Oggi pare quasi impossibile pensare di affrontare la giornata senza l'utilizzo del cellulare. Eppure è esistito un mondo nel quale il diabolico strumento non era nemmeno immaginabile, e se lo era appariva come qualcosa di fantascientifico e lontanissimo dalla realtà quotidiana. Fino a 30 anni fa l'apparecchio telefonico era qualcosa di fisso, da tenere in casa o utilizzare esclusivamente in ufficio. Quando si telefonava in teleselezione o interurbana c'erano i famigerati scatti che facevano balzare le bollette della SIP (all'epoca unico e solo gestore telefonico) a cifre elevatissime.
Così, quando si chiamava la nonna o la zia, o peggio ancora il fidanzatino conosciuto al mare, si doveva parlare velocemente e cercare di non prolungare troppo le conversazioni per non pagare il surplus. Il telefono era uno strumento condiviso con l'intera famiglia, con la quale spesso sorgevano litigi furibonde proprio per gli orari e le durate delle telefonate.
Mia madre, ad esempio, era una di quelle che spesso e volentieri bruciava il mangiare sui fornelli per le sue chiacchiere al telefono, apparecchio che era posizionato su un apposito mobiletto nel corridoio, sopra il temutissimo centrino. Per averlo in camera, ad età adolescenziale, ho dovuto insistere non poco, ed è stata una conquista non priva di interminabili trattative. Ovviamente la privacy con il telefono antico era cosa fuori discussione: chiunque poteva rispondere al primo trillo e scoprire chi era al di là della cornetta, cosa e chi volesse e perché.
Altri tempi, altre usanze che implicavano anche un altro tipo di educazione. Fare una telefonata a qualcuno voleva dire prendersi quei minuti da dedicare esclusivamente a quella persona. Non si poteva camminare per la strada o mangiare o fare altro mentre si telefonava, bisognava fermarsi in casa o in una cabina telefonica (e magari in quel caso aspettare il proprio turno se la si trovava occupata) e concentrarsi finalmente solo sulla conversazione.
Il telefono era quindi uno strumento che portava sì lontano, ma rimaneva un punto fisso nella nostra casa al quale ci si poteva dedicare solo quando non c'era altro da fare.
Nessuno era raggiungibile sempre e comunque, il termine “connesso” era sconosciuto, e se si aveva una necessità o una urgenza bisognava raggiungere “il telefono più vicino”, i numeri più importanti venivano memorizzati a vita a furia di girare col dito il disco telefonico e successivamente pigiando i tasti della tastiera.
Quando si chiamava a casa di qualche amico, spesso rispondeva un membro della sua famiglia, e si doveva perciò avere una sorta di educazione comunicativa: salutare, presentarsi, chiedere se era in casa tizio o caio, a seconda di chi rispondeva informarsi sulla sua salute e magari scambiare 2 parole di convenienza.
Anche il cinema ovviamente non è rimasto immune al fascino telefonico, rendendolo spesso e volentieri il protagonista di intere trame, oppure caricandolo di responsabilità per la riuscita della storia. In Italia poi, nel periodo fascista, ha avuto l'ardire di battezzare un genere, il così detto periodo dei “telefoni bianchi”, che stava ad indicare pellicole leggere e tutte rivolte alle storie d'amore tra amanti dell'aristocrazia di un periodo che tutto era tranne che leggero. Il telefono che piace di più a me non è però quello bianco delle conversazioni amorose, ma piuttosto quello “giallo”, dei noir, dei thriller se non addirittura dell'horror.
Barbara Stanwyck de “Il terrore corre sul filo” di Anatole Litvak, ad esempio, che immobilizzata a letto riceve al telefono da uno sconosciuto la sua condanna a morte. La corsa contro il tempo per rintracciare il marito ed essere salvata è resa possibile solo dal telefono nero che tiene sul comodino. Un noir del 1948 che ancora oggi fa storia nel suo genere.
Alfred Hitchock è stato uno dei maestri nel saper caricare un oggetto di pathos, come non ricordare il telefono di “il delitto perfetto” o de “La finestra sul cortile”? Il telefono è in primo piano, viene quasi sezionato, la macchina da presa gli gira in torno, non lo perde mai di vista. La cornetta telefonica diventa un'arma di salvezza, un'ancora alla quale salvarsi, perde la sua originaria funzione e agli occhi dello spettatore diventa altro.
L'utilizzo del telefono ha spesso e volentieri aumentato i momenti di pathos: la cornetta stretta tra le mani del protagonista, le labbra vicine al microfono che sussurrano parole chiave per comprendere i risvolti della storia, il filo tagliato che interrompe le comunicazioni e non permette di chiedere aiuto, le dita che intrecciano nervosamente il filo, ci sono tra i primi piani più belli alle attrici più affascinanti con la cornetta del telefono in mano.
Oggi molte soluzioni narrative sono lasciate più agli sms o alla comunicazioni in chat piuttosto che ai dialoghi, questo sia al cinema che nella realtà, forse la cosa perde di romanticismo ma sono altri tempi...altri oggetti.
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