Fu Nino Manfredi a prestargli il volto, quel volto da italiano medio, affilato, ironico ed afflitto, tuttavia capace di improvvisi squarci luciferini, come a ribadire, a manifestare iconicamente la doppiezza dell’animo umano. Con Gino Girolimoni, il fotografo romano accusato di indicibili orrori criminali e successivamente scagionato (dunque con ogni probabilità innocente), la cronaca nera fece irruzione (durante l’epoca fascista, le diffuse paure, la razionalità punitiva, la necessità di ripristinare una sorta di primigenio ordine) nei mezzi di comunicazione di massa o, comunque, iniziò ad interagire massivamente con l’opinione pubblica. La classica distinzione tra colpevolisti ed innocentisti, gli opposti schieramenti, la strumentalizzazione della vicenda a fini politici (lo stesso Mussolini se ne interessò, ritenendo l’assicurazione alla giustizia del presunto criminale un chiaro segno della efficienza e irreprensibilità del regime). Da allora è stata una rapidissima discesa agli inferi della utilizzazione della cronaca nera in funzione di arma di distrazione di massa. Con gli ovvi ed evidenti rischi connessi: la banalizzazione del male ovvero la sua impropria lucidatura in forma di romanzo d’appendice, l’esplosione della onomatopea massificante (Zio Michele, Mamma Annamaria, la cuginetta Sarah, come se i mass media dovessero, tramite tale lavacro nominale, depurare la propria coscienza, trasportando evidenze giudiziarie nel più assolato terreno della contiguità con le ordinarie vite di tutti), la costruzione di una sceneggiatura in cui ogni ontologica differenza tra vittima e carnefice viene meno (le interviste al presunto colpevole, che tornano ottime a bocce ferme ed a carte scoperte nonché in funzione retroattiva: guardate l’espressione dell’omicida, notate quel lieve movimento del labbro, il tremore della voce) per frullare tutto nel calderone della fame di storie che affligge l’Osservatorio Grande Pubblico.
Fra gli altri casi di interazione tra cronaca nera e sua digestione pubblica non possiamo non citare quello di Wilma Montesi (a suo modo molto cinematografico, stante anche il coinvolgimento del musicista e compositore Piero Piccioni), quello della Marchesa Casati Stampa (sesso, sangue, nobiltà: ad avercene oggi, di storie così fortemente caratterizzate, si potrebbero riempire decine e decine di palinsesti, migliaia di pagine di giornali – e in parte è già avvenuto, con le dovute distinzioni sul piano della morbosità onanistica,con il delitto Gucci o quello della contessa Vacca Agusta-), il delitto di via Poma (trasposto in una fiction molto generalista, come è naturale ed anche giusto che le fiction siano), il caso del mostro di Firenze (anche qui orrendi film italiani che spingevano forte il pedale del voyeurismo, per non parlare del contadino Pietro Pacciani, perfetto e devastante esemplare di homo homini lupus ma anche cinematograficus, con le sue invettive in vernacolo fiorentino, le madonne ed i cristi svolazzanti, i compagni di merenda. Se non si fosse trattato di uno spaccato di alta drammaticità, Pacciani sarebbe stato l’erede discolo e deteriore di Mario Cioni, dei fintamente allegri Amici Miei, un disperato ed ante litteram Nuti ultima versione, un Pieraccioni bastardo, un Carlo Conti che usa cannibalismo sui concorrenti. Con i consequenziali picchi di audience).
Sta per uscire (e sarà in concorso a Cannes) Dogman, ultima fatica di Matteo Garrone ispirata ai fatti del famigerato canaro della Magliana. Uno dei casi di cronaca nera più efferati degli ultimi decenni, la rappresentazione plastica (nonché raccontata, sviscerata, romanzata, vivisezionata) di come un’apparente docilità, una evidente subalternità possa all’improvviso trasformarsi in malvagità pura come acqua di fonte, in violenza che non fa prigionieri ma solo vittime, in ineffabile superomismo delle borgate. A ben guardare, tutto il cinema di Garrone è costantemente impregnato di un’algebra dei rapporti di forza, frequentemente destinati a deteriorarsi o a ribaltarsi, ogni sua scena è il quadro di un’umanità che cerca e si cerca, si perde, trascina con sé, nel gorgo del nulla, i suoi simili. A maggior ragione può dirsi che Garrone è il regista che, più di ogni altro tra i contemporanei, ha saputo ricomporre e destrutturare a suo modo i più eclatanti episodi di cronaca nera, scarnificandoli degli effettacci da talk show, essiccandoli in un movimento di psicologie avvolgente ed ipnotico. Al centro non c’è tanto l’essere umano, quanto le sue pulsioni, le sue manie, le sue inquietudini e, sopra ogni cosa, il modo con il quale tali pulsioni, manie ed inquietudini interagiscono con il protagonista malato ed i suoi compagni/antagonisti. L’autore romano ha ceduto alla fascinazione per il male dell’uomo medio ma anche, spinto da una curiosità entomologica molto intellettuale, ha reinventato il modo di guardare la cronaca nera, interiorizzandola, quasi seminandola lievemente nell’inconscio dello spettatore. Anzi, ogni suo film ispirato a fatti reali potrebbe leggersi con un titolo diverso: quello di una spinta, di una motivazione psicologica deviante che agisce, eterodirige le scelte del suo portatore.
LA GELOSIA E LA DIVERSITA’ ovvero L’imbalsamatore (qui la recensione, se mi si perdona l’autocitazione //www.filmtv.it/film/23817/l-imbalsamatore/recensioni/839091/#rfr:none). Il nano di Termini Domenico Semeraro, tassidermista. Della sua vita e della sua morte (1990). L’identità sessuale e psicologica, il sottile gioco del plagio che da sentimentale si fa ossessivo, il menage a trois, l’impossibilità di amare e la non contemplabilità del rinunciare a qualcosa ed a qualcuno. Paesaggi urbani fitti di assenza, irti di nebbia e vuoti (Roma invisibile, Castel Volturno, Cremona e la sua quarta t, come tristezza). Un thriller psicologico che scava nella temperie dell’anima, delinea avvicinamenti e respingimenti, declina parole vaghe e vacue, infine esplode nel silenzio della morte. Un gioco di coppie che spariglia l’aritmetica, la donna elemento disturbante, un’omosessualità che resta allo stato di latenza e che pure innesca ogni possibile gioco di ruolo. Garrone avvince e convince, si affida alla interpretazione magnifica di Ernesto Mahieux (nella prova più entusiasmante della carriera), inizia ad elaborare con consapevolezza quel percorso di riadattamento della cronaca, di sua sublimazione in horror della ragione e del sentimento.
LA PARAFILIA ovvero Primo amore. Marco Mariolini, il cacciatore di anoressiche. L’amore che si impone ed impone dei limiti (nello specifico quelli dettati dal peso corporeo), la perversione vissuta nel suo atout di normalità, l’incapacità di concepire altro che quel sentimento totalizzante. Garrone rinuncia alle scene madri: non c’è sangue, non c’è (fino ad un passo dai titoli di coda) morte. La nerissima cronaca di una dipendenza psicologica dall’altro sta tutta nei dialoghi e negli sguardi, nelle sedute al ristorante che sono rabbrividenti sessioni di pulsioni egotiche travestite da amore. Un uomo, una donna, un accordo, un patto scellerato. Ti amo se, ed Io ti amo perché. I codici indescrivibili dell’amore, le regole di coppia che ci si autodetta in coppia. Mica vero: l’amore è un rapporto di forza, c’è sempre qualcuno che calca la mano, definisce, impone, traccia le coordinate. Offuscamento e nebbie interiori, dimagramento del corpo e ingrassamento del narcisismo. Qualcosa è destinato a rompersi: un diamante pegno d’amore sarà per sempre, un plagio sentimentale no.
L’ALTERITA’ ovvero Reality (//www.filmtv.it/film/47168/reality/recensioni/847462/). Il pescivendolo Luciano e la sua vita non vissuta. Garrone ribalta Montale: ciò che non siamo è ciò che vogliamo. Perché cronaca nera? Al di là delle facili suggestioni biografiche (il meraviglioso attore Aniello Arena sconta nel carcere di Pisa la pena dell’ergastolo) l’apparente leggiadria del tocco, i colori, gli icastici caroselli della napoletanità farebbero pensare ad un film di leggera critica sociale. Invece no: siamo in ambito cronaca nerissima, in un territorio di temibilissimi smottamenti della ragione e dell’anima. L’uomo che si guarda allo specchio e no sa riconoscere il se stesso di prima, offuscato da un sogno che è la speranza di svoltare che hanno i miserabili di pensiero. Il reality show, ovvero la fama che annienti la fame, la telecamera che eterni i connotati, i lustrini che facciano brillare gli stenti. Sogno alla portata di tutti (televisiva vita reale docet), sogno le cui catene non tutti possono permettersi. Non Luciano: braccato da un’idea, annientato dalla speranza, sotterrato dalla falsa rappresentazione della realtà. Un uomo morto dentro, di cui nessuno parlerà, che anzi inizia a parlare da solo, di fronte ad un grillo muto, anche esso arresosi all’evidenza del dramma. Garrone viviseziona ed impaglia (anch’egli imbalsamatore) il desiderio frustrato, realizza ad oggi il film forse più disperato e disperante proprio perché, non soggiacendo ad un episodio reale, da cui tutti possano ipocritamente prendere le distanze, mette in piazza tutto quello che, senza saperlo, siamo diventati.
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