nella vita privata di Neil. Questa è una storia che doveva essere articolata tra la Luna e il lavello della cucina, tra l’immensità dello spazio e il tessuto della vita quotidiana. Ho deciso di girare il film come un reportage, e di catturare sia la missione nello spazio che i momenti più intimi e privati della famiglia Armstrong come un testimone invisibile. Speravo che questo approccio potesse mettere in luce il tormento, la gioia, i momenti di vita vissuta e perduta in nome di uno dei traguardi più celebri della storia: lo sbarco sulla Luna».

Ryan Gosling

Il primo uomo (2018): Ryan Gosling

 

 

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