“Ma allo stesso tempo mi sembrava che quel viaggio ripercorresse un paesaggio già molto visto in tanti altri bei film, c'era il rischio di lasciarsi catturare dai cliché, così come a volte capita ai registi americani quando girano in Italia e finiscono per inquadrare soprattutto luoghi turistici e pittoreschi. “
Sono parole di Paolo Virzì, prese dal pressbook di presentazione di Ella & John, il suo primo film “americano”, presentato a Venezia e che da oggi (per me che scrivo) è nelle sale italiane. Quando ho saputo che anche Virzì si apprestava a girare negli USA, un po’ mi sono stupito. Lui - così legato a storie italiane e a personaggi squisitamente italiani - mi è parso il meno papabile per una produzione americana. Poi quando ho letto che si trattava di un road movie ho pensato: ci risiamo.
Sì dai, perché è già successo un po’ troppo spesso che un autore - e non sto parlando solo di registi italiani - nel momento in cui per qualche motivo gira in America sì trova a fare un film on the road. Esempi? Be’ al volo penso a Wenders con Paris, Texas. O a Sorrentino con This Must Be The Place.
C’è qualcosa di prevedibile in ciò. Un regista in viaggio fa un film in viaggio. È difficile, se non impossibile, fare un film stanziale, raccontare storie “locali”, immedesimarsi fino in fondo in culture che non ci appartengono. Senza vivere una realtà non la si può raccontare. Punto. Penso ad esempio a un regista che in molti amiamo (io sì, almeno), Ken Loach, e quel disastro di film che mi era parso a suo tempo La canzone di Carla, in parte girato in Nicaragua. Cartolinesco, didascalico, a tratti ridicolo. E infatti se ne è tornato per fortuna a raccontare storie di casa sua.
Le cose, come dice Virzì, non vanno affatto meglio quando registi stranieri vengono a girare in Italia. Magari può funzionare solo quando il regista diventa un director, ovvero uno che guida il film - opera collettiva - senza però proporsi come autore. Hollywood ha senza sosta cooptato talenti nell’arte di raccontare, inserendoli però nel proprio processo produttivo, dove la sceneggiatura è data e il ruolo del regista (non più autore) è assai più limitato e deve sottostare ai diktat produttivi. Si tratta in quei casi di un vero e proprio ingaggio, di una prestazione d'opera, come potrebbe essere - poniamo - per un direttore della fotografia.
Il film on the road invece è una specie di ciambella di salvataggio per il regista-migrante. I luoghi possono essere solo cornice, paesaggio, e la storia svolgersi tutta nell’abitacolo o comunque nella relazione tra i personaggi. Un film di viaggio può anche diventare un kammerspiele girato in una stanza con pareti cangianti e gli incontri occasionali servono solo a rendere il tutto più vario e concorrere a svelare meglio dinamiche relazionali e carattere dei personaggi (non sempre eh, ci sono anche road movie nei quali il luogo entra con prepotenza, sia ben chiaro).
Ma in fondo la verità, con le dovute eccezioni, è che sono spesso molto sospettoso quando un regista va all’estero a girare (per i film di genere è diverso, chiaro) e mi trovo d’accordo con Antonioni, che ebbe la modestia di dire “« In effetti non conosco un film girato in America da un europeo che sia un capolavoro, a parte gli europei trapiantati definitivamente. Sono molto dubbioso per il mio film. Non vedo perché dovrei riuscirci proprio io.”
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PS: non ho visto il film di Virzì, sia ben chiaro, e questo non costituisce un giudizio di valore sul suo film, che magari mi stupirà.
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