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Non siamo noi a cantare vittoria (certamente non io), ma provate lo stesso a seguirmi in questo giro un po’ lungo. Il punto di partenza è il telecomando del nuovo televisore di mia madre (vedi foto sopra: grazie mamma).
È un televisore *smart* di una grande marca di televisori e, come vedete e come ho notato subito anche io con grande stupore, dispone tra gli altri di due tasti - tasti veri, fisici - “brandizzati”: Netflix e Amazon Prime. Cliccando quelli si accede direttamente ai contenuti delle due piattaforme di streaming (ovviamente se si ha un abbonamento).
Per la cronaca gli abbonamenti in Italia a ottobre 2017, ultimo dato rinvenuto, erano 800 mila. Nel mondo invece sono 125 milioni: si prevede che il 2018 sarà l’anno di maggior crescita per Netflix, con 28 milioni di utenti in più. E una stima prevede che da qui a 5 anni il totale sarà di 200 milioni di utenti.
Dovessero arrivare in Cina, cosa che al momento non è prevedibile, la situazione potrebbe essere ancor più rosea. E massiva.

Ora come capirete l’esistenza di un tasto fisico sul telecomando è un game-changer: un vero punto di svolta. Si può ipotizzare che quel tasto sia frutto di accordi commerciali, ma visti i numeri degli abbonati può anche darsi che sia semplicemente una scelta del costruttore. Sicuramente è comodo (sempre per chi ha l’abbonamento). E sicuramente ci dice che questa cosa non la possiamo ignorare. È vero che i player sono tanti, è vero che in Italia ad esempio ci sono altri distributori di cinema in streaming che vantano numeri ragguardevoli, ma Netflix e Amazon Prime Video (che rincorre ma che grazie alla forza di penetrazione dell’e-commerce può colmare il gap in fretta) sono i top player di un mercato globale in espansione. Di certo non abbiamo ancora visto tutto.

Qui però entra in gioco un altro elemento che ci riporta a un’esperienza ripetuta e credo condivisa. Se sapete già cosa guardare su una di quelle piattaforme (o su una analoga almeno quanto a interfaccia) siete a posto. Ma se non lo sapete, se vi sedete sul vostro divano, cliccate il tasto del telecomando ora disponibile e vi dite “vediamo un po’ cosa posso vedere”, siete perduti. L’interfaccia vi presenta - in un ordine per altro affatto trasparente - una serie di “locandine” che non sono tra l’altro quelle originali ma sono fatte ad arte da Netflix stesso e che abbattono rigorosamente le differenze. È tutto omogeneizzato, spettacolarizzato e le differenze tra generi sono abbattute: anche il film più cupo e drammatico è impacchettato e infiocchettato nel medesimo modo. “Ti divertirai, ti svagherai” è la promessa, ripetuta con insistenza, complice anche l’affastellamento. Gli elementi per decidere, distinguere, riconoscere sono pochissimi: il rating è ridicolo, le “recensioni” pure, e anche cliccando e accedendo alla schermata di dettaglio viene offerto giusto un minimo di sinossi (senza nemmeno dire la regia, per scoprirlo devi cliccare ancora su una piccola scritta “dettagli”). In più le correlazioni proposte sono irreali.

Come sapete è in corso il festival di Cannes, che ha bandito le opere prodotte da Netflix per un’annosa polemica sul fatto che i suoi titoli vanno in distribuzione streaming senza passare per le sale (o meglio senza rispettare la finestra molto ampia che dovrebbe in Francia separare la proiezione in sala dalla sua successiva disponibilità in streaming o dvd). Una politica di protezione delle sale, forse necessaria e altrettanto discutibile. Il Far East Film Festival conclusosi poco fa, provocatoriamente, ha fatto il contrario: ha inaugurato la sua ventesima edizione con Steel Rain, film coreano targato Netflix. In pratica, dopo quella proiezione al Teatro Nuovo di Udine nessuno mai potrà più vedere quel film al cinema.
Sono due ipotesi altrettanto estreme: ma è vero - come hanno detto quelli del FEFF - che la prima guarda al passato e la seconda al futuro?
So che abbiamo già in passato alle volte toccato questo tasto, ma la riflessione questa volta si declina in un modo diverso e sono sicuro che ci sia molto da indagare. Non si tratta qui di avere atteggiamenti nostalgici, o protezionistici. Non si tratta di dire quanto - per tutti quelli che hanno vissuto in tutto o in parte momenti d’oro della vita del cinema - la visione in sala sia irrinunciabile per apprezzare davvero un’opera. È stato detto e ripetuto: diamolo per assodato. È un'altra cosa: piaccia o no. E allora la domanda è: possono davvero le piattaforme di streaming rinunciare al passaggio nelle sale, con tutto il battage pubblicitario e l’informazione circolante che ne consegue?
Possono permetterselo davvero, anche a fronte di un’interfaccia che offre pochissime informazioni e minimi strumenti decisionali?

Certo, al versante pubblicitario possono sicuramente far fronte anche loro. Due settimane fa ero in Andalusia e Siviglia era letteralmente tappezzata di locandine sulla seconda stagione di La casa di Papel (la casa di carta), serie originale Netflix prodotta in Spagna. Ma questo vuol dire concentrarsi su pochi prodotti che fanno da traino, per conquistare nuovi abbonamenti.
Questi poi verranno mollati lì, con un bel tasto sul telecomando, una miriade di locandine tutte ugualmente mute e, terminata la visione dell'elemento d'aggancio, lunghe sere in cui chiedersi: “e ora cosa guardo?”.
Qualcosa ancora dovrà accadere. Così siamo a metà del guado. E la fine del palinsesto non può sfociare in una gigantesca library virtuale che la lascia lo spettatore solo e senza mezzi di fronte a scelte impossibili. O peggio ancora in una finta gigantesca library virtuale dove in realtà c'è un nuovo palinsesto: quello fatto dai titoli che vengono piazzati in prima fila e che alla fine rappresentano la scelta di chi entra in una biblioteca e chiede il primo libro sullo scaffale.
La speranza è che la library sia vera e che la crescita crei spazio per un espansione verso le nicchie, offrendo cinema di qualità che non ci arriva. Ma a quel punto resterà un grosso problema: chi ci aiuterà a scegliere nella vastità, magari anche un po' impenetrabile.
Chi ci guiderà?

 

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