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Cammina. Cammina. Cammina. L'omino col berretto rosso cammina in un paesaggio desertico, presumibilmente americano. Sotto l'occhio vigile di un'aquila (non a caso uno dei simboli degli Stati Uniti) l'uomo si ferma e si guarda intorno. L'aspetto dimesso e impolverato non basta per ascriverlo velocemente alla categoria vagabondo: sotto la polvere, dietro e dentro la giacca lercia e stazzonata, c'è un cuore (selvaggio?) frustato da una febbre che non può scendere. Nella mano tiene stretta una piccola tanica d'acqua, svita il tappo blu e si beve senza fretta l'ultimo goccio. Animato da una forza nascosta, senza pensarci più di tanto, abbandona la tanica vuota, riprende a camminare, scivola a sinistra di una roccia rossastra, piega di nuovo verso destra, senza seguire alcun sentiero battuto, che peraltro infatti non c'è: a volte la direzione non è così importante, è sufficiente andare avanti.

Per Travis - protagonista di Paris, Texas interpretato da un Harry Dean Stanton semplicemente commovente - rendere il futuro un luogo di movimento è l'unico modo per scoprire da quale ignoto proviene. Mi sono bastati i primi due minuti per avvertire la spina ficcante dell'identificazione, dalla prima volta che la camera si sofferma sul suo sguardo, io ho iniziato a camminare insieme a lui, fuggendo insieme a lui da qualsiasi cosa tentasse di deviare il suo cieco (o veggente) procedere, bruciando con lui nel desiderio di ri-conoscere piuttosto che banalmente sapere cosa si celasse nel suo passato. Sulla strada di Travis arriva presto il fratello affettuoso (Dean Stockwell, meraviglioso come al solito), poi facciamo la conoscenza del bambino che ha abbandonato quattro anni prima, sappiamo che nel suo passato c'é anche una moglie (una Nastassja Kinski di una bellezza spaventosa) ma prima di incontrarla davvero quel bastardo di Wenders ci fa passare attraverso una sequenza che uccide qualsiasi resistenza razionale. Quella in cui il fratello, rischiando un tracollo emotivo, infila nel proiettore di casa un super8 che è una collezione di sequenze catturate nel corso di quella che sembra l'ultima vacanza felice della famiglia al completo. Nella penombra di quel salotto, la semplice composizione di ciò che scorre sullo schermo, le lontananze fisiche accumulate nel tempo, quelle necessarie per salvaguardare semplici spazi di rispetto di personali dolori e gli sguardi che il bambino lancia al padre Travis, creano un crescendo emotivo dal quale non si torna più indietro. È quel video in super8 che permette a Travis di ri-conoscere il proprio passato, è il cinema bellezza. Che film Paris, Texas. Non posso credere di avere atteso così tanto tempo prima di decidermi a vederlo.

Le nostre librerie infarcite di file, i nostri abbonamenti streaming, le uscite cinematografiche costanti, ci propongono ogni giorno qualcosa di nuovo, con quella patina luccicante e seducente. E così succede che Paris, Texas classe 1984, se ne è stato 34 anni da qualche parte ad attendermi, pazientemente, in un limbo. E ora non so se essere triste per aver vissuto per tutto questo tempo senza di lui o se pensare che invece le cose importanti ci capitano quando siamo davvero pronti per accoglierle. Nel mio caso non sarebbe successo se nel corso degli ultimi anni un amico non mi avesse consigliato questo film a cadenza regolare. Devi vederlo, ti piacerà, ascoltami. E alla fine sì, l'ho visto, l'ho amato, ti ho ascoltato. Paris, Texas non era semplicemente "un bellissimo film che mi stavi consigliando", era un film per me e forse tu lo sapevi.

Se è capitato anche a voi di avere incontrato un film fatto per voi a tanti anni dalla sua uscita, se anche voi avete resistito ad un film che vi è stato consigliato per tanto tempo e dopo che avete ceduto vi siete sentiti al tempo stesso fortunati ma anche un po' stupidi, siete capitati nel posto giusto e potete lasciare il vostro segno di appartenenza proprio qui sotto.

E comunque: grazie, k.

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