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OLTRECONFINE#43: L'ESTATE DEL CINEMA FRANCESE
di alan smithee
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E' stata anche questa, tutt'ora in corso e calda come non mai, un'estate cinematograficamente stimolante, quella che ha caratterizzato le uscite degli ultimi mesi in territorio francese.

Ben diversa, anche quest'anno, dalla generale pochezza delle pellicole prescelte per accompagnare una stagione cinematografica italiana commercialmente allo sbando, ma compromessa, oltre che negli incassi - magrissimi - ancora di più e prima di tutto dal punto di vista qualitativo.

Pochi, troppo pochi i film di qualità - e mi riferisco soprattutto al disagio a carico degli utenti che abitano (come me) nella provincia italica di qualsiasi latitudine, abbandonate anche, oltre al resto, da una regolare distribuzione di pellicole che non vengano lanciate a tappeto - che hanno avuto l'opportunità di poter comparire in sala a beneficio dei cinefili: piccole chicche lanciate un po' a caso, a sorpresa, come il sapido nordico "L'albero del vicino", o il nostro delicato ed intenso "Dei" di Cosimo Terlizzi (una vera sorpresa!! consigliatissimo ed ancora in qualche sala, se riuscite ad approfittarne).

E anche un horror che per una volta si dimostra più che degno di essere destinato all'uscita in sala - "Hereditary - le radici del male", pur avendo goduto di generale positivo consenso tra gli appassionati, non si può dire abbia incassato cifre da successo strepitoso come probabilmente meritava, anche al di là dell'oggettivo freno dato dall'appartenere ad un genere circoscritto e, come tale, soggetto a barriere ben delineate di preferenza e scelta tra il pubblico.

Nel farvi un riepilogo dei film (una ventina circa) visti e recensiti in Francia durante questa calda estate anche cinefila, provvedo a classificarli e a suddividerli in 3 categorie più o meno omogenee, entro le quali mi sento di poterli collocare tutti quanti, in base alle caratteristiche e peculiarità di ognuno: ANTEPRIME; AUTORI/FESTIVAL; CULT(?)/GENERE.

Ma attenzione: non è escluso che qualcuno di tali film rientri, per poliedriche caratteristiche intrinseche od oggettive, in più di una di queste generiche ed un po' grossolane suddivisioni.

Buona lettura, in attesa di poterli visionare tutti anche a casa nostra, meglio ancora se in sala.

A N T E P R I M E:

MISSION: IMPOSSIBLE - FALLOUT : In M.I. - lo sappiamo dal primo episodio diretto da Brian De Palma - la logica della vicenda conta relativamente poco, e tutto il vorticoso irrefrenabile contendere è organizzato per scombinare le già confuse carte che sono in tavola, in modo da rendere l'intrico così complesso ed artificioso, che non conviene nemmeno perdersi nei dettagli, tentare di seguire una logica d'azione che costituisca pertinente filo conduttore, lasciandosi più superficialmente prendere dall'azione e liberando la mente da inutili tentativi di riordino di indizi: tutto è troppo sopra le righe, così meccanico ed improbabile, ma anche piuttosto divertente nel suo incalzante e rutilante susseguirsi di azione, che conviene porsi pochi quesiti, e farsi prendere dalla congruente verve registica del cineasta e sceneggiatore statunitense Christopher McQuarrie. VOTO **1/2

SOLDADO : Il ritorno del boss. L'ira e il rimorso tengono in vita l'ex trafficante Alejandro, in un blockbuster e sequel dignitoso, sceneggiato da una firma prestigiosa come Taylor Sheridan e diretto con solido mestiere dal nostro Sollima. VOTO ***

THE CHILDREN ACT - LA BALLATA DI ADAM HENRY:

Dal romanzo di Ian McEwan, coinvolto anche in sede di riscrittura cinematografica, e la regia forse poco propensa ad ogni tipo di azzardo artistico, ma efficace e di navigato mestiere, ad opera dell’affidabile Richard Eyre (Iris un amore vero, Stage beauty, L’ombra del sospetto), The Children Act – La ballata di Adam Henry, è un film che si illumina in virtù della grazia illuminante del suo cast:

Emma Thompson, superlativa, l’attrice più british del mondo dopo Vanessa Redgrave, e probabilmente la più degna erede di quest’ultima grande interprete, torna a sublimarci dopo forse troppi anni trascorsi ad impegnarsi in ruoli che non riuscivano a valorizzarla come ha sempre meritato: in questo film la Thompson, nel ruolo della Maye, buca letteralmente lo schermo giocando a rimpiattino con una personalità che si giostra abilmente tra la sicurezza quasi chirurgica del giudice impegnato a risolvere dilemmi etico-morali che le scaricano addosso responsabilità pesantissime, arrivando poi ad autodistruggersi ogni volta che le rimane solamente più da gestire un equilibrio personale, familiare e umano solo apparentemente più facile e risolvibile del primo complesso aspetto. VOTO ***1/2

A U T O R I - F E S T I V A L:

IN THE AISLES: un film denso, intenso, pieno di intimità e forte di piccoli grandi gesti in cui la solidarietà e il rispetto tra quegli elementi che inesorabilmente ricoprono il ruolo basilare di una stratificazione sociale piramidale che ritrova spesso solo al suo stadio iniziale una affinità quasi eroica e potente e che al contrario perde e sgretola inevitabilmente il suo lato più genuino ed umano man mano che si sposta verso i vertiti dirigenziali, diventano i fattori cardine per elevare ognuno al rango di eroe di tutti i giorni.

Un film poetico (la scena dei nostri due timidi eroi sul muletto elevatore intenti ad ascoltare il mare come da una conchiglia gigantesca, è straordinaria!), che ha qualcosa in comune con la solidarietà dignitosa che traspira dalle ultime opere di Aki Kaurismaki, e fa riflettere su problematiche forti ed impellenti nella società nordica europea come la solitudine, vissuta qui, da chi ne è vittima, con la dignità di chi si illude di poter supplire l'indifferenza della realtà privata in cui vive, con il calore di un affetto disinteressato, senza doppi fini di chi è costretto a condividere ore di lavoro e di vita, ripetendo sempre i medesimi gesti. FESTIVAL DI BERLINO-CONCORSO - VOTO ****

THE WILD PEAR TREE:

"The wild pear tree" riesce a prendersi tutto il tempo utile e necessario per tracciare le linee caratteriali bizzarre e imprevedibili di un giovane inquieto che, col suo ritorno, si sente in dovere di comprendere ormai definitivamente se il proprio posto nel mondo è proprio quel luogo natio, tanto caro ma anche tanto ugualmente osteggiato, o al contrario il suo destino è da rintracciarsi altrove.

Ed è magnifico perderci nei sogni o deliri del protagonista, di cui il regista diviene complice onirico attraverso soluzioni a sorpresa che prendono forma di sogni - o più spesso incubi - ad occhi aperti, in grado di far vacillare anche un carattere imperturbabile ed ironico come quello del nostro giovane protagonista, sempre perennemente distratto dal suo divagare in dialoghi e digressioni che si rivelano tuttavia qualcosa di ben più profondo e razionale di semplici e superficiali divagazioni guidate dal proprio disincantato atteggiamento verso il mondo esterno. FESTIVAL DI CANNES - CONCORSO - VOTO ****

THE BACCHUS LADY:

Un bel personaggio, quello che risalta dall'opera seconda del regista coreano E J-Yong, che si sbilancia con un certo azzardo, ma senza perdere lucidità, su tre tematiche cardine assai impegnative come la prostituzione, la fine assistita e il senso della maternità, rendendo il film una via di mezzo tra un dramma che si apre alla commedia, ed una commedia che osa toccare apici altamente drammatici.

In questo contesto originale, quasi ibrido, spicca per intensità la prova matura, drammatica ma con venature ironiche e disincantate, dell'ottima protagonista, un personaggio complesso e un po' chiuso in se stesso a cui la valida attrice Youn Yuh-jung riesce a conferire un appeal quasi mistico, da angelo completamente terreno ed imperfetto che si adopera a stemperare il dolore e la sofferenza altrui con una predisposizione dai tratti provvidenziali. FESTIVAL DI BERLINO 2016 - PANORAMA - VOTO ***1/2

MRS. FANG:

Spiazza e divide più di tante altre opere fluviali del cineasta cinese, questo breve viaggio ispettivo e documentativo a cospetto con la fine inesorabile e progressiva che accelera ogni percorso naturale di decadimento e provoca una degenerazione accelerata, ma non certo rapida, delle funzioni vitali, dei sensi, della facoltà di restare indipendente, svuotando il corpo come fosse un sacco bucato sul fondo che perde progressivamente tutto il suo contenuto vitale.

Bing riesce indubbiamente a catturare e carpire con acume l’espressione più realistica e devastante dell’agonia, la disperazione inesorabile che la malattia procura nella malata; ma a che prezzo?

Se lo chiedono in molti, presso la stampa più autorevole, arrivando i rigorosi ed implacabili Cahiers du Cinéma a rivelare che il malessere che si prova a guardare in faccia il volto della morte, è forse meno duro e provante di quel disagio che si avverte quando si riflette sul fatto che ciò che si vede è stato concordato con i parenti della malata terminale, ma a sua insaputa.

PARDO D'ORO AL FESTIVAL DI LOCARNO 2017 - VOTO ***

THE CAKEMAKER: La dura realtà, fatta di regole intransigenti e di ossessiva intolleranza ad aprirsi alla genuinità autentica di un sentimento condiviso, creeranno il dramma e la separazione, che riuscirà a non essere definitiva solo con la ragionevolezza che sa andare oltre ogni regola, religiosa o etica, pur sempre irragionevole ed ottusa. La pellicola riesce ad essere anche interessante per il fatto di riuscire ad illustrare compiutamente un sottobosco di regole severe ed intransigenti che appartengono senza via d’uscita o compromessi, al severo e composto modi di vita della cultura ebraica: anche e semplicemente quando si tratta di abbinare e combinare i vari alimenti, che sono poi la materia essenziale per darci la vita, fisica e spirituale. VOTO ***

 

BECASSINE: Da una omonima striscia a fumetti di inizi ‘900, l’adattamento del personaggio di Bécassine da parte del regista ed attore Bruno Podalydés appare assai gradevole, molto ben contestualizzato entro una ambientazione storica dai toni un po’ surreali, un po’ nostalgici, forti di scenografie sofisticate e dagli sfondi ammalianti, come all’interno di un mondo da fiaba in cui la drammaticità del periodo storico in sottofondo, viene ad essere esclusa persino da ogni sfondo più remoto. Ci troviamo all’interno di una commedia storica sofisticata, edulcorata forse, ma con garbo e stile, senza mai risultare sdolcinata, che pare un dignitoso compromesso tra lo stile disincantato e malizioso di Jean-Pierre Jeunet di Amélie, il cinema social-tollerante e solidarizzante dell’ultimo Kaurismaki, ed il bizzarro, scatenato Bruno Dumont di Ma Loute!. VOTO ***1/2

ANGEL FACE: Complice in modo sin gradevolmente ruffiano un paesaggio marino poetico e selvaggio, e l’attrice più lanciata internazionalmente del cinema francese (magnifica Marion Cotillard), Gueule D’Ange risulta un diario accattivante di un percorso nel baratro dell’abbandono, che tuttavia, nonostante alcune valide argomentazioni in grado di avvincere, non riesce in effetti a conquistare completamente. FESTIVAL DI CANNES 2018 - UN CERTAIN REGARD - VOTO **1/2

14 APPLES: Regista tipicamente di confine, Midi Z, birmano d’origine, si prodiga col suo cinema a testimoniarci una esperienza formativa di vita dietro un progetto finanziato da Taiwan, ed ambientato lungo il confine tra il suo paese natale e la Thailandia; in questa occasione il regista ci racconta qualcosa di apparentemente più intimo, che denuncia da una parte certi malesseri tipici della caotica ed incontenibile impostazione di vita della moderna quotidianità, e dall’altra per contro si adopera in una critica insidiosa e puntigliosa sull’atteggiamento di certi santoni che predicano lo spogliamento degli orpelli, il rigetto delle tentazioni, delle donne come strumento di perdizione, mettendo in atto una sorta di velata critica alla ipocrisia che impone falsi tabù in nome di una purezza che forse è più un inganno nell’inganno. VOTO ***1/2

A POLAR YEAR: La crisi dei trent’anni, l’indecisione se seguire pedissequamente le orme familiari e divenire pertanto un insegnante col secondo lavoro della gestione dei poderi danesi ereditandi, spinge il maestro Anders a scegliere la fuga: l’anno sabbatico che potrebbe aprirgli la via per una trasferimento definitivo, in uno dei territori più remoti ed ostili del pianeta: la Groenlandia. Per la regia di quel francese Samuel Collardey che già avevamo conosciuto in zona festivaliera veneziana col precedente e riuscito Tempete, ove già si misurava con il binomio uomo-ambiente di vita ostile ma necessario alla sopravvivenza (allora si parlava di pescatori), Un année polaire si fa forza sugli scenari mozzafiato che da pochi anni, con l’ausilio di droni e cineprese ammesse, rendono altamente scenografiche panoramiche altrimenti ipotizzabili solo con l’ausilio di mezzi pesanti e costosi. VOTO ***

3 DAYS IN QUIBERON:  Nel 1981 una donna quarantenne di nome Hilde Fritsch raggiunge un albergo sulla costa bretone, presso la località balneare di Quibéron, con l'intento di andare a trovare per pochi giorni un'amica che soggiorna nella elegante struttura, specializzata in cure termali e restabilizzanti. L'amica in questione è un'attrice famosissima: niente meno che Romy Schneider, per tutti, per troppo tempo, inevitabilmente, quasi crudelmente, l'imperatrice Sissi. Un film solo eccessivamente lungo, che tuttavia funziona piuttosto bene, soprattutto per rappresentarci i confini labili e fragili di una persona insicura, insieme fortunata per la fama ottenuta, e sfortunata per la prigionia che la lega al suo personaggio simbolo, che da sempre la costringe ad un calvario ossessivo ed ossessionante. Il volto dolente, il fisico addolcito e infiacchito più dalle sregolatezze del bere, che da una maturità solo avviata, sono rese perfettamente nel fisico come nello stato d'animo dalla interpretazione esemplare di Marie Baumer, sosia quasi impressionante della vera Schneider, volto devastato dall'inedia e dalla noia, ma anche talvolta fiero di lasciar trasparire quel proprio contrastato status di regina senza un vero potere decisionale, in realtà schiava di una fama che finisce per sottomettere la Romy donna e attrice, come la tipica vittima di un ricatto crudele, costretta dalle circostanze a sottoporsi ad un confronto perenne ed impossibile, ingrato, ingiustificato tra la donna moderna che è, ed il personaggio mitico e mitizzato di una sovrana idealizzata e quasi santa, figlia di un mondo che è storia passata da troppo tempo, se non favola edulcorata a beneficio di lettori e lettrici, o spettatori e spettatrici, piuttosto facilmente direzionabili ed emotivamente condizionabili. FESTIVAL DI BERLINO 2018 - CONCORSO - VOTO ***

DISOBEDIENCE:

Da Londra a New York per una fuga nelle intenzioni senza più ritorno; di fatto duratura, pwr sfuggire da una prigionia di vita imposta decisamente da dettami religiosi al di sopra delle proprie possibilità.

Fino ad un ritorno non preventivato, per fare fronte, tra imbarazzo ed insicurezza, ad un lutto con veglia, a seguito della scomparsa della persona cardine di quella fuga obbligata e necessaria.

Ronit è una fotografa quarantenne bella e di fama, costretta a far ritorno nella comunità natale del proprio quartiere ebreo londinese, non appena scopre che il padre rabbino è improvvisamente mancato. Lelio dirige un film interessante, soffocante, che si giostra tutto attorno i tetri ambienti di una dottrina che in qualche modo predica la pace e la tolleranza, ma si contraddice istigando e giustificando comportamenti repressivi e intolleranti votati alla chiusura più implacabile e senza cuore. Valido il contributo attoriale fornito alla storia, a cura di tre interpreti (Weisz, McAdams, Nivola) del tutto azzeccati. VOTO ***1/2 

C U L T (?) / G E N E R E :

AU POSTE: Un distretto di polizia che è un po’ come una famiglia: ci si prende cura di chi ha sbagliato, del fuori di testa che dirige un’orchestra in mutande rosse in mezzo al parco, e di altri estratti di umanità deviata o non conforme, in attesa di essere interrogati.ù

Dupieux sta dalla parte dello spettatore, lo promuove ad un livello di osservazione-giudizio preferenziale come a fare da testimone di una verità che è così assurda che pare meglio che resti nascosta tra ottusità ed incuria o leggerezza del caso.

Un finale onirico e spumeggiante si permette il lusso di filosofeggiare sulla posizione di giudici e spettatori, sul ruolo del pubblico nel contesto di una narrazione che si dipana tra cinema e teatro senza una vera soluzione divisoria. VOTO ***1/2

UN COUTEAU DANS LE COEUR: Nella Parigi di fine anni '70, una tenace produttrice lesbica di filmini porno gay maschili, vive un momento sentimentalmente complesso da quando la sua amante montatrice ha deciso di lasciarla, abbandonandola proprio nelle fasi conclusive della sua produzione porno più ambiziosa, un film con un resoconto di trama che nasconde un sottofondo drammatico.

La seconda fatica cinematografica di Yann Gonzales, di cui avevo già apprezzato la favola nera e romantica di Les rencontres d'apres midi, è un thriller sopra levrigje dove l'ironia ed il citazionismo hanno la meglio sulle ragioni del racconto. Interessanti le ambientazioni, viste sempre molto rabbicimateve da mero contorno come sfondo al.vilto e al corpo del numeroso cast coinvolto. FESTIVAL DI CANNES 2018 - CONCORSO - VOTO ***1/2

BLACK TIDE:

Un adolescente fa perdere le tracce di sé e quella che sembra essere una bravata di qualche ora, diviene un vero e proprio mistero che mette in allerta la polizia, che interviene di fronte alla disperazione di una madre che rivuole a casa il su primogenito.

A seguire le indagini, un commissario di nome Francois Visconti (Vincent Cassel), tutto trafelato, stropicciato e teso, alle prese col fallimento del proprio matrimonio e pure lui con la gestione di un figlio adolescente con cui non riesce a instaurare un vero rapporto di dialogo, e che si sta avviando verso strade vicine alla criminalità organizzata e allo spaccio. Il valido regista francese Erik Zonca (La vita sognata degli angeli, Il piccolo ladro), torna sulle scene dopo anni, con l’adattamento, intenso e non privo (per fortuna) di luoghi comuni del noir che si rispetti, di un romanzo dal titolo “Un caso di scomparsa” dello scrittore israeliano Dror Mishani, e sonda, col pretesto dell’indagine, sconclusionata ed apparentemente senza via d’uscita, ma disposta col massimo impegno e risoluzione personale, le tragedie di una vita familiare che nasconde segreti inconfessabili che talvolta (fortunatamente solo nei casi limite) sfociano nella tragedia, senza rinunciare ad una ironia di fondo che si trasforma nei tratti di un teatro grottesco di figure tutte un po’ ostili, se non talvolta raccapriccianti. VOTO ***

THE GUILTY:

The Guilty, opera prima di natali danesi, ad opera di un giovane e brillante regista e sceneggiatore trentenne svedese di nome Gustav Moller, conserva con fierezza quella unità di luogo e d'azione a cui solo una calibrata tensione, calcolata nei minimi particolari, riesce a garantire il mantenimento di una tensione che diviene il perno centrale di tutta l'impalcatura narrativa.

Ciò consente anche al film, tutto o quasi esercizio scrittura e primo piano su pezzi di volto del protagonista (un valido Jakob Cedergren, attore svedese naturalizzato danese che avevo già incontrato in Submarino di Thomas Viterberg)  , di  svilupparsi con costi contenuti, che rendono il prodotto finito ancor più apprezzabile e riuscito, mettendo in condizione lo spettatore di darsi a tempo debito una risposta di sollievo utile a dipanare tutte le incalzanti incognite che la singolare narrazione via cavo alimenta nel suo percorso percettivo costringente e limitante. VOTO ***

UNDER THE SILVER LAKE: Sotto quel lago si conservano o giacciono curiosi scheletrini di animaletti e personcine che un ipotetico fantasmagorico serial killer sta seminando nella Los Angeles tutta giardini boscosi e quartieri alto locati, teatro di feste d'alto rango ove ci si annoia distendendosi. Troppa grazia? Probabilmente si, ma certamente troppa carne sul quell'attraente fuoco che il giovane e talentuoso regista di "It follows", ovvero David Robert Mitchell, dimostra di saper rincalzare bene, tra citazioni spudorate (La finestra sul cortile di Hitchcock), e emulazioni da sballo (le attese ad alta suspence "depalmiane" con musiche ad effetto di matrice e memoria "pinodonaggiane") e una storia galvanizzare quanto fumosa, ma pure un protagonista (Andrew Garfield) assai in parte e motivato. FESTIVAL DI CANNES 2018 - CONCORSO - VOTO ***

 

Buona fine estate a tutti.

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